Sabato scorso è morto in carcere, in circostanze ancora da chiarire, Shady Habash, un giovane videomaker che aveva diretto il video di una canzone satirica su Al Sisi. Altri due giovani coinvolti nella realizzazione del video sono tuttora in carcere. Il mondo intellettuale egiziano si mobilita per chiedere verità per Shady e libertà per tutti gli artisti e gli intellettuali incarcerati in Egitto.
Il 2 maggio è morto Shady Habash a soli 24 anni nel carcere di Tora in Egitto, dopo quasi due anni di detenzione in attesa di un processo. Era un fotografo e videomaker. Nel 2018 aveva diretto il videoclip della canzone satirica “Balaha” sul presidente egiziano Al Sisi, con protagonista il cantante Ramy Essam.
Pochi giorni dopo l’uscita della canzone, Shady venne arrestato insieme ad altri giovani egiziani che avevano preso parte alla realizzazione del video, tra cui Galal el Behery, autore del testo della canzone e Mostafa Gamal, un giovane studente di informatica (che in realtà con la canzone nulla c’entrava).
La canzone ha avuto un immediato successo. Il primo giorno di pubblicazione ha raggiunto oltre tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Il testo è una chiara critica alla seconda candidatura di Al Sisi nelle elezioni del 2018, nonché un’esplicita denuncia delle diseguaglianze sociali presenti all’interno del paese.
Il cantante Ramy Essam, musicista, attivista e volto noto della rivoluzione egiziana, che nel 2011 aveva subito delle torture, si trova al momento in esilio in Europa.
“La prigione non uccide, lo fa la solitudine. Ho bisogno del vostro supporto per non morire. Negli ultimi due anni ho provato a resistere. (…) Ti fermi, dai di matto o lentamente muori perché sei stato buttato dentro una stanza due anni fa e sei stato dimenticato, non sapendo quando ne verrai fuori. Io sono ancora in prigione e ogni 45 giorni devo andare davanti ad un giudice che mi dà altri 45 giorni senza guardare in faccia me né i documenti del caso grazie ai quali molti sono stati liberati sei mesi fa. La mia prossima udienza sarà il 19 novembre. Ho bisogno di supporto e ho bisogno che ricordiate che io sono ancora in prigione e che il regime si è dimenticato di me. Sto lentamente morendo perché so che sto restando solo di fronte a tutto. (…) Ho bisogno del vostro supporto e aiuto”.
Queste sono state le ultime parole scritte in una lettera da Shady nell’ottobre del 2019. Il giovane egiziano è morto in carcere, nonostante fosse terminato il tempo massimo di detenzione cautelare previsto per legge per l’emissione di una sentenza.
Le notizie circa ciò che ha preceduto la sua morte sono state pubblicate sui social dai numerosi attivisti e giornalisti egiziani, i quali denunciano la negligenza avuta nei confronti dello stato di salute di Shady. Secondo le notizie a loro giunte, il regista avrebbe avuto un forte malore allo stomaco prima di morire.
“I detenuti della cella numero quattro hanno indetto uno sciopero della fame. Hanno iniziato a gridare dall’una di notte per chiedere di soccorrere il compagno Shady, ma senza ottenere risposta. La cella è stata aperta solo alle 8 del mattino. I detenuti hanno ricevuto minacce da parte dei funzionari della prigione nel caso proseguissero con lo sciopero”, si legge sul profilo Facebook di Sara Mohani, giornalista egiziana esule in Italia da ormai un anno.
A temere per la sorte dei detenuti, presenti nella cella dove è morto Shady, anche lo storico attivista e giornalista Abdelrahman Fares. Nella stessa prigione è presente infatti anche Hassan Al Banna, il fratello minore del giornalista.
“I detenuti del reparto numero quattro del carcere di Tora hanno indetto uno sciopero della fame, in segno di protesta contro la noncuranza avuta nei confronti di Shady Habash. Mio fratello Hassan Al Banna si trovava accanto a Shady quando è morto. Non è il primo giovane a morire dentro questa cella, dieci mesi fa è morto un altro detenuto, Omar Adil. Mio fratello Hassan ha problemi di salute al cuore e questo per lui è stato uno shock. Ora si teme per le ripercussioni che possono subire i detenuti che hanno iniziato lo sciopero”, si legge sul profilo Facebook di Abdelrahman Fares, esule da diversi anni in Qatar.
Galal el Behairy, poeta egiziano e autore del testo della canzone “Balaha” è stato condannato a 3 anni di detenzione da un tribunale militare. Le accuse a suo carico sono la diffusione di false notizie, l’abuso dell’utilizzo dei social, blasfemia e insulto agli organi militari.
Dopo mesi dalla sua carcerazione, nel settembre del 2019, ha scritto una lunga lettera dal carcere per chiedere aiuto e sostegno:
“Se leggerai questa lettera, di qualunque genere tu sia e in qualunque paese ti trovi: io mi chiamo Galal El Behairy, ho 28 anni. Sono stato arrestato perché scrivo poesie. Sono stato messo dinanzi a dei giudici che dovrebbero occuparsi di giudicare terroristi, ladri, stupratori e non scrittori, poeti e drammaturghi. Sono felice nello scrivere questa lettera e nell’immaginare che verrà letta da un umano, al di fuori di questa prigione malinconica. A quell’umano vorrei dire che ho bisogno di qualcuno che mi ricordi nelle sue preghiere e nelle sue invocazioni”.
A distanza di circa un anno e mezzo dalla sua prima lettera e con l’avvicinarsi dei suoi trent’anni, Galal ha scritto e fatto giungere al di fuori del carcere una seconda lettera:
“Vi scrivo da una prigione che è casa e da un paese divenuto prigione. Ho quasi trent’anni, ieri ero un ragazzo giovane con il volto rivolto verso il cielo, ora mi sforzo di sopravvivere dentro una prigione che logora i nostri sogni, come logora i nostri corpi. Oggi vi scrivo di un sogno. Quanti sogni sono nati per morire tra queste sbarre?”
“Il mio sogno è al limite tra la vita e la morte, ma vorrei comunque condividerlo, forse un giorno sarà degno di rispetto e molta tristezza. Forse verrà preservato insieme alle immagini di una vita che avevamo sperato. Io Galal el Behairy, poeta egiziano, sogno di diventare padre. Sogno un figlio che rivolga anche lui il suo volto verso il cielo, che si porti i miei geni e debolezze. Sogno una donna che vive in qualsiasi angolo di questa terra e non ho mai toccato. Nel suo utero porta un bambino che se non porterà il mio nome, vivrà un sogno che non oscilla tra la vita e la morte”.
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A differenza di Galal El Behairy e Shady Habash, il giovane informatico Mostafa Gamal non aveva alcun ruolo nella realizzazione della canzone incriminata. È stato comunque arrestato nel marzo del 2018 solo perché il suo nome era apparso nella pagina del cantante egiziano Ramy Essam. Ben tre anni prima della realizzazione e dell’uscita del videoclip della canzone “Balaha”, Mostafa Gamal aveva solo aiutato il cantante Ramy ad autenticare la sua pagina Facebook come personaggio pubblico. Questa semplice operazione informatica è costata a Mostafa non solo il carcere, ma anche il non poter salutare il padre morto di recente il 14 aprile. Lo stesso Ramy Essam, in un video pubblicato nei suoi canali social, ha dichiarato di non aver mai incontrato personalmente Mostafa, ma di esserci entrato in contatto solo per questioni informatiche inerenti al suo profilo.
L’appello lanciato dagli attivisti, giornalisti, fotografi, in Egitto o al di fuori del grande stato nordafricano, è di non dimenticare, di sostenere e chiedere la libertà dei detenuti come era stato chiesto dallo stesso Shady Habash prima della sua morte.
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