La normalità di Gomorra

Roberta de Monticelli

L’uomo è un animale cooperativo. Ma nella società italiana di oggi prevale la logica della “consorteria”. Anticipiamo la lezione che Roberta de Monticelli terrà stasera (ore 18, Piazza Garibaldi di Sassuolo) in occasione del FestivalFilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – fino al 18 settembre: www.festivalfilosofia.it.  

, da il Fatto quotidiano, 16 settembre 2011

C’è normalità e normalità, nella vita quotidiana degli uomini. La Grecia ha inventato l’etica e la politica. E i nostri modelli educativi mirano a formare esseri umani capaci di libera decisione, di responsabilità, di veglia morale e riflessione critica – detto altrimenti, “capaci di pensare con la propria testa”. Ma la storia recente ci insegna che di questo tipo umano le comunità, anche quelle che hanno sviluppato istituzioni come la democrazia, possono facilmente fare a meno, come Aldous Huxley vide assai bene quando prospettò, in Brave New World, la sua società di ipnotizzati morali. La “questione morale” è in effetti una questione antropologica, nel senso che il modello “socratico” di umanità è una possibilità, ma certamente non una necessità della nostra natura. Una possibilità preziosa, tuttavia, di cui dobbiamo chiarire il fondamento, se vogliamo provare a combattere il progressivo affermarsi delle società di ipnotizzati morali, per i quali è “normalità” proprio quell’assenza di virtù socratiche che il Novecento ha fotografato nell’espressione “banalità”. Del male.

L’uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola “normalità”, proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla. Questa è anche la ragione per la quale la degenerazione della lingua nello spazio della ragione pubblica è un sintomo così grave di declino della civiltà, perché eleva a “normalità” lo sgorbio, il solecismo, perfino l’osceno.

Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di “normalità” umana che è centrato sul potere dell’interrogativo, sul fondamento delle norme. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia, l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. È il modello della veglia morale: «Fatti non foste a viver come bruti…». Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione. La “normalità ” socratica è il rinnovamento morale quotidiano. In un certo senso è l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi.

La normalità come rinnovamento tende sempre a sclerotizzarsi nella normalità come routine. La veglia del dovuto tende sempre a decadere nel sonno del “si fa così”. Lo stupore e lo sdegno tendono sempre a spegnersi nell’indifferenza e nella rassegnazione. E questo è possibile proprio perché le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Alla base della cultura c’è una mutazione genetica che ci rende animali cooperativi, a differenza degli altri primati – come hanno mostrato le ricerche di Michael Tomasello. Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia – quello che cambia non è necessariamente l’efficienza dell’organizzazione, ma la distribuzione equa dei doveri e dei diritti. Da uno zero a un massimo di giustizia. Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è oggettivamente la tendenza a co-operare non nel rispetto del dovuto, ma conformemente al vantaggio dei cooperanti (qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei). Il modello di normalità umana che sembra oggi dominante, almeno qui, è la “normalità” dell’uomo di consorteria. Questa coincide con la soggettività degli ipnotizzati morali. Al meglio, è semplicemente quella dell’uomo tribale o dell’uomo pre-moderno, che non ha ancora trovato se stesso come qualcosa di distinto dal “noi” collettivo, o l’ha perduto: l’uomo-massa. Al peggio, è la soggettività così caratteristica dei nostri giorni, per la quale non abbiamo ancora una parola, se non la banalizzazione della parola “normale”.

È la normalità incosciente, nel senso letterale di priva di coscienza morale, letteralmente priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo. È la mentalità dell’esecutore di posizioni prese altrove, che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno servo dei potenti. È ovunque caratterizzata dalla perfetta assenza di una disponibilità personale a rispondere di decisioni, comportamenti o asserzioni – anche le proprie: esattamente come se fossero “prese altrove”. Il tipico rappresentante di questa normalità esiste in una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria a responsabilità personale nulla di cui si tratta: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose.

(16 settembre 2011)

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