La politica di Dio

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In questo saggio, pubblicato sul domenicale del New York Times e da settimane al centro del dibattito politico-culturale negli Usa, un filosofo americano emergente, ripercorrendo la storia della teologia politica, ci mette in guardia: ‘Fintanto che un gran numero di persone crede nella verità di una teologia politica globale non ci si può aspettare la piena riconciliazione con la democrazia liberale moderna’.

di Mark Lilla

‘La volontà di Dio trionferà’
Il crepuscolo degli idoli è stato rimandato. Per più di due secoli, dalla rivoluzione americana e da quella francese al crollo del comunismo sovietico, la politica mondiale si è concentrata su problemi eminentemente politici. Guerra e rivoluzione, classe e giustizia sociale, razza e identità nazionale: queste le questioni che ci hanno diviso. Oggi siamo arrivati al punto in cui i nostri problemi ricordano di nuovo quelli del XVI secolo, avviluppati come siamo in conflitti sulla vera rivelazione, la purezza del dogma e il dovere religioso. Qui, in Occidente, siamo inquieti e confusi. Abbiamo anche noi i nostri fondamentalisti, e troviamo incomprensibile che le idee teologiche ancora smuovano passioni messianiche, portando la società alla rovina. Credevamo che una cosa del genere non fosse più possibile, che gli esseri umani avessero imparato a separare le questioni religiose da quelle politiche, che il fanatismo fosse morto. Ma avevamo torto.
Un esempio: a maggio dell’anno scorso il presidente iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad ha indirizzato al presidente George W. Bush una lettera aperta tradotta e pubblicata sui quotidiani di tutto il mondo. Vi si parlava di attualità politica col linguaggio della rivelazione divina. Dopo la recita della litania delle rimostranze per la politica estera americana, reale e immaginaria, Ahmadi-Nejad scriveva: «Se i profeti Abramo, Isacco, Giacobbe, Ismaele, Giuseppe o Gesù Cristo (la Pace sia con Lui) fossero stati oggi con noi, come avrebbero giudicato un simile comportamento?». Non era una domanda retorica. Ahmadi-Nejad continuava: «Mi hanno detto che Sua Eccellenza segue gli insegnamenti di Gesù (la Pace sia con Lui) e crede nella promessa divina che i giusti trionferanno sulla terra», ricordando ai credenti come lui che «secondo i versi divini, tutti siamo stati chiamati a venerare un unico Dio e a seguire gli insegnamenti dei suoi Profeti». Segue una sorta di chiamata dei fedeli all’altare, in cui il presidente americano viene invitato a comportarsi secondo quei versi. Continua poi con una profezia minacciosa: «Il liberalismo e la democrazia di stile occidentale non hanno realizzato gli ideali umanitari. Oggi quei due ideali sono falliti. Chi sa ascoltare già sente lo schianto del crollo dell’ideologia e del pensiero dei sistemi democratico-liberali. […] Che ci piaccia o no, il mondo va verso la fede nell’Onnipotente; e la giustizia e la volontà di Dio trionferanno su ogni cosa».
Questo è il linguaggio della teologia politica, che per millenni è stata l’unica lingua a disposizione degli esseri umani per esprimere i loro pensieri sulla vita politica. È primordiale, ma anche contemporaneo: milioni e milioni di uomini ancora inseguono l’ideale di ricondurre tutta l’esistenza umana sotto l’autorità divina, e hanno i loro motivi. Per capirli basta interpretare la lingua della teologia politica. Ma è proprio questo quello che ci riesce più difficile fare. Una lettera come quella di Ahmadi-Nejad ci fa ammutolire, come esploratori che incappino in un’antica iscrizione geroglifica.
È un problema nostro, non suo. Poco più di due secoli fa abbiamo cominciato a credere che l’Occidente avesse imboccato una strada a senso unico verso la democrazia moderna e laica e che le altre società, una volta imboccato lo stesso percorso, l’avrebbero inevitabilmente seguito. Malgrado le cose non siano andate così, ancora conserviamo una tacita fede nel processo di modernizzazione e attribuiamo i ritardi a circostanze attenuanti come la povertà o il colonialismo. Una convinzione che detta il nostro modo di vedere la teologia politica, soprattutto nella sua forma islamica, come atavismo che richiede un’analisi psicologica o sociologica ma non un serio impegno intellettuale. I musulmani, anche quando si tratta di professionisti colti, ci appaiono prima di tutto come rappresentanti frustrati e irrazionali di società frustrate e irrazionali, niente più. Viviamo, per così dire, sull’altra sponda. Quando osserviamo quelli dall’altra parte, rimaniamo perplessi, perché serbiamo solo una lontana memoria di com’era pensare come pensano loro. Tutti affrontiamo gli stessi interrogativi sulla vita politica, ma il loro tipo di risposta ci è diventato estraneo. Da una sponda le istituzioni politiche sono concepite dal punto di vista dell’autorità divina e della redenzione spirituale; dall’altra no. E questo, come avrebbe detto Robert Frost, fa tutta la differenza.
Comprendere tale differenza è il compito intellettuale e politico più urgente del nostro tempo. Ma da dove cominciare? Il caso dell’islam contemporaneo è ben presente nella mente di tutti, ma così soffuso di rabbia e ignoranza da risultare paralizzante. Non sentiamo altro che suoni incomprensibili che motivano atti detestabili. Se vogliamo sperare di trovare la chiave della grammatica e della sintassi della teologia politica, a quanto pare dobbiamo cominciare con noi stessi. La storia della teologia politica in Occidente è assai istruttiva e non è morta con la nascita della scienza moderna, o con l’Illuminismo, o con la rivoluzione americana né con quella francese, né in un altro qualunque momento storico decisivo. La teologia politica è stata una presenza nella vita intellettuale occidentale fin dentro il XX secolo, quando aveva dismesso il paradigma medievale e trovato ragioni moderne per cercare ispirazione politica nella Bibbia. A tutta prima questa moderna teologia politica esprimeva una visione apparentemente illuminata ed era accolta da coloro che avevano a cuore le sorti della democrazia liberale. Ma dopo la prima guerra mondiale prese una piega apocalittica, e «uomini nuovi» ansiosi di abbracciare il futuro presero a produrre giustificazioni teologiche per le più ripugnanti – ed empie – ideologie del tempo, nazismo e comunismo.
È una storia spaventosa, una storia che suscita interrogativi profondi sulla fragilità della nostra prospettiva moderna. Anche le più stabili e riuscite democrazie, con i credenti più magnanimi e civili, si sono dimostrate vulnerabili al messianesimo politico e alla sua giustificazione teologica. Se riusciremo a capire come questo si sia potuto verificare nell’Occidente progressista, se riusciremo a sentire la voce della teologia politica in una lingua più riconoscibile, parlata da gente dall’aspetto, dall’abbigliamento e dai nomi familiari, forse allora riusciremo anche a ricordarci come appare il mondo da quella prospettiva. Questo rappresenterebbe un piccolo passo per misurare la sfida che ci aspetta e decidere come rispondere.

La Grande Separazione
Perché la teologia politica? L’interrogativo risuona in tutta la storia del pensiero occidentale a cominciare dall’antichità greco-romana giù giù fino ai giorni nostri. Sono state proposte tante teorie, soprattutto da coloro che diffidano dell’impulso religioso. Eppure pochi riconoscono la razionalità della teologia politica o penetrano nella sua logica. La teologia è, dopotutto, una serie di ra
gioni che la gente si dà per spiegare le cose come sono e come dovrebbero essere. Perciò cerchiamo di immaginare come queste ragioni possano comprendere Dio e avere implicazioni per la politica.
Pensiamo agli esseri umani che dapprima hanno coscienza di se stessi in un mondo che non hanno fatto loro. Il loro mondo ha un’origine sconosciuta e si comporta in modo regolare, e gli esseri umani si chiedono perché. Sanno che le cose che costruiscono si comportano in modo prevedibile perché le pensano e le costruiscono avendo in mente un fine. Tendono l’arco e la freccia vola: gli strumenti fanno quello per cui sono stati costruiti. Così per analogia non è stato loro difficile immaginare che l’ordine cosmico fosse stato costruito a un fine che riflette la volontà del suo artefice. Seguendo questa analogia, hanno cominciato a farsi delle idee su questo artefice, sulle sue intenzioni e di conseguenza sulla sua personalità.
Compiendo questi brevi passi, la mente umana si trova di fronte a un quadro, un’immagine teologica in cui tra Dio, uomo e mondo esiste una connessione divina. I credenti hanno ragioni per credere di vivere all’interno di quella rete, così come per ritenere che offra loro una guida per la vita politica. Ma come vada interpretata quella guida e se i credenti la ritengano o meno imperativa, dipenderà dal modo in cui immaginano Dio. Se Dio viene pensato come passivo, una forza silenziosa come il cielo, non ne consegue niente di specifico. È un’ipotesi della quale non possiamo fare a meno. Ma se prendiamo sul serio l’idea che Dio sia una persona con delle intenzioni e che l’ordine cosmico sia il risultato di quelle intenzioni, allora ne conseguono un bel po’ di cose. Le intenzioni di un simile Dio rivelano qualcosa che l’uomo non può conoscere pienamente da solo. Tale rivelazione poi diviene la fonte dell’autorità divina sulla natura e su di noi, e non ci rimane altra scelta che ubbidirgli e far sì che i suoi piani siano realizzati sulla terra. Ed è qui che entra in gioco la teologia politica.
Un forte elemento di attrazione della teologia politica, in qualsiasi forma, è la sua caratteristica totalizzante. Offre un giudizio sulla condotta umana e collega tali valutazioni ad altre, più nobili, sull’esistenza di Dio, la struttura del cosmo, la natura dell’anima, l’origine di tutte le cose e la fine del tempo. Per più di un millennio, l’Occidente si è ispirato all’immagine cristiana di un Dio trino, che governa il cosmo e guida gli uomini attraverso la rivelazione, la persuasione interiore e l’ordine naturale. Un quadro magnifico che ha permesso la fioritura di una civiltà magnifica e potente. Ma si trattava di un quadro sempre difficile da tradurre teologicamente in una forma politica: Dio, il Padre, aveva dato i comandamenti; quindi era venuto un Redentore a re-interpretarli e poi se ne era andato; e ora era rimasto lo Spirito Santo come una presenza divina spirituale. La lezione politica estraibile da tutto ciò non era affatto chiara. Forse che i cristiani si sarebbero dovuti ritirare da un mondo corrotto e abbandonato dal Redentore? O erano invece chiamati a regnare sulla città terrena con la Chiesa e lo Stato, ispirati dallo Spirito Santo? O ancora dovevano costruire la Nuova Gerusalemme che avrebbe accelerato il ritorno del Messia?
Per tutto il Medioevo, quegli interrogativi furono lungamente dibattuti dai cristiani. La Città dell’Uomo veniva contrapposta a quella di Dio, la figura pubblica del cittadino a quella privata del religioso, il diritto divino dei re a quello di resistenza, l’autorità della Chiesa all’antinomismo radicale, la legge canonica all’illuminazione mistica, l’inquisitore al martire, la spada secolare alla mitra ecclesiastica, il principe all’imperatore, l’imperatore al papa, il papa ai concili ecclesiastici. Nel tardo Medioevo il senso della crisi era palpabile e perfino la Chiesa romana riconobbe la necessità delle riforme. Ma intorno al XVI secolo, grazie a Martin Lutero e a Giovanni Calvino, non c’era più un universo cristiano unitario da riformare, ma una varietà di Chiese e di sette, per lo più alleate con i diversi potentati, ansiose di asserire la loro indipendenza. Nelle successive guerre di religione le differenze dottrinali alimentarono le ambizioni politiche e viceversa, in un circolo vizioso mortale durato un secolo e mezzo. I cristiani, accecati da sogni apocalittici, cacciavano e sterminavano altri cristiani con una furia maniacale un tempo riservata ai musulmani agli ebrei e agli eretici. Era la follia.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes cercò di trovare una via d’uscita da questo labirinto. Tradizionalmente la teologia politica aveva interpretato una serie di comandamenti divini rivelati e li aveva applicati alla vita sociale. Nel suo grande trattato, il Leviatano (1651), Hobbes si limitava a ignorare la sostanza di quei comandamenti e si occupava invece di capire come e perché gli esseri umani ritenessero che fossero stati rivelati loro da Dio. Era la cosa più rivoluzionaria che potesse fare un pensatore: spostava il tema da Dio e i suoi comandamenti all’uomo e le sue credenze. Facendo questo, ragionava Hobbes, possiamo cominciare a capire perché le convinzioni religiose portino così spesso ai conflitti politici e forse di conseguenza potremo trovare un modo per contenerne il potenziale di violenza.
La crisi contemporanea del mondo cristiano occidentale ha creato un pubblico per Hobbes e per le sue idee. Nell’infuriare della guerra di religione la sua tesi secondo cui la mente umana sarebbe troppo debole e assediata dalle passioni per attingere una qualunque conoscenza del divino sembrava sensata. E sembrava logico anche presumere che quando l’uomo parla di Dio in verità stia facendo riferimento alla propria esperienza, che è la sola che conosce. E che cosa caratterizza più di tutto tale esperienza? Secondo Hobbes, la paura. La condizione naturale dell’uomo è quella di essere sopraffatto dall’ansia: «Il suo cuore roso tutto il giorno dalla paura della morte, della povertà, o di altre calamità». Egli «non ha riposo né tregua tranne che nel sonno». Dunque non stupisce che gli esseri umani costruiscano degli idoli per proteggersi da quello che più paventano, attribuendo poteri divini perfino, come scriveva Hobbes, a «uomini, donne, un uccello, un coccodrillo, un vitello, un cane, un serpente, una cipolla, un porro». Condizione penosa, ma comprensibile.
E la dinamica devastante della fede non finisce qui. Perché una volta che immaginiamo un Dio onnipotente che ci protegge, è molto probabile che cominceremo anche a temerlo. Che succederebbe se si dovesse adirare? Come placarlo? Hobbes rifletteva sul mercato creato da quei nuovi timori religiosi per preti e profeti che sostenevano di conoscere le più segrete volontà divine. Ai suoi tempi era un mercato vociante e disordinato, con i banchetti dei cattolici romani, degli anglicani, dei luterani, dei calvinisti, degli anabattisti, dei quaccheri, dei ciarlatani, dei visionari di Muggleton, degli uomini della Quinta Monarchia, di innumerevoli altri, ciascuno con la sua via per la salvezza e un piano per la società cristiana. Le loro teorie discordanti, poiché ne andava dell’anima, li portarono a combattersi. Di qui le guerre, che produssero paure ancora maggiori; il che rese la gente ancora più religiosa; il che…
Col ricordo ancora vivo delle guerre di religione i lettori di Hobbes conoscevano bene la paura. Le loro vite erano divenute, scrive, «solitarie, povere, meschine, brutali e brevi». E quando annunciò che una nuova filosofia po
litica li avrebbe potuti salvare dalla paura, lo stettero a sentire. Hobbes piantò un seme: l’idea che fosse possibile costruire istituzioni politiche legittime senza fondarle sulla rivelazione divina. Sapeva che sarebbe stato impossibile refutare la fede nella rivelazione divina; al massimo quello che si poteva fare era gettare il sospetto sui profeti che sostenevano di parlare di politica in nome di Dio. Il nuovo pensiero politico non si sarebbe più occupato della politica divina ma si sarebbe concentrato sugli uomini in quanto credenti in Dio e avrebbe cercato di trattenerli dal danneggiarsi a vicenda. Avrebbe coltivato ambizioni minori di quelle della teologia politica cristiana, assicurando però quello che più importava, la pace.
Hobbes non era un liberale e nemmeno un democratico. Riteneva che consolidare il potere nelle mani di un uomo fosse l’unico modo per sollevare i cittadini dalla paura. Ma nel corso dei secoli successivi, pensatori occidentali come John Locke, che ne adottò l’approccio, cominciarono a prefigurare un nuovo tipo di ordine politico in cui il potere fosse limitato, diviso e ampiamente distribuito; in cui chi è al potere in un certo momento lo ceda pacificamente in un altro, senza timore di punizioni; in cui la legge pubblica governi i rapporti tra i cittadini e le istituzioni, in cui tante diverse religioni possano fiorire contemporaneamente, libere dall’interferenza dello Stato; e in cui gli individui godano di diritti inalienabili capaci di proteggerli dal governo e dai loro concittadini. Tale ordine liberale democratico è l’unico riconosciuto valido da noi, oggi, in Occidente e questo lo dobbiamo prima di tutto a Hobbes. Per sfuggire alle passioni distruttive della fede messianica, la teologia politica incentrata su Dio è stata sostituita dalla filosofia politica incentrata sull’uomo. Questa la Grande Separazione.

La luce interiore
È una storia nota che sembra a lieto fine. Ma in verità la Grande Separazione non fu mai un fait accompli, perfino nell’Europa occidentale dove fu dapprima concepita. La teologia politica cristiana vecchio stile è sopravvissuta in Occidente, dove è del tutto scomparsa come forza politica solo dopo la seconda guerra mondiale. Nel XIX secolo e all’inizio del XX un’altra sfida alla Grande Separazione viene da un’altra direzione. E in particolare da un tipo tutto nuovo di teologia politica, pesantemente tributario della filosofia, che si andava delineando come moderno e liberale. Mi riferisco al movimento della «teologia liberale» sorto in Germania non molto tempo dopo la Rivoluzione francese, prima tra i teologi protestanti e poi tra i riformatori ebrei. Questi pensatori, che aborrivano la teocrazia, si ribellarono anche alla visione di Hobbes, a favore di un futuro politico in cui la religione – opportunamente corretta e intellettualmente riformata – avrebbe giocato un ruolo assolutamente centrale.
E gli interrogativi che ponevano erano giusti. Riconoscendo che ignoranza e paura avevano alimentato guerre insensate tra le sette e le nazioni cristiane si chiedevano: era solo per quelle ragioni che per un millennio e mezzo un’intera civiltà aveva guardato a Gesù Cristo come al suo salvatore? Oppure che gli ebrei che hanno sopportato la diaspora si erano conservati fedeli alla Torah? Possibile che ignoranza e paura potessero spiegare la bellezza della musica liturgica o le sublimi cattedrali gotiche? E come mai le civiltà del passato e del presente, avevano fondato le loro istituzioni politiche in accordo con il legame divino tra Dio, uomo e mondo? Sicuramente nell’uomo religioso doveva esserci di più di quello che immaginava la filosofia di Hobbes.
Questa era certamente la visione di Jean-Jacques Rousseau, che più di tutti si sforzò di trovare un’alternativa a Hobbes. Rousseau non scrisse trattati sulla religione, una decisione saggia visto che l’inserimento di qualche pagina su temi religiosi nel suo capolavoro, Émile (1762), causò il rogo della sua opera e costrinse Rousseau a trascorrere il resto della sua vita in fuga. Il brano dell’Émile, intitolato «La Professione di Fede del Vicario savoiardo», ha così profondamente influenzato la visione contemporanea della religione che risulta difficile capire perché mai Rousseau sia stato perseguitato per averlo scritto. Si tratta della più bella e persuasiva difesa dell’istinto religioso dell’uomo che sia mai uscita dalla penna di un moderno – e proprio questo, apparentemente, era il problema. Rousseau parlava di religione in relazione alle esigenze umane, non alle verità divine, e faceva dire al suo vicario savoiardo: «Io credo che tutte le singole religioni siano buone se in esse si serve utilmente Dio». Per questo i pii cristiani gli diedero la caccia.
Anche Rousseau si poneva il problema che si era posto Hobbes; condivideva la critica che l’inglese aveva rivolto alla teocrazia, al fanatismo e al clero, ma era un amico della religione. Mentre Hobbes aveva fatto rullare i tamburi dell’ignoranza e della paura, Rousseau aveva cantato le lodi della coscienza, della carità, della compassione, della virtù e della pia meraviglia di fronte alla creazione divina. Negli esseri umani, pensava, c’è una bontà intrinseca che si esprime attraverso la religione. È questo il tema della «Professione di Fede», che narra la parabola di un giovane vicario che perde la fede e poi la bussola morale quando si trova di fronte all’ipocrisia dei suoi correligionari. Riuscirà a ritrovare l’equilibrio solo quando troverà in sé un nuovo modo di credere in Dio, seguendo la sua «luce interiore» (lumière intérieure). La parabola di Rousseau è volta più a mostrare l’anelito per la religione dell’uomo in quanto creatura fondamentalmente morale che non a puntare il dito contro i crimini delle Chiese organizzate. Dio è per noi in gran parte inconoscibile e per secoli la pretesa di averlo capito ha causato molti danni al mondo cristiano. Ma per Rousseau, se ci vogliamo orientare nel mondo, dobbiamo avere una qualche fede in Dio.
Rousseau è stato il primo dei pensatori moderni a dichiarare senza imbarazzo che la fede in Dio è una necessità umana. La religione affonda le sue radici in bisogni che sono razionali e morali, perfino nobili; una volta capito ciò, potremo cominciare a soddisfarli in modo razionale, morale, perfino nobile. In astratto questo pensiero non contraddiceva quello della Grande Separazione che aveva fornito le basi per difendere l’esercizio privato della religione. Ma sollevava dubbi in merito alla possibilità reale del nuovo pensiero politico di fare a meno del riferimento al legame tra Dio, uomo e mondo. Se Rousseau aveva ragione circa i nostri bisogni morali, la rigida separazione tra princìpi politici e teologici non era sostenibile psicologicamente. Se una questione è importante vogliamo una risposta, come dice il vicario savoiardo: «La mente decide in un modo o nell’altro, suo malgrado, e preferisce sbagliare piuttosto che non credere in nulla». Rousseau dubitava profondamente della possibilità degli esseri umani di essere felici o buoni se non capivano in che modo le loro azioni fossero in relazione con qualcosa di più alto. La religione è semplicemente troppo invischiata con la nostra esperienza morale per potersene mai districare, e la morale è inseparabile dalla politica.

I figli di Rousseau
Al principio del XIX secolo, in Occidente si erano affermate due scuole di pensiero su religione e politica: quella dei figli di Hobbes e quella dei figli di Rousseau. Per i figli di Hobbes,
la teologia politica cristiana che alimentava la violenza e soffocava lo sviluppo umano non poteva produrre una vita politica decente. L’unico modo per controllare le passioni che dalla religione confluivano nella politica, e viceversa, era staccarle completamente dalla vita politica. Questo doveva succedere all’interno delle istituzioni occidentali, ma prima di tutto doveva avvenire nelle menti occidentali. Si doveva produrre un riorientamento che distogliesse l’attenzione umana dall’eterno e dal trascendente e la riportasse al qui e ora. Bisognava spezzare il vecchio costume di cercare in Dio una guida politica, e sviluppare nuove consuetudini. Per Hobbes, il primo passo per raggiungere quell’obiettivo era portare la gente a pensare a – e a diffidare delle – fonti della fede.
Anche se c’era forte riluttanza ad accettare le tesi più rivoluzionarie di Hobbes sulla religione, nel mondo anglofono i princìpi intellettuali della Grande Separazione cominciarono a prendere piede nel XVIII secolo. Il dibattito su dove esattamente porre il confine tra istituzioni politiche e religiose sarebbe andato avanti ma le tesi sulla legittimità della teocrazia si spensero ovunque tranne che negli angoli più dimenticati del dibattito pubblico. Il rapporto tra ordine politico e ordine divino non fu più oggetto di seria controversia, smise di essere un tema di discussione. Nessuno nella moderna Gran Bretagna o negli Stati Uniti ha difeso una legislatura bicamerale sulla base della rivelazione divina.
I figli di Rousseau hanno seguito una diversa linea di argomentazione. La teologia politica medievale non era recuperabile, ma d’altra parte gli esseri umani non potevano ignorare le questioni relative all’eternità e alla trascendenza allorché riflettevano sulla vita del giusto. Quando riflettiamo su Dio, sull’uomo e sul mondo nel modo corrente, esprimiamo i nostri sentimenti morali più nobili; senza tale riflessione ci disperiamo e alla fine facciamo del male a noi stessi e agli altri. È questa la lezione del vicario savoiardo.
Dopo la Rivoluzione francese, il Terrore e le conquiste napoleoniche, i figli di Rousseau trovarono attento ascolto nell’Europa continentale. Le guerre appena concluse non avevano avuto niente a che fare con la teologia politica o il fanatismo religioso del vecchio tipo; semmai, rifletteva la gente, era stato l’ateismo dell’Illuminismo francese a trasformare gli uomini in fiere e a dare vita a una nuova specie di fanatismo politico. I tedeschi erano particolarmente attratti da quella visione e l’ondata di romanticismo aveva portato con sé una grande nostalgia per il mondo religioso «che abbiamo perduto». L’onda arrivò a toccare anche filosofi come Immanuel Kant e G.W.F. Hegel. Kant adorava l’Émile e andò in qualche modo oltre Rousseau, non solo acccettando il bisogno morale della fede razionale, ma sostenendo che il cristianesimo, opportunamente riformato, avrebbe rappresentato la «vera Chiesa universale» e avrebbe incarnato l’«idea» stessa di religione. Hegel andò ancora più in là attribuendo alla religione il potere quasi vitalistico di rafforzare il legame sociale e incoraggiare il sacrificio per il bene pubblico. La religione, e solo la religione, è la vera fonte di quello spirito che accomuna gli uomini e che Hegel chiamò Volksgeist.
Quelle idee ebbero un enorme impatto sul pensiero religioso tedesco nel XIX secolo e di conseguenza nel pensiero protestante ed ebraico di tutto l’Occidente. Fu quello il secolo della «teologia liberale», una definizione che richiede di essere spiegata. Nella Gran Bretagna moderna e negli Stati Uniti, si pensava che la separazione intellettuale e istituzionale tra il cristianesimo e la politica moderna fosse stata reciprocamente benefica. Che ne avesse beneficiato lo Stato moderno, assolto dalla necessità di pronunciarsi in materia dottrinale, e la cristianità, liberata dall’interferenza di Stato. Non esisteva un analogo consenso in Germania, dove l’assunto era che la religione, se doveva dare un contributo alla società, dovesse essere incoraggiata e non frenata a livello pubblico. Naturalmente avrebbe dovuto essere riformata razionalmente, la Bibbia reinterpretata alla luce delle più recenti scoperte, la fede nei miracoli abbandonata, il clero educato secondo le linee e le dottrine moderne adattate a un’era più mite. Ma una volta messe in atto tali riforme, politica illuminata e religione illuminata si sarebbero prese per mano.
I teorici protestanti liberali ben presto cominciarono a sognare una terza via tra l’ortodossia cristiana e la Grande Separazione. Nutrivano una fede incrollabile nell’essenza morale del cristianesimo, comunque distorta dalle forze della storia, e una fede incrollabile nel progresso culturale e politico che aveva portato al mondo. Il cristianesimo aveva generato i valori dell’individualità, dell’universalismo morale, della ragione e del progresso, valori sui quali ora si basava la vita tedesca. Non ci poteva essere contraddizione tra religione e Stato, e nemmeno tensione. Lo Stato moderno doveva solo riconoscere al protestantesimo quel che gli era dovuto nella vita pubblica, la teologia protestante avrebbe fatto altrettanto, riconoscendo le sue responsabilità politiche. Se entrambe le parti avessero rispettato il loro dovere, allora, come diceva il filosofo F.W.J. Schelling, «il destino del mondo cristiano sarebbe stato deciso in Germania».
Tra i pensatori ebrei liberali, circolava una diversa speranza, quella di essere accettati come cittadini uguali agli altri. Dopo la Rivoluzione francese, in Europa iniziò un processo disuguale di emancipazione ebraica e gli ebrei tedeschi furono integrati nella società e nella vita culturale moderna prima rispetto a quelli di ogni altro paese europeo – uno sviluppo fatale. Perché fu proprio allora che i protestanti tedeschi si convinsero che il cristianesimo della riforma fosse il loro Volksgeist. I pensatori ebrei liberali erano attratti dalla fede illuminata moderna, ma erano anche spinti dal bisogno apologetico di giustificare il contributo del giudaismo alla società tedesca. Non potevano fare appello ai princìpi della Grande Separazione e limitarsi a chiedere di essere lasciati in pace. Dovevano sostenere che ebraismo e protestantesimo erano due forme della stessa fede morale razionale, e che potevano condividere una teologia politica. Come disse il filosofo ebreo e riformatore liberale Hermann Cohen: «In tutte le questioni intellettuali di religione pensiamo e ci sentiamo animati da spirito protestante».

Corteggiare l’Apocalisse
Questa la casa costruita dalla teologia liberale, una casa che apparve sicura in tutto il corso del XIX secolo. Ma così non era, e per ragioni che meritano di essere considerate. La teologia liberale era cominciata con la speranza che le verità morali della fede biblica potessero essere intellettualmente riconciliate, e non solo tollerate dalla realtà della vita politica moderna. Ma la divinità dei liberali si sarebbe dimostrata un Dio nato morto, incapace di ispirare convinzione genuina tra la generazione più giovane, in cerca della verità assoluta. Perché che cosa offriva il nuovo protestantesimo all’anima di chi stesse cercando l’unione con il suo creatore? Prescriveva un catechismo di banalità morali e di ottimismo storico in merito alla vita borghese, condito da un profondo pessimismo sulla possibilità di cambiare quella vita. Predicava l’orgoglio nazionale del bravo cittadino, il buonsenso economico e la giusta lunghezza della barba del gentiluomo. Ma era troppo timoroso per proclamare il messaggio di ogni pagina dei Vang
eli: la necessità di cambiare la propria vita. E che cosa portava il nuovo ebraismo a un giovane ebreo in cerca di una connessione con la fede tradizionale della sua gente? Gli insegnava ad apprezzare il messaggio etico al centro di ogni fede biblica e tramandava, nel silenzio dei gentili, il Dio minaccioso dei profeti, il suo patto col popolo ebraico e le severe leggi dettate loro. Soprattutto insegnava a un giovane ebreo che il suo primo obbligo era quello di cercare un terreno comune con il cristianesimo e di farsi accettare in quella nazione, la Germania, i cui ideali culturali più alti coincidevano con quelli ebraici, correttamente compresi. Alle questioni decisive: «Perché essere cristiani?» e «Perché essere ebrei?», la teologia liberale non offriva alcuna risposta.
All’inizio del XX secolo, la casa liberale prese a vacillare per poi crollare dopo la prima guerra mondiale. Non fu solo la barbarie della guerra di trincea, l’assurdo macello, la vista di città bruciate e soldati mutilati a rendere spregevole una teologia che esaltava la «civiltà moderna». Era che tanti teologi liberali avevano contribuito ad accelerare l’insana corsa alla guerra, sicuri che la mano di Dio guidasse la storia. Nell’agosto del 1914, Adolf von Harnack, il più insigne studioso protestante liberale del periodo, contribuì alla chiamata alle armi del Kaiser Guglielmo II con un discorso alla nazione che esponeva gli obiettivi militari della Germania. Altri firmarono una petizione bellica infame in cui si sosteneva la sacralità del militarismo tedesco. Stranamente perfino Hermann Cohen unì la sua voce a quella del coro, e scrisse una lettera aperta agli ebrei americani chiedendone il supporto, poiché «dopo la terra dei suoi padri, ogni ebreo occidentale deve riconoscere, riverire e amare la Germania in quanto madre della sua religiosità moderna». I giovani pensatori protestanti ed ebrei s’infuriarono quando videro quel che avevano fatto i loro venerabili maestri e cominciarono a volgersi altrove.
Ma non guardarono a Hobbes, o a Rousseau. Agognavano una fede più forte, basata su una nuova rivelazione, capace di scuotere le fondamenta di tutto l’ordine moderno. Era una sete di redenzione. Da quando i teologi liberali avevano ridato vita all’idea della politica biblica, la scena era pronta per quel tipo di sviluppo. Quando, dopo la Grande Guerra, cominciò a vacillare la fede nella possibilità di redenzione attraverso la correttezza borghese e la tolleranza culturale, i più audaci pensatori del periodo la trasformarono nella speranza di un’apocalissi messianica capace di porre nuovamente il popolo ebraico, o il singolo credente cristiano, o la nazione germanica, o il proletariato mondiale in rapporto diretto con la divinità.
I giovani ebrei di Weimar si avvicinarono a tali correnti messianiche attraverso gli scritti di Martin Buber, in seguito divenuto un propugnatore della comprensione interreligiosa ma che da giovane sionista si era fatto promotore di un crudo nazionalismo sciovinista. In uno dei primi saggi Buber invocava una «Masada dello spirito» e proclamava: «Se dovessi scegliere per la mia gente tra una comoda felicità […] e una bella morte nello slancio finale per la vita, sarei costretto a scegliere la seconda cosa. Perché in quello slancio finale si produrrebbe qualcosa di divino, anche solo per un momento, e nell’altro qualcosa di fin troppo umano». Un simile linguaggio, per noi oggi carico di sconsolanti echi contemporanei, attingeva profondamente alle fonti messianiche. Ma Buber era un dilettante se lo paragoniamo al filosofo marxista Ernst Bloch, che utilizzava la Bibbia per esaltare l’utopia allora in costruzione in Unione Sovietica. Pur essendo un ebreo ateo, Bloch vedeva una connessione tra la speranza messianica e la violenza rivoluzionaria, di cui era un ammiratore a distanza. Esaltò Thomas Müntzer, il pastore protestante del XVI secolo, che aveva capeggiato le sanguinose rivolte contadine ed era poi finito sul patibolo; lodò anche i brutali leader sovietici nella famosa dichiarazione: «Ubi Lenin, ibi Jerusalem», ovunque sia Lenin, lì è Gerusalemme.
Ma fu tra i giovani protestanti di Weimar che il nuovo spirito messianico si dimostrò più conseguente. Erano guidati dal massimo teologo del tempo, Karl Barth, che voleva restituire al cristianesimo il dramma della decisione religiosa e che rifiutava ogni adattamento del Vangelo alla sensibilità moderna. Quando Hitler andò al potere, Barth si salvo conducendo la resistenza delle Chiese protestanti contro il nazismo prima di essere mandato in esilio nel 1935. Ma altri, che fecero uso della stessa retorica messianica di Barth, si allearono invece con i nazisti. Esempio famigerato quello di Emanuel Hirsch, insigne teologo luterano e traduttore di Kierkegaard, che acclamò l’ascesa al potere del nazismo perché avrebbe condotto la Germania nel «circolo dei potenti popoli bianchi, ai quali Dio aveva affidato la responsabilità della storia dell’umanità». Un altro esempio è quello di Friedrich Gogarten, uno dei più stretti collaboratori di Barth, che si alleò con i nazisti nell’estate del 1933 (decisione di cui poi si sarebbe pentito). Negli anni Venti Gogarten si era rallegrato del declino dell’Europa borghese, dichiarando: «Siamo felici del crollo poiché nessuno ama vivere tra i cadaveri», e auspicando una nuova religione che «attacchi la cultura in quanto cultura […] che attacchi il mondo intero». Quando le camicie brune cominciarono a marciare e a dare fuoco ai libri, il suo desiderio fu esaudito. Dopo che Hitler ebbe completato il suo colpo di Stato, Gogarten scrisse che «proprio perché oggi siamo ancora una volta sotto la pressione totale dello Stato, è ancora una volta possibile, umanamente parlando, proclamare il Cristo della Bibbia e il suo regno su di noi».
E tutto questo servì a confermare l’oligarchia dello Stato di ferro di Hobbes: la teologia messianica alla fine produce politica messianica. L’idea della redenzione è una delle molle più forti che plasmano l’esistenza umana in tutte le società toccate dalla tradizione biblica. Un’idea che ha spinto le genti a sopportare la sofferenza, superarla e infliggerla ad altri. Ha offerto speranza e ispirazione in tempi bui; ha anche contribuito ad accrescere il buio, suscitando aspettative irrealistiche e giustificando coloro che versano il sangue per soddisfarle. Tutte le religioni bibliche coltivano l’idea della redenzione, e tutti ne temono il potere di infiammare le menti rendendole sorde alla voce della ragione. Negli scritti di quei personaggi di Weimar incontriamo ciò che quelle tradizioni ortodosse hanno sempre temuto: la traduzione delle nozioni religiose di apocalisse e redenzione in giustificazione del messianismo politico, oggi nelle spaventose condizioni moderne. Era come se nulla fosse cambiato dopo il XVII secolo, quando Thomas Hobbes per la prima volta si accinse a scrivere il Leviatano.
I miracoli

Il revival della teologia politica nell’Occidente moderno è una storia umiliante. E ci ricorda che quell’approccio di pensiero non è appannaggio di una sola cultura o religione e nemmeno appartiene soltanto al passato. È un antico abito della mente che può essere ripreso da chiunque cominci a guardare al legame divino tra Dio, uomo e mondo per trovarvi l’ordine politico legittimo. Questa storia ci ricorda anche come la teologia politica possa essere adattata alle circostanze ed essere riasserita, anche di fronte a forze apparentemente irresistibili come quella della modernizzazione, della secolarizzazione e de
lla democratizzazione. Rousseau aveva capito qualcosa: la nostra sembra essere una natura «teotropica», un istinto ci spinge a collegare le nostre vite terrene, in qualche modo, all’aldilà. Quello slancio può essere soppresso, si possono apprendere nuovi modi, ma la sfida della teologia politica non scomparirà mai del tutto fintanto che resisterà quell’istinto.
Così siamo eredi della Grande Separazione solo se lo vogliamo essere, se facciamo uno sforzo consapevole per separare i princìpi di fondo della legittimità politica dalla rivelazione divina. Ma si richiede più di questo. Poiché la sfida della teologia politica non accenna a placarsi, dobbiamo continuare a essere consapevoli della sua logica e della minaccia che rappresenta. Questo impone vigilanza, ma ancora di più richiede consapevolezza di sé. Bisognerà ricordare sempre che non c’era niente di storicamente inevitabile nella Grande Separazione, che fu e che rimane un esperimento. In Europa, le ambiguità politiche di una religione, il cristianesimo, scatenarono una crisi politica che sarebbe stato possibile evitare, ma che non fu evitata e diede luogo alle guerre di religione; la conseguente carneficina rese i pensatori europei più ricettivi alle idee eretiche di Hobbes sulla psicologia religiosa e alle relative implicazioni politiche; col tempo quelle idee politiche furono liberalizzate. Ma fu comunque solo dopo la seconda guerra mondiale che i princìpi della moderna democrazia liberale si radicarono pienamente nell’Europa continentale.
Quanto all’esperienza americana è delle più eccezionali: non esiste altra società industriale pienamente sviluppata con una popolazione tanto impegnata nelle sue diverse fedi (e in fedi così esotiche) e al tempo stesso nella Grande Separazione. La nostra retorica politica, che deve molto ai movimenti settari protestanti del XVII secolo, vibra di energia messianica, ed è solo grazie a una forte struttura costituzionale e a varie fortunate rotture che la teologia non ha mai seriamente messo in crisi la legittimità di fondo delle nostre istituzioni. Le diverse posizioni religiose degli americani sono potenzialmente esplosive su temi come l’aborto, la preghiera nelle scuole, la censura, l’eutanasia, la ricerca biologica e innumerevoli altre questioni che però in genere vengono affrontate nei limiti della Costituzione. È un miracolo.
E i miracoli non possono essere ordinati. Malgrado tutto il bene derivato dallo spostamento dell’attenzione politica da Dio all’uomo iniziato da Hobbes, rimaneva però l’impressione che la sfida della teologia politica sarebbe scomparsa una volta interrotto il ciclo della paura, quando gli esseri umani avessero finalmente potuto esercitare la loro autorità sulle faccende umane. Ed è ancora quella l’idea quando parliamo di «cause sociali» del fondamentalismo e del messianismo politico, come se il miglioramento delle condizioni materiali o lo spostamento dei confini generasse automaticamente una Grande Separazione. Niente nella nostra storia o nell’esperienza contemporanea conferma questa convinzione, eppure non ci rassegniamo ad abbandonarla. Abbiamo imparato troppo bene la lezione di Hobbes e non abbiamo prestato attenzione a quella di Rousseau. Così, quando oggi incontriamo la vera teologia politica, ci troviamo in una trappola intellettuale: o presumiamo che la modernizzazione e la secolarizzazione alla fine ne avranno ragione, oppure la affrontiamo come una minaccia esistenziale incomprensibile e per descriverla come meglio ci riesce usiamo termini familiari come fascismo. Ma nessuna di queste reazioni ci aiuta a capire meglio il mondo in cui viviamo.
Un mondo in cui milioni di persone, soprattutto nell’orbita musulmana, credono che Dio abbia rivelato una legge per governare tutti gli affari umani. Tale fede modella la politica di importanti nazioni musulmane, e anche l’atteggiamento di un gran numero di fedeli che si trovano a vivere nei paesi occidentali – e in democrazie non occidentali come la Turchia e l’Indonesia – fondate sui princìpi loro estranei della Grande Separazione. Sono questi i punti di frizione più significativi, a livello internazionale e nazionale. E non possiamo veramente affrontarli se prima non affrontiamo la frattura che c’è fra di noi: anche se è possibile tradurre dal farsi in inglese la lettera di Ahmadi-Nejad a Bush, i suoi presupposti intellettuali non possono essere tradotti in quelli della Grande Separazione. Possiamo cercare di imparare la sua lingua per creare delle politiche intelligenti ma l’accordo sui princìpi di fondo non sarà possibile. E con questo dovremo imparare a convivere.
Analogamente dobbiamo trovare il modo per accettare il fatto che le nazioni occidentali, date le politiche dell’immigrazione perseguite negli ultimi cinquant’anni, oggi sono abitate da milioni e milioni di musulmani che hanno grandi difficoltà ad adattarsi a società che non riconoscono le rivendicazioni politiche basate sulla loro rivelazione divina. Come la legge degli ebrei ortodossi, la sharia vuole coprire l’intera vita, non solo una certa sfera privata arbitrariamente demarcata, e il sistema giuridico ha poche risorse teologiche per definire l’indipendenza della politica da precisi ordini divini. Una brutta situazione ma ce la siamo voluta noi, musulmani e non musulmani. Tolleranza e reciproco rispetto possono essere d’aiuto, così come regole chiare negli ambiti più critici, come lo status delle donne, la giurisdizione dei genitori sui figli, la protezione della sensibilità religiosa da discorsi o atti ritenuti offensivi, lo standard dell’abbigliamento nelle situazioni pubbliche eccetera. I paesi occidentali, per tenere testa al problema, hanno adottato strategie diverse, certuni proibendo alcuni simboli religiosi come il velo nelle scuole, altri permettendoli. Ma dobbiamo riconoscere che all’ordine del giorno non c’è la difesa di nobili princìpi, ma la necessità di tenere testa al problema, ed è bene anche ridimensionare le nostre aspettative. Fintanto che un gran numero di persone crede nella verità di una teologia politica globale non ci si può aspettare la piena riconciliazione con la democrazia liberale moderna.

L’altra sponda
Non è una novità. Per più di due secoli i fautori della modernizzazione hanno dato per scontato che la scienza, la tecnologia, l’urbanizzazione e l’istruzione alla fine avrebbero prodotto il «disincanto» nella mentalità magica dei credenti, e che col tempo la gente avrebbe abbandonato le sue fedi oppure le avrebbe trasformate in modi politicamente innocui. Costoro indicano l’Europa continentale, dove la fede in Dio ha subito un regolare declino nel corso degli ultimi cinquanta anni, e suggeriscono che questo col tempo succederà anche nei paesi musulmani che, a loro volta, conosceranno un analogo processo. Quelle profezie potrebbero anche dimostrarsi vere, alla fine. Ma la rapida secolarizzazione dell’Europa è un fenomeno storico unico e, come abbiamo visto, relativamente recente. La teologia politica è molto flessibile e può presentare perfino per le menti più colte una visione del futuro più convincente della prospettiva della modernità laica. Per un medico bene addestrato oggi è facile costruire un’autobomba come era facile per i pensatori più avanzati della Germania di Weimer produrre delle giustificazioni del totalitarismo fascista e comunista ispirate alla Bibbia. Quando l’istinto metafisico è forte, le passioni sono violente e le fantasie vivide, le sciocchezze della nostra vit
a moderna sono amuleti impotenti a combattere l’intossicazione politica.
Rendendosi conto di questo tanti musulmani nel mondo hanno cominciato a propagandare un islam «liberale». Quel che intendono con ciò è un islam più adatto alle esigenze della vita moderna, più morbido nel suo approccio a donne e bambini, più tollerante verso altre fedi, più aperto nei confronti del dissenso. Si tratta di persone coraggiose che spesso hanno sofferto, in prigione o in esilio, per portare avanti quelle posizioni, come avevano fatto tanti loro predecessori nel XIX secolo. Ma ora come allora i loro sforzi sono stati vanificati da correnti teologiche più profonde che essi stessi non sono in grado di dominare e forse nemmeno di capire. La storia della teologia liberale, protestante ed ebraica, mette in luce il problema: più una fede biblica viene riformulata per adattarsi alle esigenze del momento, meno ragioni dà ai credenti per ancorarsi a quella fede in tempi tormentati, quando coloro che si sono autoeletti custodi della purezza teologica offrono speranze più rivoluzionarie. Peggio ancora, più tale fede viene usata per santificare una sola forma di vita politica – sia pure una forma attraente come la democrazia liberale – più sarà vista come complice dell’ingiustizia quando quel sistema politico fallirà. Le dinamiche della teologia politica sembrano suggerire che quando cercano di conformarsi al presente, i riformatori liberalizzanti ispirano una nostalgia e una passione ancora più forte per la redenzione in un futuro messianico. Questo accadde nella Germania di Weimar e sta succedendo di nuovo nell’islam contemporaneo.
Il liberalismo compiaciuto e il messianismo rivoluzionario nei quali ci siamo imbattuti non sono le sole opzioni teologiche. C’è un altro tipo di possibile trasformazione nelle fedi bibliche, ovvero il rinnovamento della teologia politica tradizionale dal suo interno. Se i liberalizzatori sono gli apologisti della religione alla corte della vita moderna, i rinnovatori rimangono saldamente ancorati alla loro fede e reinterpretano la teologia politica in modo che i credenti si possano adattare senza sentirsi apostati. Lutero e Calvino in questo senso erano rinnovatori, non liberalizzatori. Richiamavano i cristiani ai princìpi fondamentali della loro fede, ma in un modo che rendeva più facile e non più difficile godere i frutti dell’esistenza temporale. Trovarono ragioni teologiche per rifiutare l’ideale del celibato, e la sua frequente violazione da parte dei preti, e restituirono così il clero alla normale vita familiare. Trovarono poi ragioni teologiche per rifiutare l’astrazione ultraterrena del monachesimo e la fin troppo terrena concretezza dell’imperialismo di Roma, offrendo ragioni bibliche per cui i cristiani dovevano essere leali cittadini del loro Stato. E questo lo fecero non solo parlando in difesa della tolleranza e del progresso ma riscrivendo la lingua della teologia politica cristiana e chiedendo ai cristiani di esserle fedeli.
Oggi, alcune voci auspicano proprio quel tipo di rinnovamento della teologia politica islamica. Alcuni, come Khaled Abou El Fadl, professore di diritto alla University of California, a Los Angeles, sfidano l’autorità dei puritani odierni, che emettono giudizi categorici basati su un’interpretazione letterale di versi sparsi del Corano. Secondo Abou El Fadl, la legge tradizionale islamica può essere applicata alle situazioni odierne perché utilizza una sottile interpretazione di tutto il testo per affrontare problemi particolari in diverse circostanze. Altri, come il professor Tariq Ramadan, il «chierico» nato in Svizzera, sono figure pubbliche i cui scritti mostrano ai musulmani d’Occidente che la loro teologia politica, propriamente interpretata, offre una guida di vita sicura che permetterà loro di vivere nella loro fede e di essere accettati in quello che definisce un «domicilio» straniero. Basta leggerne l’opera per ricordarsi che impresa rischiosa sia il rinnovamento. Può invitare i lettori a partecipare in modo più pieno e più saggio al presente politico, come fece alla fine la Riforma protestante; ma può anche alimentare il sogno di tornare a un passato primitivo, se necessario anche con la violenza, come successe nelle guerre di religione.
Per questo motivo forse, Abou El Fadl e soprattutto Ramadan sono divenuti oggetto di un esame intenso e a volte molto severo da parte degli intellettuali occidentali. Noi preferiamo parlare con i liberalizzatori islamici perché parlano la nostra stessa lingua, accettano i presupposti intellettuali della Grande Separazione e semplicemente vogliono sia dato il massimo spazio all’espressione religiosa e culturale. Non praticano la teologia politica. Ma che a produrre un cambiamento politico duraturo sia il rinnovamento piuttosto che la liberalizzazione sembra assai probabile. Parlando dall’interno della comunità dei fedeli, i rinnovatori offrono ai credenti ragioni teologiche convincenti per accettare i nuovi modi come reinterpretazioni autentiche della fede. Figure come Abou El Fadl e Ramadan parlano una lingua straniera anche quando promuovono i cambiamenti che riteniamo giusti; le loro ragioni non sono le nostre ragioni. Ma, se non possiamo aspettarci – e non possiamo aspettarcela – una conversione di massa ai princìpi della Grande Separazione, faremo meglio a imparare ad accogliere le trasformazioni nella teologia politica musulmana che facilita la coesistenza. Il meglio non dovrebbe essere nemico del bene.
Alla fine, comunque, quello che succederà sull’altra sponda non dipenderà da noi. Non abbiamo motivo di pensare che le società nella morsa di una potente teologia politica seguano il nostro insolito percorso aperto da una crisi unica all’interno della cultura cristiana. Ciò non significa che a tali società manchino necessariamente i mezzi per creare un ordine politico decente e praticabile; ma vuol dire che dovranno trovare le risorse teologiche all’interno delle loro tradizioni per realizzarlo.
La nostra sfida è diversa. Abbiamo fatto una scelta che è al tempo stesso più dura e più facile: abbiamo deciso di limitare la nostra politica a proteggere gli individui dai danni peggiori che possono infliggersi reciprocamente, garantire le libertà fondamentali e assicurarne il benessere di fondo, lasciando i loro destini spirituali nelle loro mani. Abbiamo scommesso che fosse più saggio guardarsi dalle forze scatenate dalla promessa messianica della Bibbia che non cercare di sfruttarle per il bene pubblico. Abbiamo deciso di non esporre la nostra politica alla luce della rivelazione divina. Tutto quello che abbiamo è la nostra lucidità, che dobbiamo esercitare in un mondo in cui la fede ancora infiamma le menti degli uomini.

(traduzione di Maria Baiocchi)



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