La Polonia e lo spettro del nazionalismo
Cristina Carpinelli
Daniele Stasi, Le origini del nazionalismo in Polonia, Franco Angeli, Milano, 2018, pp. 146.
Il libro di Daniele Stasi è una disamina critica delle radici storiche del nazionalismo antisemita polacco e delle cause che hanno prodotto un fenomeno così gravido di conseguenze, tanto da sentirne ancora oggi il peso. Certamente la Polonia è nei secoli cambiata. Tuttavia, tra i suoi diversi volti si sono prepotentemente riaffacciati alcuni fantasmi del passato. Ecco perché il libro di Stasi è utile per comprendere come mai ancora oggi in Polonia sia “difficile accettare del tutto i valori d’inclusione e democrazia che rappresentano un antidoto alle patologie da cui sono scaturite le guerre mondiali frutto dell’odio razziale, dello sciovinismo e del nazionalismo”.
Stasi collega, innanzitutto, la nascita del moderno nazionalismo polacco, strutturatosi alla fine del XIX secolo nel partito di “Democrazia Nazionale-Endecja”, ad alcune condizioni preliminari che furono determinanti per la sua comparsa, per offrire poi un’analisi delle caratteristiche del movimento nazionalista polacco, dei suoi legami con le tradizioni di pensiero che segnarono il panorama politico e culturale in Polonia nel corso dell’Ottocento, e delle posizioni assunte dai massimi rappresentanti di questo movimento (Popławski, Balicki e Dmowski) a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
Il primo nazionalismo polacco è legato al periodo del Regno di Polonia e, dopo l’Unione di Lublino (1569), del Commonwealth polacco-lituano. Esso era rappresentato dalla nobiltà polacca (szlachta), che poggiava su un sistema politico, il Golden Liberty, in cui tutti i nobili possedevano ampi diritti e privilegi. Altro aspetto centrale della società del Commonwealth era il sarmatismo. Tra il XVI e il XVII secolo si era diffusa in Polonia la convinzione che la nobiltà locale traesse origine dai sarmati, un antico popolo di stirpe iranica. Il sarmatismo servì a creare un’idea identitaria e culturale fondata su una provenienza comune di tutta la nobiltà della Repubblica multinazionale e tesa a identificare il polacco con il nobile.
Tuttavia, le libertà illimitate di cui godeva la nobiltà durante la Prima Repubblica e il tipo di organizzazione politica esistente, funzionale agli interessi parassitari e retrogradi di questa classe, produssero un sistema arcaico e inefficiente, privo di un centro di potere che in altre nazioni era rappresentato dall’autorità di un sovrano capace di tenere a bada la rissosa nobiltà. Mentre nell’Occidente europeo si erano formate monarchie sovrane, e nel frattempo si stavano affermando società proto-borghesi, a causa della dissoluzione dei rapporti di signoria feudale sempre più sostituiti da quelli capitalistici in statu nascendi, il carattere rurale dell’economia polacca impedì il salto verso la modernità, che investì, invece, le nazioni vicine. In realtà, come rileva Daniele Stasi, fu proprio la casta nobiliare polacca a ostacolare l’affermazione di nuovi rapporti di produzione, mantenendo, quindi, lo Stato in una situazione di arretratezza, che si mostrò fatale quando altri Imperi più forti e organizzati distrussero il Commonwealth.
Questa prima forma di nazionalismo polacco cominciò a sfaldarsi con la distruzione del Commonwealth polacco-lituano e la spartizione della Polonia da parte dei tre Imperi russo, austriaco e prussiano. Nel tardo XVIII secolo furono intraprese alcune riforme illuministiche per porre rimedio al problema storico dell’arretratezza della Repubblica polacca. La più importante di queste fu l’introduzione nel 1791 di una Costituzione che prevedeva una radicale riorganizzazione dei poteri, l’ereditarietà della monarchia (non più l’elezione del re da parte dei nobili) e l’abolizione del liberum veto. Questa Costituzione segnò l’inizio della “polonizzazione” delle minoranze e il passaggio da una rappresentazione dello Stato come “nazione nobiliare” a una come “nazione di proprietari-produttori”. Alla nascente borghesia urbana fu riconosciuto il ruolo di nuovo soggetto politico capace di lavorare alla trasformazione della società. I principi cui s’ispirò il riformismo illuminista furono: eguaglianza, libertà e tolleranza religiosa. Tuttavia, la nuova ondata riformatrice non riuscì a dare alla Confederazione una struttura moderna e coesa, capace di fronteggiare gli attacchi delle potenze straniere. Fu così che il periodo dell’illuminismo polacco incominciò il suo declino con la terza spartizione della Polonia del 1795 per eclissarsi, infine, nella seconda decade dell’Ottocento quando fu sostituito dal romanticismo patriottico.
L’influenza illuminista rimase nella storia polacca ancora per diversi anni. I riformatori illuministi continuarono a puntare sul miglioramento delle condizioni materiali dei polacchi e sul rinnovamento delle istituzioni politiche. Per costoro la formazione della nazione passava attraverso la riorganizzazione dello Stato, benché in mano all’occupante straniero. Ma altri pensatori e uomini d’azione polacchi ritenevano che le riforme introdotte nel Paese fossero state influenzate da un’ideologia sostanzialmente estranea alla Polonia. Prioritaria doveva essere, invece, la lotta radicale per l’indipendenza nazionale e l’affermazione di un’idea di nazione che, prescindendo dal ruolo dello Stato, avrebbe dovuto poggiarsi sul terreno della filosofia idealista. Erano la lingua, la letteratura e le tradizioni popolari a costituire il patrimonio necessario per fondare l’unità della nazione.
Il romanticismo patriottico assurse l’idealismo a motivo ispiratore delle rivolte liberali. Esso incarnò una visione ben precisa di nazione polacca. Prese avvio intorno al 1822 e terminò con la soppressione della rivolta di Gennaio nel 1864. Causa del tramonto delle illusioni romantiche furono il fallimento dei vari moti rivoluzionari. Al sentimento di fratellanza e solidarietà di tutti i popoli in rivolta contro gli Stati oppressori, che nutrì il primo romanticismo, si sostituì nel tempo un sentimento egoistico nazionale che guidò la lotta per l’indipendenza. Ed è proprio durante questa fase storica che si svilupparono, come afferma Stasi, i primi germi del nazionalismo moderno polacco, precisamente “…con la fine delle speranze di una rinascita morale dell’Europa che il messianismo non aveva disgiunto dalla lotta comune di tutti i popoli oppressi”, e l’affermazione dell’idea che l’interesse nazionale poteva essere realizzato solo con la lotta contro le potenze straniere occupanti.
Il fallimento della rivolta di Gennaio segnò una nuova era nella storia polacca, quella del positivismo. Il positivismo polacco trasse il suo nome dalla filosofia di Comte e gran parte della sua dottrina da opere di studiosi e scienziati britannici. Scettico rispetto alla possibilità di conquistare l’indipendenza nazionale (“una deleteria fantasia romantica”), esso puntò alla ricostruzione delle fondamenta della società polacca, creando una rete d’infrastrutture materiali e una serie di scuole per l’istruzione, attraverso un lavoro che avrebbe consentito al Paese di funzionare come un organismo sociale pienament
e integrato (H. Spencer). La modalità utile per mantenere un’identità nazionale polacca e dimostrare un patriottismo costruttivo andava individuata non nelle rivolte bensì nel lavoro organico, ponendo l’accento sul ruolo dell’inteligencja come divulgatrice delle idee per tenere in vita le aspirazioni di unità e crescita del popolo polacco. L’idea di progresso e sviluppo della civiltà furono i nuovi dogmi della filosofia positivista, lontana dal misticismo romantico polacco. Tuttavia, se da un lato il positivismo polacco si fece promotore dei diritti dell’uomo e delle idee di libertà e uguaglianza, dall’altro avviò un processo di assimilazione per rendere autenticamente polacche le minoranze ebree e tedesche della Polonia.
Nella seconda metà dell’Ottocento, in alcune regioni della Polonia, l’industrializzazione aveva modificato il tessuto sociale, formando una borghesia costituita in larga parte da ebrei e tedeschi. Le altre classi erano, soprattutto, rappresentate da polacchi etnici. L’effetto di questa composizione sociale che vedeva le minoranze contrapposte al resto del Paese produsse nel Regno del Congresso – uno Stato vassallo sotto il controllo dell’Impero russo – una spaccatura a sfondo razziale. Buona parte della popolazione polacca si scagliò contro una classe borghese “non-polacca” impegnata a commerciare con l’occupante straniero, e trovò nella propaganda dei movimenti nazionalistici e antisemiti una sponda su cui riversare le proprie frustrazioni e il proprio desiderio di rivalsa. Il risentimento di classe – afferma Stasi – acquistò un significato etnico.
A differenza del Regno del Congresso, dove lo zar di Russia cercò di reprimere il sentimento nazionale polacco, nella Galizia asburgica si era creato un clima di collaborazione tra il governo centrale di Vienna e i polacchi. In questa regione agricola, non toccata dalla crescita industriale, la concessione dell’autonomia amministrativa e dell’esercizio dei propri diritti all’aristocrazia e ai proprietari terrieri conservatori crearono un clima di non ostilità nei confronti dell’Imperatore. Questi ceti, insieme con la borghesia che andava via via crescendo, grazie alla libertà dei commerci, diventarono gli interlocutori privilegiati degli Asburgo. Diverso lo scenario che si delineò in altre regioni della Polonia. Come nell’area orientale, anche in quella occidentale, posta sotto il controllo prussiano, l’introduzione del Kulturkampf da parte di Bismarck e le successive repressioni non fecero che rinvigorire il sentimento d’indipendenza dei polacchi.
Anche per i conservatori galiziani la riconquista dell’indipendenza nazionale non doveva costituire una priorità. Bisognava, invece, operare diplomaticamente, assicurandosi spazi di rappresentanza politica entro uno Stato in mano allo straniero, e allo stesso tempo trovare delle intese con il governo austriaco, laddove queste fossero state vantaggiose per i polacchi come nel caso della difesa della civiltà occidentale nelle zone orientali europee.
Tuttavia, sia il realismo dei conservatori sia la riposta fiducia dei positivisti nelle magnifiche sorti del progresso come leva per la ricostruzione della società polacca, non avevano tenuto conto del ruolo che le masse, sempre più presenti sulla scena politica e sociale, con l’affermarsi della società industriale, avrebbero potuto giocare nel progetto di rinascita della Polonia. Spettò ad altri due movimenti politici porsi come obiettivo l’attivo coinvolgimento delle masse: il nazionalismo e il socialismo.
Il rapporto tra le regioni che una volta appartenevano alla Prima Rzeczpospolita e le autorità centrali straniere diventò un punto nodale del programma dei movimenti che stavano prendendo piede in Polonia. Esso riguardò anche il programma del movimento socialista, che legò il riscatto della classe operaia polacca alla riconquista della sovranità nazionale. B. Limanowski, uno dei primi assertori del socialismo in Polonia, riteneva che l’edificazione del socialismo non potesse prescindere dalla soluzione della questione nazionale. In una Polonia smembrata fra potenze, il problema della lotta di liberazione contro l’oppressore straniero finiva per intrecciarsi con quello del riscatto del proletariato. Ma per alcuni pensatori marxisti polacchi la questione nazionale e il patriottismo non erano altro che uno strumento in mano alle classi reazionarie per impedire agli operai la formazione di una coscienza di classe. Preferirono, quindi, sposare l’internazionalismo proletario, ponendo in ombra la “causa nazionale”. Questa divergenza di vedute caratterizzò fin dalla nascita il partito socialista polacco, segnato dal contrasto tra una corrente internazionalista, capeggiata da Ludwik Warynski, e una patriottico-indipendentista, il cui rappresentante di spicco fu Limanowski.
Il nazionalismo ebbe in Polonia tre massimi esponenti, J.L. Popławski, Z. Balicki e R.S. Dmowski, i quali sostenevano che il Paese avesse bisogno di una radicale trasformazione istituzionale e ideologica. Questa trasformazione sarebbe stata facilitata da una forza politica organizzata, attiva su tutti e tre i territori in cui era diviso lo Stato. Essa vide la luce nel 1897 con il nome di “Democrazia Nazionale-Endecja”.
Se l’attenzione ai problemi del lavoro e alle masse era ciò che accomunava socialisti e nazionalisti, ciò che invece li distingueva era l’apertura dei primi nei confronti delle correnti culturali esterofile e delle “comunità non-polacche”. In particolare, l’avversione dei nazionalisti nei confronti del popolo ebraico, considerato un “corpo estraneo alla società”, li spinse a teorizzarne l’allontanamento dal resto della popolazione. Era dovere del partito di “Democrazia Nazionale” tendere all’omogeneità etnica, al contrario dei socialisti che erano vittime dell’influenza nefasta dell’etnia ebrea, cinica e antinazionale, capace d’impossessarsi dei posti di rilievo della società. Non solo, una Polonia priva di contaminazioni razziali era anche quella che poneva il cattolicesimo tra i valori conservatori e identitari.
L’affermazione di un nazionalismo su base etnica e religiosa allontanò sempre più questo movimento dalle sue precedenti tradizioni liberali di pensiero e polarizzò lo scontro tra il campo socialista e quello nazionalista. Il socialismo, che poteva rappresentare una reale alternativa a questo tipo di nazionalismo, non avendo risolto al suo interno la “contrapposizione” tra internazionalismo proletario e patriottismo nazionale, generò non poche incertezze e ambiguità. Inoltre, i socialisti fomentavano lo scontro di classe che minava l’unità del Paese, mentre per i nazionalisti la prospettiva della realizzazione del bene della nazione implicava la solidarietà tra le classi. La “nazionalizzazione” del popolo e una politica di riforme improntate alla coesione della nazione erano la sostanza del programma politico da attuare che avrebbe trovato compimento con la rinascita dello Stato polacco.
Dunque, sul finire del secolo XIX, il nazionalismo liberale, che ispirò i primi movimenti del patriottismo polacco, fu sostituito da un nazionalismo etnico e confessionale, che riuscì a catalizzare con una certa facilità le simpatie di quegli strati insoddisfatti della società, comparsi con la trasformazione industriale, e che imputavano la loro marginalità alla perdita di sovranità. La realizzazione della “democrazia nazionale
” divenne il fine più importante dei nazionalisti per contrastare non solo l’odiato internazionalismo proletario, incoraggiato all’epoca dalla “Socialdemocrazia del Regno di Polonia e Lituania” guidata da Róża Luksemburg, ma anche il liberalismo costituzionale, individualistico ed élitario, fautore della laicità dello Stato, e di quell’universalismo dei diritti che – come dice bene l’autore in chiusura del suo libro – rappresentò “una delle conquiste più importanti della civiltà giuridica europea”.
* Comitato Scientifico CeSPI (Centro Studi Problemi Internazionali – Milano)
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