La propria vita e la propria morte

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I progressi della scienza e della medicina hanno reso ormai quasi senza senso l’idea di morte naturale. Il morire è diventato un processo lungo e spesso tormentato da sofferenze che taluni ritengono intollerabili. Nessuno che sia in buona fede può negare questi cambiamenti e la conseguente necessità di elaborare una etica di fine vita, che riconosca il diritto – ma anche il dovere – di ciascuno di decidere sulla propria vita e sulla propria morte.

di Eugenio Lecaldano

Ostacoli alla riflessione
Negli ultimi mesi la discussione pubblica nel nostro paese è stata agitata da una serie di casi nei quali modi di morire che sono caratteristici dei nostri tempi hanno coinvolto non solo la persona morente e i medici, ma anche le nostre Corti di giustizia. È quanto accaduto il 23 luglio con il proscioglimento dall’accusa di omicidio del consenziente del dottore Mario Riccio per la sua partecipazione al processo del morire di Piergiorgio Welby alla fine del 2006. È quanto accaduto con la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito che si dovrà riaprire il dibattito processuale sulla richiesta di Giuseppe Englaro relativa alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale della figlia Eluana, in stato vegetativo permanente dal 1992. Dopo che Corti di vario livello avevano considerato non rilevante per la decisione in questione il richiamo all’opinione espressa dalla stessa Eluana e avevano caratterizzato l’alimentazione e l’idratazione come mezzi necessari e non terapeutici, la Cassazione ha argomentato in senso contrario. Molto lentamente procede invece in parlamento la discussione della proposta di legge per il riconoscimento del valore legale del testamento biologico (ovvero «direttive anticipate»), nonostante l’impegno del presidente della commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino. Nei prossimi anni non potremo evitare di confrontarci ancora su tali questioni e non possiamo certo prevedere, né auspicare, che il silenzio cada su di esse. Dovremo discutere e rivedere la nostra legislazione, probabilmente procedendo lungo le strade già percorse dai molti paesi europei che hanno innovato le loro normative prendendo atto delle nuove condizioni del morire. Non credo dunque inutile ritornare su quelle che sono le questioni etiche di fondo connesse al morire e interrogarci su quello che ciascuno di noi dovrebbe ritenere giusto fare: è ovvio che interrogarsi su tale questione riguarda quasi esclusivamente una considerazione relativa alla propria morte, che è l’unica di cui abbiamo disponibilità, non essendoci in nessun modo disponibile la vita degli altri. È anche ovvio che l’individuazione di una coerente linea etica con cui affrontare le nuove condizioni del morire non vuole essere in alcun modo – specialmente se fatta da chi, movendosi nel quadro di una concezione morale naturalistica e non religiosa, accetta il pluralismo etico e le diversità di piano tra etica, diritto e politica – una richiesta ultimativa di immediata trascrizione giuridica di essa. Fa parte dei doveri di lealtà di un cittadino affidarsi alle regole democratiche previste nel suo paese per la trasformazione delle leggi, ma fa sempre parte di questo dovere esprimere pienamente le sue convinzioni etiche, non censurandole per il timore che vengano strumentalizzate da coloro che in mala fede si oppongono a un miglioramento sia pure graduale delle leggi.
Per poter avviare una riflessione sulle nuove responsabilità verso il morire nel nostro paese la prima cosa da fare è rifiutare criticamente le argomentazioni con cui ci si vuole impedire di formarci una personale concezione etica. Una riflessione pubblica serena e approfondita sul come dobbiamo regolarci nei confronti delle nuove condizioni in cui attualmente muoiono gli esseri umani non solo non viene mai sollecitata, ma al contrario viene continuamente repressa. Ripetuti sono, infatti, i pronunciamenti contro qualsiasi ampliamento della libertà individuale nei confronti della propria morte, soprattutto attraverso la concezione tradizionale che considera la vita come un dono di Dio e la nascita e la morte come eventi non disponibili alle scelte umane e da affidare esclusivamente alla natura (nella quale la volontà e la provvidenza divina massimamente si esprimono).
A questi pronunciamenti si risponde con l’abituale conformismo e acquiescenza che caratterizza la discussione pubblica di temi morali nel nostro paese. Del resto, come su altri temi, pronunciamenti del genere non sono certo rivolti a favorire la crescita di una riflessione morale critica e indipendente, in quanto il messaggio che trasmettono è che nelle questioni etiche gli esseri umani debbono limitarsi a obbedire alle leggi naturali divine e all’interpretazione che di esse offrono le autorità religiose. Per quanto riguarda la fine della vita umana, il messaggio che si vuole far passare è che qualsiasi allargamento della libertà decisionale individuale ci farebbe scivolare su una china pericolosa, il cui esito non potrebbe non essere l’uccisione, contro la loro volontà, degli anziani non autosufficienti.
Ma prevedere un incremento di questo genere di omicidi, nel caso si accrescessero le scelte responsabili degli individui, è un’argomentazione fallace che dà per scontati la malvagità intrinseca degli esseri umani e l’uso sempre negativo della libertà loro concessa, come se solo minacce o sanzioni (giuridiche o quelle che rinviano a un’altra vita) potessero tenerli a freno. Inoltre una posizione del genere sembra non fare i conti con la possibilità che la vita di molte persone, attualmente, abbia a concludersi per una decisione nascosta da parte del personale sanitario, che non può procedere diversamente non disponendo di nessuna volontà espressa dalla persona morente.
Egualmente di ostacolo a una libera discussione delle questioni di fine vita è il conformismo pubblico con cui – dai medici ai legislatori – vengono accettate senza discussione le distinzioni concettuali che la morale cattolica propone per il trattamento delle scelte relative alle persone morenti, ai malati terminali e a quelli in stato vegetativo permanente. Si veda ad esempio quanto poco è discussa da noi la caratterizzazione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiali come interventi necessari di sostegno e non come terapie che potrebbero essere sospese perché considerate sproporzionate. In modo analogo si impedisce un ampliamento dell’area di libera decisione individuale sulla propria morte facendo passare come unica valutazione rilevante quella se vi sia o meno un qualche accanimento terapeutico, fermo restando che tale valutazione è rimessa completamente ai medici. A un livello ancora più propagandistico sono stati ampiamente riproposti slogan che presentano qualsiasi forma di apertura nei confronti del suicidio assistito o dell’eutanasia attiva volontaria come un cedimento a imbarbarimenti culturali come quelli raggiunti a suo tempo dalla legislazione della Germania di Hitler che assassinava – chiamando in causa in modo del tutto ingiustificato la nozione di eutanasia – persone affette da patologie mentali incurabili. Non bisogna in alcun modo equivocare tra l’eutanasia volontaria che è un intervento richiesto esplicitamente dalla persona morente e gli omicidi di persone contro il loro volere: perché impedire una discussione minimante riflessiva introducendo indebite assimilazioni del genere?

Una nuova riflessione sulla morte
Tutta questa retorica e propaganda non ha però la forza di bloccare la crescita della consapevolezza, nel nostro paese, delle condi
zioni di vita del tutto nuove rispetto alle precedenti generazioni: grande miglioramento per il benessere e nuove possibilità di cura capaci di promuovere una migliore qualità di vita e il suo allungamento. Condizioni, per altro, che hanno trasformato radicalmente i modi di morire e che proprio per questo richiedono un impegno e una responsabilità etica nelle ricerca di regole e princìpi universalmente apprezzabili sulle scelte e decisioni da prendere nei confronti dei modi in cui è prevedibile che si possa morire.
Una delle critiche più frequenti che si sente ripetere contro coloro che – come chi scrive – considerano la moralità principalmente come una faccenda di responsabilità individuale è che sarebbero incapaci di salvaguardare con le loro riflessioni la fragilità e limitatezza della condizione umana. Non si capisce sulla base di quale tecnica manipolatoria si accusano laici e non religiosi di essere portatori di una cultura che rimuoverebbe la morte dall’orizzonte della consapevolezza individuale. Proprio contestando questo luogo comune, possiamo invece riconoscere alla cultura meno incline a dare una risposta religiosa ai nostri problemi esistenziali una grande elaborazione sul tema del senso della morte e del modo in cui affrontare con consapevolezza e dignità la propria. La cultura non religiosa non può ricorrere alle rimozioni consolatorie della morte che fanno appello all’improbabile mito di una vita futura, eterna e felice, per i soli credenti in ciascuna fede.
Un esempio di elaborazione laica sulla morte è sicuramente rappresentata dalla riflessione continua e approfondita di Sigmund Freud – per fermarci al secolo scorso e non risalire a personalità dei secoli precedenti come ad esempio David Hume (per il quale basta vedere le sue riflessioni sul suicidio) o Charles Darwin alle prese con l’elaborazione del lutto per la morte della figlia Annie all’età di dieci anni (come risulta dalla ricostruzione che di queste riflessioni ha fatto Randal Keynes) (1). Freud, con la sua ricerca, si proponeva di cogliere la risonanza esistenziale profonda del modo in cui ciascuna persona considera la propria morte. Questo si intrecciava con l’elaborazione personale dell’esperienza diretta delle malattie delle persone che gli erano care e della sua stessa malattia di cancro alla mascella, un’esperienza che lo ha accompagnato per molti anni e di cui restò consapevole fino a poche ore prima di morire (2). Elaborando fino in fondo riflessioni legate alla previsione delle proprie condizioni di morente, Freud fu molto chiaro nel richiedere al proprio medico Schur non solo la sospensione delle cure, ma proprio un intervento attivo che in presenza di sofferenze insostenibili lo aiutasse a morire. Fu questa la prima richiesta che avanzò nel primo incontro con il suo medico invitandolo a rassicurarlo con una promessa a questo proposito («Mi prometta ancora una cosa: quando sarà venuto l’ultimo momento non mi lasci soffrire inutilmente») (3), e fu questo che chiese esplicitamente nei suoi ultimi giorni, invitando Schur a rispettare la promessa che gli aveva fatto («Allora mi promise che non mi sarebbe venuto meno quando fosse stato il momento. Ormai è solo tormento e non ha più senso») (4). Promessa a cui Schur mantenne fede.
Ma le condizioni in cui ora ci avviamo a morire comportano un incremento delle nostre responsabilità rispetto a quelle di cui Freud si mostrò pienamente consapevole. La medicina, nel bene e nel male, ha cambiato sia i modi di morire sia la stessa definizione della morte (come ha ricostruito recentemente Carlo Alberto Defanti) (5).
Le condizioni in cui potremmo morire sono completamente cambiate: non solo possiamo aspettarci di morire lentamente con sofferenze del tutto prive di senso, ma non possiamo escludere, anzi dobbiamo ritenere probabile, che si muoia in un lento processo di irreversibile avvicinamento alla fine in cui, non consapevoli, siamo attaccati a macchine che vicariano attività fondamentali come la respirazione, l’alimentazione, l’idratazione oppure, essendo consapevoli, abbiamo completamente perduto la capacità di relazione con i nostri cari, siamo emotivamente collocati in un presente pieno di terrori e ansie incontrollabili, il nostro organismo perde tutte le sue normali funzionalità e cade in un vuoto privo di qualsiasi rapporto con la realtà.
Ma se le condizioni del morire sono largamente cambiate rispetto a quelle in cui moriva Freud, ora in nessun modo hanno senso molte delle risposte che avrebbero potuto essere opposte alle sue richieste e in un certo senso la nostra etica non può più limitarsi a chiedere che ci si risparmino delle sofferenze inutili. Non sembra possa più essere sensatamente riproposta un’etica che ci indichi come unico nostro dovere quello di aspettare con umiltà e coraggio la morte naturale soprattutto perché non è più possibile dare significato alla pretesa «morte naturale».
È ovvio infatti che non si capisce più cosa sia la morte naturale quando le persone sono mantenute in vita non coscienti e non consapevoli per anni e anni con l’aiuto di cannule e fili artificiali o dosi massicce di farmaci. Veramente vorremmo che in buona fede coloro che ci invitano ad aspettare pazientemente e rispettosamente la morte naturale ci spiegassero cosa intendono con morte naturale. E vorremmo sapere se costoro hanno argomenti per contrastare la nostra convinzione che in effetti oggi per molti di noi – e dunque potenzialmente per ciascuno di noi – il momento della morte è deciso solo dai medici dalla loro scelta di prolungare o interrompere i loro interventi curativi e l’uso delle tecnologie di sostegno a loro disposizione. Non si vuole negare che molto di positivo possiamo aspettarci dalle scelte mediche che ci curano e ci aiutano a prolungare la nostra vita, ma – seguendo la lezione di Freud – possiamo senza arroganza spingerci a ritenere che la nostra morte è qualcosa che ci appartiene, qualcosa che abbiamo il diritto di chiedere si svolga in certi modi, anzi più esplicitamente abbiamo proprio il dovere di chiedere che essa avvenga, una volta che si sviluppino delle condizioni di vita per noi insensate e insostenibili. Proprio il passaggio da un’etica di fine vita centrata intorno a diritti a una che trova spazio anche per l’individuazione di doveri accompagna le trasformazioni dei processi del morire a cui stiamo assistendo.

Un’etica autonoma e responsabile sui confini della vita umana
L’artificialità delle nostre condizioni di vita e di cura ha accresciuto lo spazio per le nostre scelte e dunque la necessità di elaborare una prospettiva etica. Ciò è avvenuto, in gran parte, sul versante delle nascite. Infatti oramai il presupposto fondamentale per un’etica riproduttiva è quella di abbandonare l’idea che le nascite siano affidate alla natura. Il diffondersi delle pratiche di riproduzione assistita e dei mezzi di controllo delle nascite ha reso sempre più evidente la necessità di abbandonare una concezione della nascita incompatibile con le scelte responsabili e dunque ora comprendiamo bene che abbiamo bisogno di regole e princìpi morali che aiutino le persone direttamente coinvolte a riflettere se avere o non avere una prole, su quanti figli avere, su quando e se accettare o meno di avere una prole che, per la sua conformazione genetica, potrebbe vivere una breve vita caratterizzata da continue sofferenze. Ma anche i nostri modi di morire sono cambiati e non possiamo più accampare, contro la richiesta di elaborare un’etica di fine vita, l’alibi che in definitiva questo processo biologico deve essere affidato &ndash
; con senso di gratitudine verso il creatore che ci ha dato la vita – alla natura. Le condizioni di morire, sempre più medicalizzate e sempre più influenzate dalle cure di cui disponiamo nella nostra vita, hanno reso necessario che si giunga a elaborare una compiuta etica della fine della vita.
Ciò significa in primo luogo superare quell’atteggiamento di passiva attesa della propria morte accompagnata dalla convinzione che l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare è ricorrere a tutte le cure che ci consentono di sopravvivere sempre e comunque. Questo atteggiamento,lo ripeto, non è eticamente apprezzabile perché è solo un cedere la propria libertà morale alle potenzialità che la medicina ha aperto per le nostre vite: si tratta di una forma di accanimento terapeutico socialmente diffuso, che noi accettiamo acriticamente per paura delle sofferenze e senza essere consapevoli che questo continuo processo non potrà che concludersi con la nostra morte.
Il quando e il come moriremo è certamente spesso affidato al caso, ma per quella parte per cui vi è spazio per le nostre scelte dovremmo chiederci che tipo di morte abbiamo il diritto di evitare o, forse meglio, che tipo di morte abbiamo il dovere di chiedere che sia evitata. Le condizioni in cui moriamo, infatti, spingono verso un’etica di fine vita che non ruota più intorno a una semplice rivendicazione di diritti, ma che può spingersi fino a riconoscere dei veri e propri doveri: naturalmente senza più la pretesa di affermare doveri assoluti, ma più umilmente richiamando le altre persone a discutere quelle ragioni che ci portano a ritenere più apprezzabili certe condotte rispetto ad altre. Ammettendo che ciò che per noi è un dovere per altri può non esserlo e aspettando pazientemente che la condizione che attualmente ci costringe a considerare la morte secondo le indicazioni della morale cattolica venga superata da leggi che invece ci consentano di essere coerenti con la nostra moralità.

I nostri doveri verso le nuove condizioni di morire
Intanto un vero e proprio dovere è quello di superare gli atteggiamenti che impediscono il formarsi di un’etica di fine vita: come abbiamo detto, quell’affidarsi a Dio o alla natura, che altro non è se non far prevalere il potere dei medici o eventualmente le decisioni di coloro che più ci sono vicini. Dato che siamo nella condizione di non poter escludere che la nostra vita si concluda con una lunga sopravvivenza attaccati a macchine o fili, oppure in una condizione di impedimenti – fisici e mentali – sempre più gravi a causa di malattie degenerative a cui vanno incontro le persone molto vecchie, non possiamo non interrogarci su che cosa dobbiamo chiedere si faccia per noi una volta giunti a questo punto. Per dirla con Freud, che tipo di sopravvivenza non avrebbe più alcun senso per noi. Se saremo consapevoli, potremo manifestare direttamente le nostre richieste, e dobbiamo solo attrezzarci mentalmente per essere preparati. Ma nel caso in cui non fossimo più consapevoli dobbiamo non solo prevedere quali saranno le nostre richieste, ma anche manifestarle pubblicamente fin da ora che siamo coscienti e chiedere con forza che esse non siano disattese nel momento in cui, sia pure in vita, non potremo più essere lì a ribadire le nostre volontà.
Molte argomentazioni sofistiche vengono qui richiamate per indebolire la connessione tra l’espressione della volontà da parte di una persona quando è consapevole e la persona che non è più consapevole, ma di certo è preferibile rispettare la volontà espressa da una persona quando era consapevole piuttosto che la volontà di un estraneo che, se fatta valere sulla morte di questa persona, non potrebbe non contenere una componente coercitiva. Altri sofismi vengono sollevati laddove si leghi una richiesta anticipata a qualche determinato grado di competenza, ma anche qui non si capisce perché la competenza ritenuta dirimente per la fine della vita di una persona non possa essere determinata dalla persona stessa e non fatta necessariamente dipendere da definizioni che si presumono oggettive, ma in realtà sono spesso solo coercitive.
Certo, vista nell’ottica della ricerca di una nuova etica di fine vita, non può che risultare incompatibile con la possibilità stessa di questo avanzamento una legislazione – come quella attualmente esistente nel nostro paese – che non permette di riconoscere le direttive anticipate e che non ne favorisce la diffusione. La politica che ostacola il riconoscimento del valore giuridico delle direttive anticipate è una politica che vuole impedire alle cittadine e ai cittadini di formarsi un’etica di fine vita e li vuole tenere sotto tutela. Più comprensibile sarebbe una politica che riconoscesse il valore vincolante delle direttive anticipate e procedesse gradualmente a indicare le richieste che possano essere ricevibili, iniziando ad esempio dalle sole richieste di sospensione di cure e trattamenti, includendovi l’alimentazione e l’idratazione artificiali.
Deve essere poi chiaro che l’etica di fine vita da elaborare riguarda la nostra morte ed è principalmente su questa che dobbiamo puntare la nostra attenzione. Gli atteggiamenti socialmente diffusi ora nel nostro paese sembrano impegnati a far valere norme per le morti altrui, in genere norme coercitive che negano diritti e libertà in nome della presunta salvaguardia di sacralità e dignità della vita umana. Dobbiamo divenire consapevoli che un’etica basata sull’autonomia individuale di certo ci prescriverà di prenderci cura degli altri, confortarli e assisterli nelle tremende condizioni che precedono la morte, ma si estenderà anche a richiedere scelte e decisioni per la nostra stessa morte. Dovremo poi ammettere che diverse potranno essere le sensibilità delle persone relativamente alla loro morte e dunque non potremo né coercitivamente imporre per legge un «buon morire», come adesso avviene in Italia, né dare al nostro modo di intendere il dovere una forza maggiore di quella che ricava dalle argomentazioni con cui lo giustifichiamo.
Così più concretamente l’etica di fine vita deve allargarsi fino a richiedere per se stessi una forma di eutanasia attiva volontaria in certe condizioni. Sul piano giuridico questo si rifletterà nella richiesta di leggi che permettano ma non certo impongano l’eutanasia attiva volontaria.
Le condizioni attuali del nostro morire rendono dunque necessario riflettere sulla nostra morte: abbiamo dei doveri verso noi stessi e verso gli altri che potrebbero essere lesi se sottraiamo alla nostra riflessione questa parte delle nostre vite. Noi potremmo dover vivere l’ultima parte della nostra vita in condizioni di sofferenza che non potremmo sostenere, o in condizioni meramente vegetali che non riteniamo necessario continuare, o in condizioni di degenerazione delle nostre facoltà che non riteniamo tollerabili. Ma anche nei confronti dei nostri familiari abbiamo il dovere di chiederci quanto sia giusto che essi sopportino pesi tremendi in termini di affettività, tempo, perdita della libertà, spese e quant’altro si accompagna a una nostra sopravvivenza in condizioni che noi stessi non vogliamo.
Quando le nostre capacità di aiutare e sostenere gli altri sono definitivamente cessate forse il nostro ultimo dovere è chiederci se dobbiamo affidare all’affetto degli altri decisioni che in definitiva riguardano le opzioni più profonde della nostra vita e della nostra libertà di fronte alla morte. Solitamente si considera mostruosa una società nella quale le morti degli anziani sono de
cise considerando i costi delle loro sopravvivenze, ma quanto è mostruosa una società i cui cittadini non si chiedono mai se la pretesa di essere mantenuti in vita sempre e in qualunque condizione sia giusta o non sia una forma di egoistico attaccamento alla propria vita biologica?
La nostra etica di fine vita ci porta a ritenere con Freud che abbiamo il diritto di chiedere che siano sospese le cure inutili per noi e ancora di più di essere aiutati a morire di fronte a sofferenze insostenibili. Questo significa che dovremo chiedere non solo la sospensione di cure ma una vera e propria azione di eutanasia attiva nei nostri confronti, laddove la vita che ci resta sia caratterizzata da una completa mancanza di consapevolezza, da sprazzi di coscienza all’interno di una nera notte di paure e di terrori suscitati da tutto ciò che ci accade intorno, da una continua degenerazione delle nostre capacità di condurre una vita corporea autonoma. Dovremo favorire dunque quelle leggi che, come per esempio quelle olandesi, lascino alle persone la libertà nei modi di morire e che non costringano il personale sanitario a partecipare a pratiche di eutanasia attiva volontaria, ma che escludano la rilevanza giuridica degli interventi eutanasici sulle persone che lo hanno richiesto e che sono alla fine della loro vita. Questa etica richiede poi che si mostri la vacuità di tutte quelle riflessioni in nome delle leggi divine o della natura, e che si favoriscano nel nostro paese le condizioni per un confronto pubblico, libero e consapevole, accompagnato da una più lucida conoscenza sui modi in cui nella nostra epoca ci si avvicina alla morte.

(1) R. Keynes, Casa Darwin, Einaudi, Torino 2007.
(2) Come narra il suo medico Max Schur nella biografia Freud in vita e in morte, Bollati-Boringhieri, Torino 2006.
(3) Ivi, p. 391.
(4) Ivi, p. 499.
(5) C.A. Defanti, Soglie. Medicina di fine vita, Bollati-Boringhieri, Torino 2007.



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