La ‘ragione’ di Ratzinger e la ragione tout court
La logica identitaria di tipo comunitarista – che guida anche l’offensiva dei cattolici di casa nostra – è ai limiti della democrazia. La cittadinanza democratica si basa infatti sul riconoscimento della pluralità delle visioni del mondo e sulla condivisione di regole comuni. La svolta etica del cattolicesimo degli ultimi anni mette seriamente a rischio il patto civile tra cittadini.
di Gian Enrico Rusconi
In Italia il dialogo tra cattolici e laici è ormai una finzione diplomatica. È un calcolo di convenienza politica e di aritmetica elettorale. È impossibile persino intendersi su chi sia laico e/o cattolico (o credente – come si continua a dire per inerzia convenzionale). Tutti in Italia infatti si dichiarano laici. Anche se spesso aggiungono di esserlo in modo «sano», «nuovo» o semplicemente «vero». Sono aggettivazioni superflue che dissimulano la semplice realtà che i laici in Italia sono una minoranza.
Intanto cresce la tendenza a un outing religioso affidato a dichiarazioni soggettive insindacabili, senza alcun rilievo teologico.
Sociologi (e monsignori) scambiano tutto questo come «ritorno delle religioni», dimenticando che la religione tradizionale era in grado di produrre «condotte di vita» sulla base di alcuni riferimenti dogmatici, non disinvolti «stili identitari» meramente soggettivi.
Ma la qualità del consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede agli italiano non prevede alcuna specifica competenza teologica. Il suo punto di forza è la rivendicazione del monopolio dell’etica, basato sulla presunta «naturalità» o «razionalità» dei suoi argomenti e delle sue proposte. L’obiettivo del «discorso pubblico» della Chiesa – quello che davvero le sta a cuore per determinare l’etica pubblica – è oggi innanzitutto la difesa della famiglia «naturale» e/o della «vita», collocata in un’indiscutibile («non negoziabile») visione normativa.
Questa visione è dichiarata espressione di un ethos comune, condivisa presuntivamente da tutti gli italiani e quindi da sostenere con dispositivi di legge vincolanti per tutti. Si crea così uno stretto nesso tra una particolare dottrina della natura umana e la presunzione che essa sia condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione. Verità di natura e sentimento popolare festeggiano la loro unione felice. La religione cattolica è promossa a fattore di integrazione sociale, a surrogato di religione civile degli italiani.
Naturalmente ci sono consistenti minoranze di credenti che non condividono questa impostazione, ma lo fanno con voce flebile e prudente, benevolmente tollerati dalla gerarchia. Di fatto extra romanam ecclesiam nulla vox.
Tutto questo pone la questione, che qui ci sta a cuore: il rapporto di cittadinanza tra cittadini credenti-di-chiesa e gli altri.
Prima di procedere oltre, mettiamo a fuoco il concetto di «discorso pubblico». Nel modo di parlare corrente esso è usato come sinonimo di «sfera pubblica», a sua volta fatta coincidere con «spazio mediatico». Indica l’insieme dei processi comunicativi che in una società democratica sono aperti per definizione a tutti – individui, gruppi, istituzioni e organizzazioni. Nella sfera pubblica ha luogo anche il confronto degli uomini di scienza sotto forma di interventi pubblicistici sempre più frequenti e apprezzati dalla stampa.
Su questo sfondo – a mio avviso – sarebbe opportuno riservare al concetto di «discorso pubblico» il significato più specifico di operazione che mira strategicamente (per tempi, modi e destinatari) a trasformare convinzioni di parte in norme di legge che valgono per tutti. Soltanto facendo questa distinzione si possono evitare alcuni equivoci. Ad esempio, quando la Chiesa lamenta di essere ostacolata nel suo «discorso pubblico», mescola due situazioni molto diverse. Confonde l’accesso alla sfera pubblica e mediatica, di cui palesemente la Chiesa non soffre nel nostro paese, con la capacità di far valere senz’altro le sue dottrine presso la grande opinione pubblica e soprattutto presso la classe politica – in materia di rapporti familiari, di sessualità o sui temi scientifici che hanno significativi effetti pratici (l’insegnamento della teoria dell’evoluzione nelle scuole).
Soltanto in questo secondo caso si tratta di «discorso pubblico» in senso forte, orientato a essere politicamente influente ed efficace. Ma anche a questo riguardo non si può certo dire che la Chiesa oggi manchi di influenza pubblica. Anzi sorge l’interrogativo sino a che punto la situazione italiana debba considerarsi del tutto normale per una democrazia o non nasconda invece pericoli di distorsione.
O detto in altro modo: nasce l’interrogativo se appartenenze particolari, religiose non si sovrappongano, con le loro pretese identitarie, alla cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni comunitariste.
Torniamo alla de-teologizzazione dell’atteggiamento religioso, di cui parlavamo sopra, fenomeno in generale trascurato o rimosso da teologi e analisti culturali. L’approccio etico-religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza che storicamente sono (stati) tutt’uno con la dottrina morale della Chiesa. Oggi questi temi teologici sono diventati quasi incomunicabili a un pubblico religiosamente de-culturalizzato. La dottrina millenaria della «natura decaduta con il peccato», che ha sostenuto teologicamente le indicazioni morali tradizionali, viene tacitamente dichiarata obsoleta senza convincenti spiegazioni. La teologia morale è interamente assorbita dalla tematica della «vita» e della «natura» con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bio-teologismo o di risacralizzazione naturalistica carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell’evoluzione.
In questo contesto non è facile collocare la strategia comunicativa di papa Ratzinger che talvolta sembrerebbe muoversi in controtendenza quando insiste sui motivi del logos, della ragione e dell’«illuminismo» (Aufklärung). Ma alla fine il suo modo di argomentare attorno alla «razionalità della fede» porta anch’esso alla critica contro la scienza.
In questa sede, delle posizioni ratzingeriane che declinano il messaggio religioso con le categorie della ragione, vorrei ricordare soltanto il tema della originaria ellenizzazione del cristianesimo. La tematica dell’ellenizzazione/disellenizzazione del messaggio cristiano, presente in tutta l’opera intellettuale ratzingeriana, ha acquistato rilievo pubblico nella lezione di Ratisbona (settembre 2006), uscendo dall’ambito specialistico della storia della dogmatica, per delineare appunto il modello della «razionalità della fede». Ha colto di sorpresa e impreparati i commentatori cattolici nostrani, mentre ha provocato una vivace reazione nel mondo protestante tedesco e americano e in generale là dove esiste ancora una cultura storica teologica degna di questo nome. Da noi invece i commentatori del discorso papale a Ratisbona sono rimasti fissati sulle parole pronunciate sull’islam (e la loro interpretazione autentica dopo la maldestra citazione dell’imperatore bizantino) sorvolando completamente sulle tesi dell’ellenizzazione, come se fosse una faccenda di studiosi e di storici della dogmatica. Il punto invece è decisivo, anche se complesso, perché riguarda
la radice originaria della «razionalità della fede», così come è concepita da Ratzinger.
Con ellenizzazione si intende l’operazione culturale con la quale tra il II e il V secolo gli esponenti più qualificati della Chiesa (i Padri della Chiesa) hanno strutturato, una volta per tutte, tramite categorie prese dalla tradizione neoplatonica, i fondamenti dell’annuncio cristiano (i dogmi). I concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia li hanno codificati.
Questa operazione è avvenuta attraverso profondi traumi e laceranti conflitti. I primi secoli dell’era cristiana sono segnati infatti da grandissimi contrasti tra le diverse comunità e Chiese locali, in un policentrismo teologico e politico che vede vescovi e autorità imperiali in continua tensione, con interventi di «polizia teologica», persecuzioni e tumulti popolari, sullo sfondo degli ultimi fuochi dello «scontro di civiltà» tra paganesimo e cristianesimo.
Dal punto di vista della ricostruzione storica questa serie di eventi culturali e politici non può essere interpretata come la contrastata ma alla fine riuscita affermazione della «vera dottrina» cattolica e della sua struttura istituzionale di contro alle ostinate e travisanti eresie, sotto il segno appunto di un’ellenizzazione che disegna la sintesi ideale e insuperata tra fede e ragione. Ma è proprio quanto fa Ratzinger, la cui preoccupazione dominante è quella di preservare intatta questa sintesi, denunciando come traviamento dalla razionalità tutti i tentativi storici successivi che si allontanano da quel modello. Le diverse ondate della disellenizzazione infatti sono presentata come altrettanti attentati alla razionalità della fede, se non alla ragione tout court.
Alle diverse fasi storiche della disellenizzazione (dalla Riforma protestante alla teologia liberale) Ratzinger dedica soltanto pochi passaggi di condanna, perché a lui sta a cuore il punto d’arrivo: la polemica contro lo scientismo ovvero l’assolutizzazione impropria di taluni criteri e procedimenti scientifici. Ma se si esamina attentamente l’argomentazione messa in campo, si scopre che la critica ratzingeriana allo scientismo investe in realtà la razionalità scientifica come tale.
«La scienza», dice Benedetto XVI, «deve accettare semplicemente come un dato di fatto la struttura razionale della materia come pure la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture operanti nella natura». Questo modo di vedere e di parlare metafisico («struttura razionale della materia» e «corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata della natura») è in stretta simbiosi con il dogma cristiano della natura-creazione, formulato in codice ellenizzato. Come corollario, la «ragione vera» per il papa è soltanto quella che è proiettata verso il trascendente, quella «che si interroga su Dio». In una parola, è «la ragione della fede».
Con questa premessa, non solo sono poste le basi del diniego a priori del carattere scientifico (ovvero autenticamente razionale) di ogni teoria che non preveda la presenza del divino, come è il caso delle teorie dell’evoluzione di matrice darwinista. Ma, nonostante la dichiarata ammirazione di Ratzinger per la conoscenza scientifica, alla scienza viene disconosciuta di fatto ogni autonomia logica e metodologica che sono rigorosamente immanenti.
Ragionamento analogo vale anche per la dichiarazione dei limiti della razionalità in generale. Che la ragione sia limitata lo sappiamo da sempre, in modo sistematico nell’età moderna a partire da Immanuel Kant. Ma proprio verso Kant il pontefice formula (a Ratisbona) un giudizio sorprendentemente riduttivo.
Se Ratzinger vede i limiti della ragione soltanto nell’orizzonte definito dalla fede, se ammette l’autonomia della ricerca scientifica soltanto in un’ottica di subalternità alla religione, se disconosce alla scienza ogni capacità autonoma di conoscenza sull’uomo e sulla natura, allora il pontefice nega di fatto l’essenza stessa della ragione moderna.
Non sono io a dirlo, ma lo afferma Jürgen Habermas, il filosofo tedesco che i cattolici additano volentieri come il partner laico ideale (fraintendendo e manipolando il suo colloquio del 2004 con l’allora cardinal Ratzinger presso l’Accademia cattolica di Monaco). Anche Habermas coltiva forti preoccupazioni nei confronti della «tecnicizzazione della vita umana» operata dalle biotecnologie ed è nemico dello scientismo. In questa direzione si aspetta dalle religioni un significativo contributo. Ma dopo il discorso di Ratisbona, il filosofo francofortese constata con rammarico che il pontefice dando al vecchio dibattito sulla ellenizzazione e disellenizzazione del cristianesimo «una svolta inattesa nel senso di una critica alla modernità, ha fornito anche una risposta negativa alla domanda se la teologia cristiana deve tenere conto delle sfide della ragione moderna, postmetafisica».
A questo punto, viene meno ogni possibilità di «reciproco apprendimento» tra ragione laica e fede cristiana, che il filosofo laico Habermas si era augurato sulla base di tre requisiti: la rinuncia al monopolio della verità, l’accettazione dell’autorità della scienza, il primato del diritto secolare/laico nella sfera pubblica.
Con tutta la mia simpatia per Habermas, ritengo che queste sue richieste siano ingenue perché inaccettabili per l’ortodossia cattolica. Per essa infatti tutto tiene: dal primato epistemologico di Dio («Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio») ai limiti posti alla razionalità scientifica, sino ai diritti umani che vanno intesi come diritti naturali fondati sulla creazione.
Fermiamoci un istante su questo punto. Del diritto naturale tradizionale, che nella sua dimensione più profonda voleva essere «un diritto razionale», nella modernità sono rimasti – osserva Benedetto XVI – soltanto i diritti umani. Per Ratzinger il diritto naturale non ha più il fondamento che era tipico del giusnaturalismo, ma mantiene il richiamo (implicitamente metafisico) all’uomo-come-uomo: «Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore ma sono iscritti nella natura stessa della persona umana e sono pertanto rinviabili ultimamente al creatore».
Notiamo il linguaggio del pontefice. Se la sua riflessione filosofica e teologica rende esplicito l’assunto metafisico, il suo linguaggio pubblico è più sfumato. O meglio, propone una sorta di metafisica implicita, allusiva che viene facilmente colta dall’uomo comune. Parla di «uomo come uomo», di valori e diritti «da trovare, non da inventare». I diritti umani non sono deducibili da una dottrina del diritto naturale ma sono colti d’istinto. Da qui il quesito «se non ci possa essere una ragione della natura o un diritto di ragione per l’uomo e il suo stare nel mondo».
Il concetto di «ragione della natura» è squisitamente metafisico, abbandonato da gran parte del pensiero filosofico contemporaneo, mantiene un enorme forza di suggestione sul modo di pensare e parlare nostro quotidiano. In questo senso siamo tutti sempre metafisici ingenui.
Da qui l’ultimo passaggio di Ratzinger: per salvaguardare la ragione umana non ci si deve affidare alla filosofia o alle scienze umane, bensì alla religione. Questa oggi facilita la strada spostando il baricentro del suo messaggio dai temi della salvezza (peccato e redenzione) diventati enigmatici a quello apparentemente più semplice ed es
senziale della creazione.
Qui l’ostacolo principale è rappresentato dalla teoria evoluzionista di matrice darwiniana. Non seguirò qui la complessa vicenda dello sviluppo delle teorie neo-darwiniste e neppure la tortuosa reazione della Chiesa cattolica che intende conciliare il principio della creazione con alcuni aspetti della teoria dell’evoluzione.
In realtà è una strada irta di aporie, soprattutto quando pretende di limitare l’autonomia della ricerca scientifica. Ma non meno avventuroso è parlare di «salto ontologico» come fanno i filosofi per salvaguardare la «differenza umana» e giustificare quindi un intervento divino diretto ad hoc individuandolo magari in una fase cronologica particolare dell’evoluzione.
Ma veniamo alla dimensione politica. Le menti più lucide della Chiesa cattolica hanno abbandonato – apparentemente senza riserve – il tradizionale agnosticismo teologico verso le forme della politica e si dichiarano a favore del sistema democratico laico o secolarizzato. In realtà una riserva permane. Secondo loro, infatti, la democrazia dovrebbe riconoscere alla propria base un deficit strutturale di valori che soltanto la religione (o la tradizione religiosa specificatamente cristiana) sarebbe in grado di colmare offrendo al sistema democratico l’ethos di cui ha bisogno.
Da qualche tempo a sostegno di questa posizione si ricorre a una formula che è diventata un assioma, ripetuto come ovvio: «Lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti morali normativi che non può garantire». Questa affermazione è stata coniata quarant’anni fa dal costituzionalista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, assurgendo in Germania a Diktum. Tardivamente sta diventando popolare anche da noi. Non solo presso gli studiosi di diritto costituzionale, ma più in generale per chi, occupandosi dei rapporti tra Stato e religione, accredita alla religione la capacità di fornire i presupposti morali prepolitici di cui ha bisogno lo Stato per funzionare. Soprattutto per creare vincoli comuni, ethos solidale, senza il quale la società si disintegrerebbe.
Con questo significato, la tesi è ripresa con entusiasmo dagli uomini di Chiesa che parlano appunto della religione come fornitrice di ethos comune, come se lo Stato liberale laico non avesse valori autonomi da trasmettere.
In realtà dietro questo uso disinvolto della formula bockenfordiana c’è un equivoco. Lo studioso tedesco infatti aggiunge sempre che il tutto avviene in nome della libertà. Dice esattamente: «È questo il grande rischio che lo Stato liberale secolare ha corso per amore della libertà». Il riferimento alla libertà non è un dettaglio: è la chiave di lettura per spiegare il secolarismo moderno.
Il concetto radicale di libertà, quale fondamento stesso della fede, è il vero baricentro del discorso di Böckenförde. Ma parlando di «rischio» che lo Stato affronta per amore della libertà, il suo Diktum lungi dall’affermare un dato di fatto o una necessità inderogabile, enuncia un’aporia, un dilemma. La religione infatti non può svolgere alcun ruolo rassicurante di «religione civile», tanto meno invocare leggi a sostegno della propria visione etica. Viceversa nessun supporto statale alla religione può sostituire la sua vitalità, nei cui riguardi lo studioso nutre qualche dubbio.
Detto banalmente, Böckenförde non è un teocon più sofisticato di altri. Tutt’altro.
Oltretutto, le sue riflessioni non sono né lineari né sempre convincenti. È difficile infatti tenere insieme l’idea della necessità di un vincolo societario comune, offerto dalle radici cristiane, e l’affermazione incondizionata della libertà di coscienza che dà senso e fondamento alla fede stessa e che per definizione esclude ogni costrizione esterna in forma di legge.
Böckenförde, prigioniero del successo della sua formula, continua a ripeterla, senza rendersi conto che in quattro decenni lui stesso ha modificato il senso di alcuni termini della questione. Ma non è questa la sede per ripercorrere criticamente l’itinerario scientifico bockenfordiano. Limitiamoci a mettere a fuoco l’ultimo punto di arrivo, caratterizzato da una cortese ma ferma polemica con l’allora cardinale Ratzinger.
Il tema è estremamente significativo: lo spazio pubblico da riservare alle manifestazioni e ai simboli della religione islamica in Europa, che rappresenta virtualmente un fattore di disgregazione ulteriore dell’identità cristiano-occidentale degli Stati europei. Ratzinger è convinto che «uno Stato non può staccarsi completamente dalle proprie radici religiose ed elevarsi a puro Stato razionale, per così dire, privo di cultura e di profilo propri, e tratti allo stesso modo tutte le tradizioni religiose e le loro manifestazioni pubbliche».
Böckenförde non è d’accordo e replica: «La libertà religiosa non è divisibile e deve aprirsi anche nei confronti dei simboli religiosi di altre confessioni». Soprattutto lo Stato secolarizzato non può pretendere dagli immigrati un’adesione incondizionata ai valori culturali (religiosi) storici da cui esso ha tratto origine, ma deve accontentarsi di esigere da essi la lealtà alle leggi. Lo Stato secolarizzato deve concedere ai credenti di altre fedi, in particolare agli islamici, l’«intima riserva» nei confronti dei valori ultimi fondanti dell’ordine costituzionale; deve garantire loro la piena espressione anche pubblica della loro fede, purché siano leali osservanti delle sue leggi positive.
È una posizione molto chiara, che porta tuttavia a chiederci se – al di là della questione specifica dell’islam – questa rigorosa e coerente politica dello Stato laico e liberale non abbia contraccolpi sulla intera costruzione bockenfordiana. Quando l’autore afferma che non contano solenni dichiarazioni di adesione allo Stato liberale ma che «è la lealtà alla legge che diventa fondamento del vivere comune»; quando sostiene che solo «l’ethos della legge è in grado di sostenere e stabilizzare» l’ordine costituzionale; quando mette in guardia addirittura da un certo «fondamentalismo dei valori dell’ordine costituzionale» Böckenförde non assume di fatto una concezione squisitamente proceduralista della democrazia? Non relativizza di fatto la sua stessa tesi della necessità di presupposti di valore (religiosi) per garantire il buon funzionamento della società?
Abbiamo visto con quanta enfasi le autorità della Chiesa insistono nel reclamare alle posizioni religiose l’accesso senza restrizioni alla comunicazione pubblica, quasi che alle tesi motivate o quantomeno congruenti con le dottrine religiose (quelle attinenti ad esempio alla «natura umana») basti la semplice incontrastata esposizione pubblica affinché vengano accolte.
Ma – come abbiamo detto – esporre le proprie idee nella sfera pubblica non equivale automaticamente argomentarle con «ragioni pubbliche», in termini cioè tali che esse siano condivise da tutti i cittadini. In questo equivoco invece cadono spesso gli uomini di Chiesa. Sono convinti infatti che l’affermazione dei loro argomenti sia ostacolata da restrizioni della comunicazione. L’equivoco diventa ancora più grave quando si accompagna alla pretesa di rappresentare l’opinione della maggioranza dei cittadini, da sostenere con normative di legge vincolanti (anche per pervicaci mino
ranze di cattolici «immaturi»).
Naturalmente occorre guardarsi dall’idealizzare il dibattito pubblico come luogo deputato allo «scambio di ragioni» per arrivare al reciproco convincimento. Nella realtà sociale e politica al fondo di ogni confronto, in cui è implicato un forte investimento identitario, permane l’inconciliabilità dei punti di vista, talvolta appesantita da un sospetto morale diffamatorio nei confronti degli avversari. A partire da un certo momento, nella sfera pubblica, non c’è più ricerca di intesa ma dispiegamento di strategie tese a ottenere il riconoscimento delle proprie convinzioni, delle proprie rivendicazioni materiali e immateriali o identitarie.
Ma questa constatazione non è altro che il riconoscimento della realtà e inaggirabilità del pluralismo delle visioni del mondo e della vita, pluralismo che è garantito dalle Costituzioni democratiche. Su di esso si fonda il processo della deliberazione politica che produce leggi e norme valide per tutti, tenendo conto delle posizioni di ciascuno, secondo le procedure di maggioranza/minoranza e delle corrispondenti garanzie, con il controllo di costituzionalità e nel rispetto del principio dell’intangibilità dei diritti fondamentali.
Solo su questo sfondo ha senso parlare di ethos comune e di etica pubblica. L’etica pubblica dovrebbe riflettere e ricomporre in qualche modo tutte le differenti esperienze di vita dei cittadini in un ethos comune. Ma l’ethos comune non è sinonimo di omologazione di valori bensì la coesistenza di differenti punti di vista valoriali, di diversi ethos.
In questo modo l’etica pubblica non è altro che il senso della cittadinanza democratica. È la disponibilità a definire insieme le regole della convivenza partendo dal presupposto che la pluralità delle «visioni della vita», delle «concezioni del bene» o della «natura umana» non è una disgrazia pubblica cui ci si deve rassegnare, ma l’essenza del pluralismo democratico.
Qui ritorna alla luce la differenza tra l’impostazione del magistero ecclesiastico e la visione laica. La Chiesa – abbiamo visto – identifica di fatto l’ethos comune con quello della religione-di-chiesa e la sua dottrina morale. Tant’è vero che il pericolo che essa vede oggi incombere è che «ethos e religione perdono la loro forza di creare comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale» (sono parole di papa Ratzinger).
Il laico ha un visione diversa: l’ethos comune consiste nella comunanza delle regole condivise. Lo Stato è laico proprio perché non pretende dai cittadini identità di credenze in campo etico-religioso ma reciproco rispetto e considerazione dei differenti convincimenti, sempre aperti al confronto.
Il laico accetta una certa dissimmetria tra moralità privata ed etica pubblica; ammette che i propri criteri morali e di giudizio non coincidono e non esauriscono i criteri di moralità e di giudizio di altri, ed evita valutazioni che diffamano moralmente (quando addirittura non criminalizzano) chi la pensa in modo diverso. La diffamazione morale di comportamenti difformi, che non siano lesivi della libertà altrui, è virtualmente una minaccia alla democrazia,
Questa osservazione non contesta affatto al credente il diritto di far valere le sue convinzioni secondo la logica della cittadinanza democratica cui partecipa. Ed in effetti constatiamo quotidianamente come il credente, attenendosi alle indicazioni della Chiesa, avanza la richiesta che la sua «verità» (sui temi della famiglia, ad esempio) sia riconosciuta come momento costitutivo della sua stessa identità di cittadino sotto minaccia di sottrarre al sistema politico la sua lealtà (o più banalmente il suo consenso elettorale). Agendo in questo modo il credente risponde a una logica identitaria di tipo comunitarista, di riconoscimento cioè dei diritti di comunità (in questo caso cattolica) che si muove ai limiti della democrazia.
La situazione non cambia anche quando – come talvolta si sente dire anche da noi – una «minoranza religiosa» rivendica di rappresentare, su determinati temi, la posizione della «maggioranza morale» sentendosi così autorizzata a determinare l’etica pubblica.
In questa situazione il laico si trova davanti a tre compiti. Deve innanzitutto ribadire il principio secondo cui il credente può introdurre nel discorso pubblico e quindi nel processo deliberativo soltanto tesi che non disconoscano e non limitino l’autonomia di giudizio e comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie dalle sue. Naturalmente vale anche il reciproco. Ma quando il credente-di-chiesa si atteggia, talvolta, a vittima e protesta di essere discriminato nell’esercizio del suo diritto di costruire una «società buona» secondo i suoi criteri, dovrebbe innanzitutto ricordare che l’edificio politico-legislativo delle società democratiche e secolarizzate, in cui vive, non lede in nulla l’autonomia, la libertà di espressione, di pratica e di testimonianza del suo credere.
Ma il laico si trova davanti a un altro compito più impegnativo: deve sviluppare un discorso pubblico che sia dotato di forza persuasiva ed efficacia pari a quella dei suoi interlocutori. Deve falsificare l’inconsistente obiezione che la laicità sia, nel migliore dei casi, soltanto una procedura o un metodo mentre la religione offrirebbe contenuti sostantivi. Va fermamente respinto il luogo comune secondo cui la percezione del mistero della vita e della contingenza del mondo, l’emozione profonda davanti all’universo, il senso del limite dell’uomo siano prerogative del sentimento religioso. È una pura sciocchezza scambiare come indifferenza il pudore del laico che non sente il bisogno di enfatizzare con la «retorica del senso» la dignità della finitezza umana. Discorso analogo vale per i valori del solidarismo sociale.
La cultura laica rifugge da ogni omologazione culturale ma possiede una concezione della «natura umana» ragionevole e scientificamente fondata, a fronte di visioni antropologiche strettamente intrecciate con culture religiose storicamente debitrici a saperi prescientifici.
In terzo luogo, contrastando la tendenza di rinchiudersi in forme di cittadinanza comunitarista, che fa appello a univoche «tradizioni» o «radici» vincolanti, il laico fa valere il principio universalistico della cittadinanza costituzionale. Il problema della laicità in Italia oggi non riguarda soltanto la riconferma dei grandi princìpi del pluralismo, ma anche l’affermazione di una cultura che dia sostegno concreto alla cittadinanza costituzionale.
Tutto ciò è congruente con l’idea laica di democrazia intesa come lo spazio istituzionale entro cui tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita, senza ledere l’analogo diritto degli altri. Si tratta di un difficile equilibrio garantito da un insieme di procedure consensuali di decisione che impediscono il prevalere autoritativo di talune pretese di verità o di comportamento su altre.
Tutte le opzioni morali hanno pari dignità quando sono pubblicamente argomentate, accolte e sottoposte al vaglio dei procedimenti democratici nei casi in cui hanno rilevanza pubblica e richiedono di farsi valere come norme di valore giuridico. La libertà di coscienza individuale e la sua autonomia non sono affidate a insindacabili valutazioni so
ggettive bensì a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni degli altri, accolte con pieno rispetto. Da qui la necessità di legiferare in modo da non offendere chi non riesce a far valere il suo punto di vista.
È importante sottolineare che l’intendersi e l’agire «tramite procedura» non è una formalità convenzionale, artificiosa, opportunistica, revocabile a piacimento, ma è un agire performativo nel senso che impegna a un comportamento coerente e corrispondente. Impegna alla lealtà verso le norme legalmente definite, anche se non sono gradite soggettivamente.
Questa è democrazia laica, nel senso che quando in essa si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, ai fini dell’etica pubblica e delle sue espressioni normative, non decidono «verità sull’uomo» (implicitamente riferite a una «parola di Dio» autoritativamente interpretata) ma le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico. «La verità» – se vogliamo usare questo impegnativo concetto – consiste nello scambio amichevole di argomenti e nella lealtà reciproca.
Chi accetta questo ragionamento è laico. Chi non lo accetta e lancia contro di esso l’accusa di relativismo, non solo non è laico ma usa il termine «relativismo» come una parola-killer che uccide ogni dialogo.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.