La redenzione vaticana dei preti gay
di Pierfranco Pellizzetti
Il 7 gennaio Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale italiana, ospita un articolo dello psichiatra Vittorino Andreoli che tratta di omosessualità e sacerdozio. Sembrerebbe un segnale di liberi tutti.
Il giorno dopo, intervistato dal Secolo XIX di Genova, un prete della locale diocesi si lancia in una sorta di “outing con rete di sicurezza” parlando, sotto anonimato, della propria vita sessuale omo; cominciata con una relazione nata in seminario e durata quindici anni, per poi arrivare all’attuale legame sentimentale con un coetaneo cinquantenne.
Niente di nuovo, ovviamente. Visto che ben nota è la diffusa presenza in Santa Romana Chiesa di personale orientato a quelli che l’attuale papa definisce “comportamenti disordinati” nella sfera sessuale. Ma che si era sempre attenuto alla regola gesuitica che prescrive prudenza: “almeno cauti, se non si è casti”.
Sicché fa un certo effetto ricevere conferma di tale situazione da persona – come dire? – direttamente “informata dei fatti”.
Singolare outing – quello sul Secolo – non solo perché anonimo; in cui fa subito capolino l’ipocrisia “gesuitica” di cui è intrisa la condizione sacerdotale. In particolare il viziaccio (altro che vizietto) di piegare le regole a proprio uso e consumo; come l’affermazione del prete genovese che le proibizioni ecclesiastiche riguarderebbero la regola del celibato, non il tipo di preferenze sessuali.
D’altro canto richiederebbe troppo coraggio andare fino in fondo, mettendo a repentaglio vantaggi materiali e sociali assicurati dall’appartenenza a un’Istituzione tanto ricca e potente; che consente di praticare sotto copertura quanto continua a comportare qualche costo nella (pur declinante) società patriarcale etero.
Meglio fermarsi a metà strada. Ma le gerarchie considerano già questo un grave vulnus alla regola aurea della “prudenza”. Sicché partono subito le bordate dei grossi calibri e il direttore di Avvenire Dino Boffo dà il la con una campagna di intimidazione nei confronti del collega del Secolo Lanfranco Vaccari, reo di aver pubblicato lo scoop anticlericale. Vaccari risponde mandandolo a quel paese (editoriale dell’11 gennaio).
Poi entra in scena il cardinale Ersilio Tonini, sempre più diafano nell’apparente fragilità di ottuagenario dietro la quale si cela la minaccia muscolare del prete-guerriero, esibendosi in quella che nei film gialli è la parte del poliziotto buono (di aspiranti cattivi in Vaticano ce n’è una frotta): “sono pronto ad aiutare il prete gay a redimersi” (sic!). Poi aggiunge che già esistono – udite, udite – comunità predisposte allo scopo di favorire tali redenzioni.
Grazie a overdosi di “prudenza” o docce gelate per spegnere gli istinti disordinati?
Buono a sapersi. La prossima volta il Tonini-redentore ci dia conferma pure della notizia relativa a cliniche appartate dove sarebbero internati preti affetti da AIDS. In cui declinare ulteriormente la “prudenza” di una Chiesa che ha smarrito – semmai ne aveva – le parole della Fede misericordiosa e presidia il suo potere pretendendo di assumere il controllo della catena della Vita.
Da qui l’ostilità omofobica anche di gay in gonne cardinalizie, coscienti che la relazione omo è improduttiva in materia di procreazione. Non dà alla luce vite, la cui disperazione potrà essere portata a capitale nella banca del potere ecclesiastico.
Quel potere apprezzato puntello dell’ordine vigente.
Il resto è soltanto ipocrisia, sparsa a piene mani in tutti i rami dell’istituzione. Da chi vuol redimere a chi celebra outing senza costi personali.
Con buona pace delle anime candide (omo o etero che siano), ancora una volta risulta evidente che la Chiesa non è rinnovabile né – tantomeno – “redimibile” dal proprio interno.
(13 gennaio 2009)
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