La riduzione del numero dei parlamentari tra crisi di governo e antipolitica

Alessandro Somma


La riduzione del numero dei parlamentari è quasi legge. Il sì della Camera in seconda lettura è messo a rischio dalle dinamiche innescate dalla crisi gialloverde: se si andasse a votare tutto potrebbe saltare. D’altra parte l’approvazione della riforma allontanerebbe le urne e metterebbe fuori gioco i leghisti: anche per questo è probabile che in occasione delle prossime elezioni i deputati scenderanno da 630 a 400, mentre i senatori da 315 a 220. A esultare sono soprattutto i pentastellati, il cui capo politico ama promuovere la riforma con slogan da antipolitica militante: dicendo che tanti parlamentari servono solo a distribuire potere e poltrone, e che pertanto ridurli significa mettere fine a un’ingordigia politica andata avanti per decenni.
Non che da Di Maio ci si aspetti chissà quale fine disquisizione politica, ma francamente il livello del discorso è davvero basso. I parlamentari sono lì per rappresentare il popolo sovrano, e se invece di fare il loro mestiere pensano a spartire torte non è certo perché sono troppi. Chi è ingordo continua a esserlo anche se diminuisce il numero degli eletti: di certo non smette solo perché il suo carico di lavoro aumenta.
Ancora più disarmante l’altro argomento esibito per sostenere la diminuzione dei parlamentari: il risparmio di spesa che questa misura consentirà. Di Maio esulta perché si potranno risparmiare 500 milioni di Euro: non ogni anno, bensì per tutta la legislatura, ovvero per cinque anni. Rinunciamo cioè a un terzo dei parlamentari per risparmiare cento milioni all’anno: più o meno il costo di un F-35, i cacciabombardieri statunitensi di ultima generazione pieni di magagne, di cui l’Italia ha acquistato ventisei esemplari, gli ultimi otto ordinati dal Governo Gentiloni e appena confermati da quello gialloverde.
Alla luce di questo, suona ancora più ridicola la trionfale affermazione di Di Maio, secondo cui i risparmi legati al taglio dei parlamentari consentono l’acquisto di ben 2500 autobus. Occorre cioè rinunciare a un terzo dei parlamentari perché così ci possiamo comprare degli autobus: per l’esattezza uno ogni 24.000 abitanti.
Certo, rafforzare il trasporto pubblico è cosa buona e giusta, ma allora perché non tagliamo il numero dei parlamentari di due terzi, così ci possiamo comperare 5000 autobus? E inoltre saremo certi che i parlamentari superstiti, oberati di incombenze, non avranno neppure un attimo di tempo per spartirsi poltrone e potere? E perché non dimezzare il numero dei consiglieri regionali per finanziare la sanità o quello dei consiglieri comunali per poi destinare i risparmi alla scuola?
È evidente che il ragionamento non regge, anche se è tutto interno alla retorica cui questo esecutivo ci ha abituati. Se non abbassiamo il numero dei parlamentari dobbiamo rinunciare a 2500 autobus, così come se si investono risorse per i migranti allora non ci sono soldi per gli italiani, e se lavora uno straniero allora l’italiano resta disoccupato.
A ben vedere questa retorica si adatta perfettamente all’idea di politica cui ci hanno portato tanti anni di antipolitica. L’idea per cui essa non è l’arte della mediazione, la capacità di compiere e tenere insieme scelte articolate in vista del bene comune, bensì solo l’attitudine a risolvere problemi in modo efficiente: la politica è insomma mera amministrazione tecnocratica dell’esistente.
È questa idea di politica che si adatta alla perfezione alla concezione cesarista oggi in voga, per cui il leader sviluppa un rapporto diretto con il suo popolo e non ha dunque bisogno di mediazioni. L’idea che nel corso degli anni ha portato a restringere in modo drammatico gli spazi di partecipazione democratica, e che porta ora ad accettare come un fatto irrilevante la circostanza che un deputato, oggi chiamato a rappresentare in media meno di 100mila cittadini, finirà per essere la voce di oltre 150mila cittadini. Nel solco di quanto si è già fatto con la riforma delle circoscrizioni a livello comunale e con l’abolizione non tanto delle provincie, quanto dell’elezione diretta dei rappresentati a quel livello territoriale.

Insomma, Di Maio si esprime da par suo e sponsorizza la riduzione degli spazi di democrazia con motivazioni risibili. Ma prima di lui altri hanno utilizzato argomenti più dotti, che però hanno indicato la direzione che i pentastellati stanno diligentemente seguendo. Con un consenso ora reso ancora più ampio dalla necessità di schiodare i leghisti dal governo: proposito nobile, intendiamoci, ma occorrerebbe riflettere bene sulla leggerezza con cui si accordano concessioni per realizzarlo.

 
(21 agosto 2019)


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