La rivincita del romanzesco

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“Il Rosso & il Nero”, scritto a quattro mani da Lirio Abbate e Marco Tullio Giordana, è una delle tappe di avvicinamento al progetto, inaugurato da Bernardo Bertolucci, di realizzare finalmente il romanzo storico dell’Italia novecentesca.


di Flavio De Bernardinis

C’è una missione da compiere. Chiudere quello che Bernardo Bertolucci non ha concluso. Realizzare finalmente il capitolo mancante di Novecento, l’Atto III mai effettivamente scritto. Marco Tullio Giordana ci sta provando da tempo, attraverso un processo di scrittura infra-mediale, che si dipana lungo linguaggi espressivi diversi ma convergenti sullo scopo comune, ossia comporre il romanzo storico dell’Italia della seconda metà del secolo ventesimo. Fra teatro, televisione e cinema, ora Giordana, con la complicità di Lirio Abbate, affronta la scrittura letteraria, pubblicando per le edizioni Solferino un romanzo che già chiede lo spazio dello schermo, schermo più grande o più piccolo, questo magari si vedrà.

Come lo stesso Giordana ha dichiarato, gli anni compresi tra la morte di Pasolini e quella di Aldo Moro segnano uno spartiacque: 1975-1978, per cui “senza sapere bene il perché”, “nulla sarà più come prima”. Le vicende de Il Rosso & il Nero affrontano di petto un tale spaesamento. Agli inizi degli anni Ottanta, l’onda del Sessantotto è ormai alla deriva, mentre il progetto di comporre il dissidio tra il blocco sociale cattolico e quello comunista, il cosiddetto “compromesso storico”, almeno nei termini berlingueriani, è dichiarato irrealizzabile. Sul campo, si muove ciò che resta degli anni Settanta. Drappelli di militanti ormai senza militanza alcuna, che si offrono, consapevolmente o meno, a tutte le strumentalizzazioni disponibili.

Achille è il “Nero”, e Tito il “Rosso”: il primo ciondola manovrato dai servizi segreti deviati, il secondo sconta inutilmente un barlume di militanza ideologica. Il racconto si svolge lungo un incessante va-e-vieni temporale, recuperando in flashback gli eventi, ma, dal punto di vista spaziale, si rincorre in un’alternanza di capitoli, quattordici, di cui sette si intitolano “Dentro” e sette si intitolano “Fuori” (con una eccezione che conferma la regola). Il “Dentro” sarebbe il carcere in cui è detenuto Tito, il Rosso, mentre il “Fuori” è lo spazio esterno in cui agisce Achille, il Nero.

La prima cosa che salta agli occhi è che il “Dentro”, la prigione, è un’ambiente regolato da codici di comportamento molto precisi, dove si va a scuola, si legge, ci si laurea, si seguono le regole e anche le si trasgrediscono, come deve accadere puntualmente nel mondo. Il “Fuori”, invece, è una dimensione senza regola alcuna, in cui menzogna, tradimento, corruzione, doppio e triplo gioco imperversano. A tale proposito, viene in mente il finale di uno dei meno conosciuti film di Rossellini, dal titolo Dov’è la libertà, in cui Totò, in conclusione di una serie di peripezie, risolve che è meglio abbandonare al proprio destino la cosiddetta società moderna. per rimanersene sereni in galera. Ed eravamo ancora nel 1954.

Questa struttura narrativa evidentemente ironica permea tutto il romanzo, che inanella per i propri eroi una catena di res gestae in cui a una certa causa non segue quel determinato scopo, oppure gli esiti di un’azione non corrispondono affatto alle ipotesi previste. All’ironia puramente strutturale si accompagna così l’ironia narrativa, che è poi il segno del genere prescelto, il romanzo storico, in cui un narratore onnisciente conosce certo eventi ed episodi, ma si diverte a incastrarli, incrociarli, innestarli. E’ la linea di racconto che dall’ovvio riflesso originario manzoniano scorre fino all’autore contemporaneo che si era esplicitamente rifatto a Manzoni stesso, ossia all’Umberto Eco de Il nome della rosa, la cui Postilla, come si ricorderà, indicava nell’archetipo dei Promessi sposi il nucleo strutturale generativo delle avventure di Guglielmo di Baskerville.

Aria di nome della rosa si respira infatti anche ne Il Rosso & il Nero, tanto che è possibile far cenno, senza rovinare sorprese o svelare colpi di scena, che a un certo punto dell’azione si progetta di penetrare in un luogo segretissimo, che molto rammenta la fatidica Biblioteca dell’Abbazia, là dove è custodito il libro di Aristotele sul riso. Il luogo segreto, qui definito la “scatola nera della Repubblica”, può essere il Sacro Graal della tradizione, anche se sarebbe meglio richiamare anche l’Arca Perduta, proprio quella di Steven Spielberg, qualcosa che se apri il coperchio, schizzano fuori larve e spettri di ogni genere.

E’ proprio la caparbia fedeltà al romanzesco, così, il tratto migliore del libro, che sarebbe poi ciò di cui si diceva all’inizio, il desiderio di modellare l’Atto III del Novecento, che Bertolucci in fondo mai firmò perché estraneo ai toni e ai fermenti del melodramma, che gli Atti I e II testimoniavano, la cui esecuzione più sperimentale è certo la sequenza del “Processo al Padrone”, inserita verso la chiusura del dittico.

Quale sia, infine, il “sugo di tutta la storia”, fa parte di un piatto di maccheroni i cui avanzi sono ancora in tavola. A differenza dei manoscritti secentesco e medievale sulla linea Manzoni-Eco, qui non può esserci la finzione di proiettare il narrato in un’epoca “altra” rispetto all’attività concreta della ri-scrittura. Eppure gli autori hanno inteso escogitare lo stesso una “cornice narrativa” che, pur interna al racconto, in qualche modo, fa prendere le distanze da eventi e personaggi. Tanto che le due pagine conclusive eccedenti tale “cornice”, si intitolano giustamente “Postludio”. Ebbene, la cornice di cui si dice riguarda l’agente segreto 007: tocca proprio a James Bond la funzione di tra-scrivere il tutto in un “mythos” che deve in qualche modo racchiudersi in una voce narrante assodata.

L’ombra, o la luce, che 007 riflette sulle vicende e i protagonisti colora di avventuroso tutto il racconto. Questo è forse il cuore del problema. E’ infatti la piccola-media borghesia italiana, alla fine della Grande Avventura del Novecento, che cerca disperatamente uno spazio di avventure in cui specchiare i propri fallimenti. Tutti i personaggi si muovono in questo preciso contesto di classe. Molti dei passaggi narrativi decisivi sono affidati al caso: come dice Hanna Arendt, la borghesia si è sempre vergognata di affidarsi al caso, alle coincidenze, al fortuito. Anche per questo, Tito, incriminato accidentalmente di omicidio preterintenzionale, rifiuta una simile casualità, e si dichiara prigioniero politico. Ma il caso è precisamente il regno del romanzesco, e non a caso, appunto, il romanzo è il genere narrativo tipicamente borghese, che a partire dal XIX secolo si sostituisce al dramma, dove non ci può essere coincidenza, ma necessità e destino.

I personaggi de Il rosso & il Nero sono così avventurieri del caso, borghesia medio piccola che cerca disperatamente una necessità storico-drammatica, là dove ci sono sovente intrighi così intricati da smarrire ogni rapporto di causa ed effetto. Questa piccola e media borghesia, ciascuno a suo modo, è pronta per l’appuntamento col destino, che la Storia tiene in serbo per lei, ossia l’età berlusconiana. Il luogo dove dramma e romanzo, necessità e coincidenza troveranno un
a soluzione nel sollievo capace dell’edonismo (che è precisamente l’ultimissima immagine del libro).

Questa piccolo-media borghesia italiana, prima di arrendersi definitivamente al “piacere”, avrà tentato per una volta ancora di dominare il gioco dell’“homo homini lupus”, il gioco del Potere. Nella frana di tutte le istituzioni, Stato Chiesa Partito, Tito e Achille, assieme a tutti gli altri personaggi, si lanciano verso ciò che ha sognato da sempre la borghesia, essere caparbiamente istituzione di se stessa. Come scrive ancora Hanna Arendt, lasciarsi alle spalle l’incubo della Storia, e risvegliarsi in un Eden capace di sintetizzare ogni tipo di istituzione nel segno della Società Perfetta. La Storia avrà cura di rispondere, via Arcore, con l’illusione della Perfetta Società.

(4 novembre 2019)





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