La rivoluzione neoconservatrice e l’agonia delle liberal-democrazie

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Egregio Direttore,
l’Occidente sta attraversando un repentino declino che lo sta privando di gran parte della sua forza economica ma anche della consapevolezza dei suoi valori ideali. Stiamo assistendo non ad una “semplice”, seppur grave, crisi economica ma all’agonia delle liberal-democrazie e del loro attore principale: il cittadino espressione del popolo sovrano. Si tratta di una situazione di crisi la cui gravità diventa sempre simile a quella degli anni venti e trenta del secolo scorso, ma che si caratterizza anche per l’affermazione di una nuova e composita neo-aristocrazia che tale crisi ha cavalcato e che si è legittimata attraverso una nefasta rivoluzione ideologica neo-conservatrice. La crisi di oggi ha le sue radici nell’operare congiunto di questa neo-aristocrazia e della sua fanatica rivoluzione ideologica conservatrice. Il modello conservatore (incarnato trionfalmente da Reagan e dalla Thatcher), diventato il riferimento di tutto l’Occidente, ha avviato un sistematico processo di scardinamento ideologico ed istituzionale dei valori di libertà ed uguaglianza, nonché la delocalizzazione dell’apparato produttivo nazionale (globalizzazione) e il libero operare di una speculazione finanziaria senza freni (deregulation).

Seppure siano passati solo pochissimi decenni, sembra lontano anni luce quel periodo in cui i Paesi Occidentali mostravano al mondo con giustificato orgoglio una democrazia incentrata su questi valori laici dell’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge e sulla tutela delle libertà individuali, valori che erano fatti propri dalla classe politica, pur con tutte le possibili contraddizioni derivanti dalla mediazione quotidiana di concreti interessi particolaristici, corporativi e lobbies. La dimostrazione più palese del “successo” delle liberal-democrazie era rappresentata dalla presenza di una classe media allargata che ricomprendeva la fascia maggioritaria della popolazione, mentre veniva contenuta la sperequazione di retribuzione fra lavoro dipendente e grandi dirigenti, a cui nelle fabbriche si chiedeva sempre più conto del loro operato. A questa classe media allargata (nel rispetto del più nobile liberalesimo politico) veniva garantita una reale possibilità di ascesa sociale per i propri figli attraverso la creazione di una realistica parità dei punti di partenza fra tutti i cittadini grazie ad un credibile servizio di istruzione pubblica. Si era creata una società di individui emancipati (cittadini), sempre più padroni del proprio destino e capaci di autodeterminarsi anche in materie tradizionalmente monopolizzate dalla religione (vedi libertà sessuale, divorzio, ecc…) e soprattutto dal cristianesimo più conservatore.

Questo modello di liberal-democrazia ha avuto come suo motore economico il pensiero di Keynes che, nato come risposta alla grande crisi del 1929 causata dai rigidi dogmi liberisti, diventò poi l’occasione del riscatto delle masse sociali. Keynes liberò l’economia dalla infallibilità divina del mercato, analizzandolo come evento “umano” e quindi fallibile, un meccanismo che si può inceppare ad un livello di sotto utilizzazione delle risorse, dove lo starter per far ripartire il sistema economico è rappresentato dal rilancio della domanda globale attraverso la spesa pubblica. Una economia basata sulla domanda piuttosto che sull’offerta significò anche attribuire, dopo secoli, centralità al ruolo delle masse sociali sovvertendo una situazione che da sempre legittimava la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta elites di rentiers e capitalisti. Questo nuovo Stato interventista, fu alla base del “New deal” F.D. Roosvelt e della successiva politica rinnovatrice (la “Nuova Frontiera”) che ebbe nel carismatico Presidente democratico J.F. Kennedy il suo paladino. Questo modello di Stato diventò il modello di riferimento di tutto l’Occidente e a questo vento innovatore proveniente dagli USA molti accostarono idealmente il cambiamento che Giovanni XXIII aveva cercato di imporre alla Chiesa con il Concilio Vaticano II, anche al prezzo di una durissima opposizione delle correnti cattoliche più conservatrici e reazionarie, quelle stesse che avevano sostenuto gli accordi diplomatici sottoscritti prima con lo Stato fascista e poi con quello nazista. L’assassinio nel 1963 di JFK, seguito nel 1968 da quello di suo fratello Bob Kennedy, segnò la morte ideale di questo grande progetto di cambiamenti sociali; rimase per inerzia solo un modello ideologico di “big government”, uno Stato interventista che con il suo apparato burocratico si proponeva ambiziosamente di risolvere tutti i problemi della nazione, di sanare tutte le piaghe sociali ed i pregiudizi razziali: problemi che ovviamente si erano stratificati nei secoli e che non potevano essere semplicisticamente risolti in pochi anni.

Questo generoso modello di Stato, che dato il titanico onere che si era caricato era facile che andasse incontro anche a tensioni ed insuccessi, fu il facile bersaglio dei conservatori che per decenni avevano visto messi in soffitta i propri valori cardine di Dio, patria, famiglia e mercato. Essi additando il “big government” come causa di tutti i mali, scatenarono una contro offensiva ideologica per ripristinare una società nuovamente basata sui valori confessionali cristiani, sulla legittimazione della diseguaglianza sociale come espressione di una naturale selezione darwiniana e/o della provvidenza divina, e una economia basata nuovamente sulla dogmatica infallibilità del mercato.

L’ideologia conservatrice (questo letale mix ideologico tra liberismo economico, pensiero conservatore e destra cristiana) ha determinato uno stupefacente e suicida sovvertimento del dato storico acquisito. Infatti era logico e scontato che le liberal-democrazie uscite vincenti anche dallo storico scontro con il Patto di Varsavia fossero additate a modello dei nuovi Paesi post-comunisti. Invece il predominio dell’ideologia conservatrice nella Gran Bretagna e negli USA (Reagan e Thatcher), paesi leader dell’Occidente, ha determinato paradossalmente la rottamazione ideologica delle stesse liberal-democrazie che sono state invece trattate come Paesi sconfitti da smantellare in toto. Parole come globalizzazione, deregulation, mercato, ritorno ai valori tradizionali e cristiani sono diventati slogan che hanno fatto da schermo ideologico alla delocalizzazione di gran parte dell’apparato produttivo nei Paesi del terzo mondo, alla marginalizzazione dello Stato, della politica e del ruolo del “cittadino”. La rivoluzione ideologica conservatrice, incoraggiando la delocalizzazione delle imprese in paese illiberali che grazie a questo potevano vendere manodopera a prezzi stracciati, è riuscita rapidamente a svuotare il ruolo del “cittadino” di gran parte del suo significato, ponendolo in diretta concorrenza per il posto di lavoro con il lavoratore senza tutele (suddito-schiavo) del Terzo Mondo. I suoi valori cardine come espressione del popolo sovrano, il principio di libertà (scudo alla sua indipendenza) e il principio di uguaglianza (spada a difesa della sua pari dignità) sono diventati sub-valori condizionati e subordinati al “mercato” o alle “verità irrinunciabili” di stampo clericale.

Il principio generale di libertà è stato interamente assorbito dal principio di libertà economica (paradossalmente una “parte” ha assorbito il “tutto”), il liberalesimo politico è stato fagocitato dal liberismo economico che da semplice modello economico è stato assunto a modello ideologico generale di tutta la società. Il grande sacerdote dell’ideologia liberista &egrav
e; stato Hayek e la conseguenza più immediata del suo pensiero è stata la rapida perdita di centralità del “cittadino”, frammentato in una pluralità di figure economiche subalterne (risparmiatore, investitore, lavoratore…) e del tutto subordinato alla nuova signoria universale del mercato e della speculazione finanziaria. Ma assai peggio, la delegittimazione del “vecchio” liberalesimo politico ha reso possibile delocalizzare in Paesi illiberali che, grazie a ciò, potevano offrire manodopera a basso costo e che sono dunque diventati i modelli virtuosi dell’economia liberista (vedesi la Cina)! Il braccio operativo di questo progetto sarà la scuola monetarista di Milton Friedman che si porrà come obiettivo lo smantellamento tecnico del modello keynesiano. La classe politica post 1989 si è adeguata in blocco a questo modello e ha sostituito il “cittadino” con il “mercato” come motore e ispiratore del suo agire e della sua visione del mondo. Persino la “rossa” Bologna nel 1995 conferisce la laurea honoris causa a George Soros dopo che questi aveva fatto colossali speculazioni a danno della la lira e della sterlina che furono costrette ad uscire dallo SME. Parimenti il colossale fallimento nel 1998 del fondo LTCM (nonostante la guida dei premi Nobel dell’economia Robert Merton e Myron Scholes), che richiese il coinvolgimento a copertura delle principali banche della finanza mondiale, fu fatto passare come un fatto episodico (il primo di una lunga serie fino ai giorni nostri!) piuttosto che come un campanello d’allarme dei guasti del liberismo selvaggio.

Il secondo principio cardine delle liberal-democrazie, quello dell’uguaglianza, è stato invece scardinato dai cosiddetti “neocon”. Essi hanno riformulato le tradizionali opinioni conservatrici a favore della disuguaglianza, utilizzando proprio il linguaggio delle scienze sociali dando loro piena dignità accademica. Sono stati essi a criticare duramente le politiche interventiste dei governi contro il disagio sociale, sostenendo che i sussidi statali creano dipendenza psicologica inducendo ad adagiarsi piuttosto che ad agire e dunque sono nocivi per i settori discriminati della società. Essi non solo hanno screditato tout court qualsiasi politica governativa tesa ad eliminare le diseguaglianze sociali ma, in definitiva, hanno legittimato la diseguaglianza come valore sociale e politico da perseguire.

Un essenziale ruolo di distrazione dagli effetti nefasti del liberismo economico è stato giocato negli dall’alleanza tra la destra religiosa cristiana e i conservatori sociali. Negli USA questa alleanza ha determinato la formazione di potenti associazioni come la “Moral Majority” o la “Christian Coalition” che avrebbero avuto una influenza decisiva sui futuri successi elettorali del partito repubblicano. La medesima alleanza si sarebbe avuta in campo cattolico dove le gerarchie vaticane e potenti associazioni laicali conservatrici hanno avuto un ruolo assolutamente protagonista (si pensi a CL/CdO) nelle fortune politiche dei partiti conservatori (F.I. e poi il PDL) ed uno comunque rilevante anche nella pseudo opposizione (PD) ottenendo in cambio la statalizzazione di principi confessionali e generosissimi doni finanziari, sotto forma di esenzioni e contributi anche in settori chiave come quello dell’istruzione e della sanità. Il loro ruolo è stato essenziale per il trionfo dell’ideologia liberista, poiché mentre questa spingeva molti industriali a realizzare facili guadagni delocalizzando gran parte dell’apparato industriale nei Paesi del terzo mondo e la finanza speculativa bruciava i risparmi delle famiglie, il pensiero conservatore distraeva l’opinione pubblica additando come cause del declino dell’Occidente gli extracomunitari, i soliti comunisti, l’abbandono dei valori cristiani (da cui il divorzio, la libertà sessuale ecc..) trovando anche nel genere letterario fantasy-mitologico pseudo radici identitarie per creare nuovi miti e fortune politiche (la “Padania” ne è una delle espressioni più geniali). Ciò ha permesso di nascondere almeno per due decenni alla classe media che il pericolo mortale alla sua prosperità e alla tutela dei suoi sudati risparmi veniva da tutt’altra parte!

D’altro canto i mass-media apparivano anch’essi pienamente conquistati da parole come ”globalizzazione”, “delocalizzazione” e “mercato” decantando fin dagli anni ottanta le imprese dei nuovi “eroi” del guadagno facile: yuppies, corporate raider, gestori di hedge found ecc. Il gossip faceva innamorare l’opinione pubblica del mondo dorato in cui essi vivevano fra lusso sfrenato e belle donne, così come la vecchia aristocrazia ostentava il suo sfarzo dinnanzi al popolino.

La rivoluzione conservatrice nel legittimare diseguaglianze sociali, e quindi le rendite che ne stanno alla base comprese le speculazioni a danno dei risparmiatori (il “parco buoi” che si porta dove si vuole), ha implicitamente legittimato la rinascita di una nuova aristocrazia parassitaria (amalgama di interessi incrociati che accomunano classi politiche, boiardi, finanza e grande imprenditoria che lucra finanziamenti pubblici). Si tratta di una casta allargata, una neo-aristocrazia in cui i ruoli spesso si mischiano e si incrociano, il politico può sedere nel consiglio di amministrazione della grande banca, così come il banchiere può essere chiamato a rivestire il ruolo di politico. Il collante è costituito dai grandi boiardi di Stato (i “tecnici” buoni per tutte le stagioni e per i lavori “sporchi” dove il politico di professione non si vuole esporre) che gestiscono il potere della macchina amministrativa, così come siedono nei consigli di amministrazione delle banche o delle loro fondazioni, in un continuo intreccio/scambio di potere e cumuli di incarichi. Per tale sistemico intreccio di interessi il governo Monti di oggi non si differenzia sostanzialmente da quelli precedenti Berlusconi-Prodi, semmai ne rappresenta una fotografia ancora più nitida.

Possiamo parlare di neo-aristocrazia perché essa: a) si è ritagliata regole e privilegi a proprio uso e consumo; b) ha acquisito e legittimato la facoltà di scaricare sugli altri ceti sociali i costi e le responsabilità dei propri insuccessi; c) ostenta la propria opulenza per legittimare a priori il proprio ruolo e successo sociale. Queste caratteristiche si accompagnano al ripristino del diritto a rivendicare la irresponsabilità del proprio operato tipico delle vecchie aristocrazie. Infatti la vecchia aristocrazia per secoli si è servita della legittimazione divina e di quella della tradizione per scaricare i costi delle proprie scelte (guerre, oppressione fiscale, sfarzo di corte ecc) sul popolo spingendolo a credere che ciò fosse il portato naturale della divina Provvidenza che periodicamente “mandava” pestilenze, guerre e carestie contro i peccati e la superbia degli uomini. Oggi la neo-aristocrazia può ridurre in rovina uno Stato, portare alla povertà i suoi cittadini trasformandoli in servi indebitati e pur tuttavia proclamare la propria formale irresponsabilità, trovando nel “mercato” lo scudo ideologico buono per tutti gli usi: il mercato fa franare la borsa, il mercato attacca la moneta, il mercato impone i licenziamenti… . Tale esenzione dalla responsabilità è accentuata anche dalla pressione psicologica che viene costantemente esercitata sulla grande massa creando un diffuso odio sociale attraverso il principio “Divide et impera”, cercando in essa i bersagli strumentali da offrire periodicamente all’opinione pubblica: i dipendenti pubblici (tu
tti fannulloni), i commercianti e gli artigiani (tutti evasori), gli extracomunitari (tutti delinquenti), i pensionati (ladri del futuro dei figli) ecc. Dobbiamo diradare la cortina fumogena del “mercato” che permette lo scarico dalle responsabilità, imponendo sia ai nostri servizi di intelligence che alle ben remunerate “authority” di dare un preciso nome e cognome a chi specula a nostro danno, novelli pirati e corsari in doppiopetto che trovano nei “paradisi fiscali” agevole rifugio dopo le loro scorrerie finanziarie. Dobbiamo seppellire la follia liberista della “deregulation” facendo dell’accurato controllo e regolamentazione del sistema finanziario una immediata priorità dell’agire politico al pari dell’isolamento politico, economico e diplomatico dei Paesi che fungono da paradisi fiscali.

Appare praticamente impossibile uscire da questa crisi per l’operare congiunto di una neo-aristocrazia che bada esclusivamente alla difesa dei propri interessi, trasferendo i costi della crisi sul popolo, e delle politiche economiche liberiste che hanno determinato il suicidio economico dell’Occidente. Infatti questa neo-aristocrazia parassitaria continua ad assorbire una mole ingente di risorse che potrebbe essere dirottata sulla ricerca di nuovi ed innovativi processi produttivi, più ecologici ed efficienti, e sul sostegno alle (vere) industrie nazionali. Parimenti la tanto conclamata “globalizzazione” liberista di questi ultimi decenni si è tradotta prioritariamente nella ricerca di manodopera a basso costo, essa ha avuto come referente storico più vicino (anche se su scala molto più ridotta) il commercio triangolare degli schiavi dell’Africa sulle rotte atlantiche che è proseguito fino al 1800. Sostanzialmente si compravano schiavi in Africa che si vendevano nelle Americhe, con i guadagni si compravano mercanzie da rivendere in Europa e, con parte di questi ultimi guadagni, si acquistavano nuovamente altri schiavi in Africa e cosi via… La difesa dell’economia schiavistica è stata alla base proprio della sanguinosa guerra di secessione americana (1861-1865). Oggi non è più necessario spostare gli schiavi poiché si delocalizzano direttamente le imprese nei paesi illiberali mettendo anche sotto ricatto i lavoratori dell’Occidente. Un caso emblematico è proprio quello della Cina comunista a cui è bastato nel 1989 (stesso anno della caduta del muro di Berlino!) operare la strage di Piazza Tien An Men per convincere i grandi investitori occidentali che era possibile realizzare facili guadagni senza alcun rischio di rivendicazioni sindacali… Da un canto i conservatori hanno blaterato sulla perenne minaccia comunista, dall’altro canto hanno lasciato che in quello stesso Paese si delocalizzasse una buona parte dell’apparato produttivo occidentale, rendendolo una super potenza economica. Con l’avallo ideologico liberista, negli ultimi decenni si è realizzata una colossale alterazione della concorrenza sotto forma di dumping (vendita sotto costo basato sulla sfruttamento della manodopera) a danno dell’Occidente. E’ evidente che se non si esce da questo modello economico liberista non può che esserci la imminente fine dell’Occidente.

Occorre un rapido cambio di rotta contemplando l’adozione di dazi doganali per compensare questo dumping sul costo della manodopera, negoziandolo solo in cambio della immediata concessione di reali libertà politiche e sindacali nei Paesi che producono da decenni sottocosto, in modo da realizzare una reale e leale concorrenza commerciale. Certo ne nascerà uno scontro durissimo sia con questi Paesi che con gli stessi nostri imprenditori economici (che magari nonostante abbiano pure usufruito di sostanziosi aiuti pubblici) vedrebbero cessare la cuccagna dei facili guadagni delocalizzando all’estero. Si tratta appunto di una guerra commerciale durissima in cui partiamo già svantaggiati, che però non possiamo evitare di combattere e vincere. I nostri padri vincendo l’arduo scontro contro il nazi-fascismo ci hanno consegnato un futuro di libertà e prosperità, non abbiamo il dovere morale di non rassegnarci a consegnare ai nostri giovani un futuro di servitù e povertà.

Giuseppe Dalmazio

(27 luglio 2012)



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