I CLASSICI DI MICROMEGA: ‘La rivoluzione russa. Le cause di una sconfitta’ di Emma Goldman presentato da Włodek Goldkorn
Włodek Goldkorn
La rivoluzione bolscevica è stata una grande illusione nella quale hanno creduto in molti, in ogni angolo del pianeta. Lo è stata anche per la femminista anarchica Emma Goldman, giunta in Russia nel 1919, dopo essere stata espulsa dagli Usa per le sue proteste contro la coscrizione obbligatoria. E proprio questa delusione per gli esiti concreti della rivoluzione, in particolare in seguito alla rivolta di Kronštadt (1921), la spinge a lasciare il paese e a scrivere questo amaro e allo stesso tempo appassionato resoconto delle cause della sconfitta.
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Sia permessa una lunga parentesi, dovuta non a un capriccio di chi scrive, ma alla smemoratezza, malattia senile della sinistra. La vicenda di Chicago, cui si accennava sopra, è all’origine di quella festa che oggi, in Italia, i sindacati hanno trasformato in occasione di concerto (con musicisti tutti maschi, di preferenza) e che una volta era la Festa dei lavoratori, giornata di lotta e di orgoglio di classe: si tiravano fuori coccarde e bandiere e si metteva in campo un apparato di simboli che parlavano del passato per costruire una narrazione del futuro, visto che la sinistra si considerava l’agente dell’avvenire nel presente. E ancora, il Primo maggio, di questo stiamo parlando, era la giornata in cui si celebrava una tradizione sindacale con la consapevolezza che il sindacato era nato attorno alla rivendicazione di una giornata di lavoro di otto ore: roba che a Chicago nel 1886 sembrava utopia e discorso di gente priva del senso della realtà.
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Chiusa la parentesi, torniamo a Emma Goldman e al suo testo La rivoluzione russa. Le cause di una sconfitta 1.
Quando scrive il testo in cui fa i conti con l’esperienza della rivoluzione bolscevica e del bolscevismo, Emma Goldman ha 53 anni e nella Russia dei soviet ha vissuto per quasi due anni, dal gennaio 1920 al dicembre 1921. Al suo arrivo non è pregiudizialmente contraria al nuovo potere, anzi, vi scorge una possibilità di costruire un mondo nuovo. Al momento di ripartire invece vede nel bolscevismo tutte le caratteristiche di una dittatura che toglie le libertà e i diritti, collettivi e individuali, un regime dove la repressione di chi la pensa diversamente non ha limiti, gli operai sono sfruttati, i contadini ridotti alla fame. Non per questo diventa cantora dell’ordine capitalista né appoggia l’intervento delle potenze occidentali contro il governo di Lenin e Trockij. Ci torneremo.
In Russia, Goldman non arriva di sua spontanea volontà ma perché privata della cittadinanza e deportata dagli Stati Uniti in quanto anarchica. Per decenni era stata infatti considerata una pericolosa sovversiva, insultata con parole che oggi definiremmo sessiste, temuta dalle autorità, ma anche dai suoi compagni di lotta maschi. Era femminista non tanto perché si era immaginata un mondo in cui le donne sarebbero state soggetto della vita sociale e esseri dotati di tutti i diritti, ma più perché in quanto donna aveva subìto ingiustizie e violenze.
Ebrea, nata a Kaunas, oggi in Lituania, per alcuni anni cresciuta a Königsberg, la città di Immanuel Kant, poi tornata con la famiglia nell’impero zarista, non poté studiare perché il padre (un uomo fallito come persona e come uomo d’affari) era contrario. Un giorno gettò nel camino i libri della figlia (anche gli ebrei sono capaci di bruciare i libri, quando si tratta di potere patriarcale e di reprimere il desiderio degli oppressi) e le disse che una ragazza ebrea doveva essere brava in cucina e capace di dare figli al marito. Andata a lavorare in una fabbrica di corsetti, venne stuprata da un parente.
Ecco, questa è Emma quando arriva negli Usa. Nel Nuovo Mondo si lega agli anarchici, ha una relazione con Aleksandr Berkman, anch’egli anarchico ebreo russo, insieme teorizzano e praticano «la propaganda dei fatti»; ossia Berkman tenta di uccidere l’industriale Frick. Lui finisce in galera per 14 anni, contro di lei non ci sono prove, ma tutta la sua esistenza in America è segnata da frequenti seppur brevi permanenze dietro le sbarre.
Femminista, come abbiamo detto, fondatrice della rivista Mother Earth, sostenitrice del libero amore, si dà da fare per diffondere le idee e i metodi di una «maternità consapevole». Infine, è antimilitarista, e quando nel 1917, in piena guerra, viene istituito l’obbligo di servizio militare, assieme a Berkman, organizza comizi contro la coscrizione. Vengono incarcerati ambedue, condannati a due anni di reclusione e poi, appunto, spediti in Russia.
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Il pamphlet La rivoluzione russa, che scrive a Stoccolma, ha una premessa in cui l’autrice dà la colpa del fallimento della rivoluzione alle potenze occidentali e ai loro alleati russi. Non per questo assolve i bolscevichi. Afferma che è stato «il popolo russo il solo artefice della rivoluzione», ma a causa dell’invasione straniera «il nemico interno poteva farsi più forte». Spiega: «Gli invasori assassinarono milioni di russi» e quindi […] «la rivoluzione fu battuta e il potere dei bolscevichi crebbe senza limiti». Accusa: «Solo all’ottusità criminale di alcuni ex rivoluzionari che avevano chiesto l’intervento dello straniero e degli imperialisti […] si deve la sconfitta della più grande rivoluzione di questi secoli».
In queste poche frasi sono racchiuse tutte le contraddizioni di una militante e combattente che stenta a capacitarsi per l’occasione persa. Goldman era convinta – e questo oggi può sembrare sorprendente – che gli eventi del 7 novembre 1917 non fossero stati un golpe militare, organizzato da Trockij, ma l’espressione di una genuina sollevazione del popolo. Quando, deportata dagli Stati Uniti, arriva in Russia (attraverso la Finlandia), viene accolta da un’orchestra che suona l’Internazionale.
A rileggere il libretto scritto con dolore, verrebbe da dire con il sangue e le lacrime, da una persona che ha sviluppato un pensiero tra i più originali della sinistra del secolo scorso (a cui attingere anche oggi), si deduce quanto tutta la sinistra libertaria (non socialdemocratica quindi) subisse il fascino del bolscevismo. Lo diciamo non per riabilitare Lenin (non c’è niente da riabilitare), ma per ricollocare la discussione su quel che oggi resta della sinistra in un contesto storico veritiero e non di comodo. Altra annotazione: Goldman usa la parola popolo. E parla del popolo che difende la propria terra contro lo straniero. Era populista e sovranista? No. Ma l’ideale cosmopolita dell’anarchia e della fraternità universale era legato all’esperienza, al vissuto concreto delle persone. La sinistra, anche quella che oggi pensiamo minoritaria, si percepiva come interprete della volontà della maggioranza e partiva non dalle idee ma dalle esperienze di vita delle masse, appunto.
E tuttavia, si ha l’impressione che Goldman, nello scrivere questo testo sia mossa da due sentimenti e pensieri diversi e contraddittori. L’apparente non univocità della sua analisi e diagnosi (perché La rivoluzione russa è anche una diagnosi della malattia mortale del bolscevismo, nonostante questo sia sopravvissuto a se stesso, nella forma dello stalinismo) è palese quando, nelle pagine che seguono le accuse fatte alle potenze straniere, scrive invece: «Non furono tanto gli attacchi esterni quanto gli insensati e spietati metodi usati in Russia a soffocare la rivoluzione e imporre alle masse proletarie il giogo del dispotismo». E allora? Furono gli inglesi, i francesi, le potenze dell’Intesa e i loro alleati bianchi 2 a far fallire la rivoluzione, o furono i bolscevichi a tradire? La risposta a questa domanda, inerente al testo, sta nel contesto, e sottolineiamo l’importanza del contesto non per analizzare meglio il testo quanto per analogia con la situazione di oggi. Attualmente non sempre in quel che resta della sinistra è chiaro un concetto semplice: non necessariamente il nemico del mio nemico è mio amico, talvolta l’avversario del mio avversario rafforza il mio avversario. E non si tratta di una dichiarazione di princ
ipio ma di elementare buon senso.
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A quasi un secolo dalla sua stesura la lettura del libro di Goldman risulta affascinante per altri due motivi. A differenza dei marxisti, allora e per decenni padroni del pensiero di sinistra, la femminista anarchica non parla di «oggettività», la sua è un’analisi esplicitamente soggettiva, schierata, partigiana, in cui le ragioni del cuore spesso prevalgono su tutto il resto. Goldman odia i bolscevichi perché hanno soffocato la soggettività delle masse e non solo – ma anche – per i metodi usati. Parla dello strapotere della Ceka, la commissione straordinaria, cappeggiata dal polacco Feliks Dzeržinskij, che emetteva condanne a morte nel totale arbitrio; protesta perché la tortura veniva teorizzata e praticata; racconta la vicenda di un delegato a un congresso dei soviet sparito dopo aver criticato i capi, chissà se ospite delle galere o invece fucilato; si indigna per la prassi (voluta da Lenin e Trockij) di prendere ostaggi, famiglie «borghesi» da giustiziare per ritorsione per atti controrivoluzionari; racconta come la requisizione del grano da parte dei bolscevichi abbia provocato carestie. E ancora, spiega come i soviet, i consigli dei lavoratori, siano stati esautorati da ogni potere; analizza la trasformazione delle cooperative in enti statali in mano ai burocrati; deplora le condizioni dei bambini negli orfanotrofi ma pure nelle istituzioni scolastiche e si scandalizza perché finiscono in galera pure loro. Osserva infine l’emergere di una nuova classe dirigente, composta da burocrati, gente privilegiata, ceto che vive sfruttando gli operai.
Emma Goldman lascia la Russia assieme a Berkman pochi mesi dopo la rivolta di Kronštadt. È il marzo del 1921 quando i marinai della fortezza si ribellano contro lo strapotere dei bolscevichi, in nome semplicemente della libertà e in difesa, diremmo oggi, della loro soggettività. Contro di loro Trockij invia truppe comandate da un ex ufficiale dell’esercito zarista, l’aristocratico Michail Tuchacˇevskij (a sua volta liquidato da Stalin, anni dopo); l’utopia anarchica era per i bolscevichi un nemico pari ai Bianchi, e non è un caso che nel contempo venisse distrutta la repubblica anarchica instaurata in parte dell’Ucraina da Nestor Machno, un contadino libertario.
La critica di Goldman ai bolscevichi – spietata, radicale e in crescendo man mano che descrive le loro malefatte – parte però non da freddi calcoli, come si diceva, ma da una mitologia. Le masse, per lei, sono custodi di una «fiamma sacra» e devono sempre sentire che «la rivoluzione è opera loro». È importante «l’entusiasmo rivoluzionario». I bolscevichi assomigliano invece all’ordine dei gesuiti «al centro della Chiesa marxista», per loro il fine giustifica i mezzi, e sempre ai bolscevichi rimprovera cinismo e volgarità. Ecco, forse anche questo vale oggi: a sinistra abbiamo decostruito tutto, comprese le stesse fondamenta della nostra appartenenza. Alla mitologia (da Prometeo ai comunardi di Parigi) è subentrato il cinismo, che molti scambiano per realismo politico (categoria già di per sé intrinsecamente di destra).
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Commovente il ricordo degli incontri con il teorico del comunismo anarchico Pëtr Kropotkin, vecchio e ammalato, emarginato dal nuovo potere, povero e al freddo in una casa di campagna, preso dalla scrittura del libro sull’etica e incerto su quanto sia opportuno o meno intervenire direttamente nelle questioni politiche.
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1. Si fa riferimento all’edizione Elliot del 2017 (tr. di Ursula Olmini Soergel).
2. Quello dei Bianchi fu un movimento militare e politico nato nel 1917, durante la guerra civile russa, con lo scopo di abbattere il potere sovietico e dei bolscevichi e appoggiato da una coalizione di paesi quali Regno Unito, Stati Uniti d’America e Francia, n.d.r.
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