La ruffiana parabola di un santo

MicroMega

di Fabio Bartoli

“Le vere biografie degli eroi della fede sono come la nostra storia personale (…) i santi non sono superuomini né persone fuori dal comune, esseri inarrivabili: i santi sono come noi, i santi sono tra noi. È questa la sensazione che si prova affacciandosi alla vita di San Josemaria Escrivà (…)”.
Queste parole sono tratte dall’introduzione del cartoon Josemaria Escrivà – L’infanzia di un santo trasmesso questa domenica da Rete 4 per celebrare a dovere gli 80 anni dell’Opus Dei, festeggiati con un palinsesto giornaliero impreziosito anche dalla Santa Messa (quella del discount, perché a trasmettere dal Vaticano è Rai 1) e dallo sceneggiato Karol un uomo diventato papa. Si faccia un raffronto tra il titolo dello sceneggiato e quello del film di animazione: entrambi introducono nelle case dei telespettatori una Chiesa fatta di uomini semplici, umili, straordinari nella loro normalità ai quali è pressoché impossibile non identificarsi in un moto di empatia. Meglio ancora quindi – come nel caso di Escrivà – se presentati bambini ai bambini stessi e alle loro madri tramite un cartoon agiografico che di certo sarà piaciuto alle devote casalinghe, target dichiarato della terza rete berlusconiana.
Vita, quella del santo, che inizia subito con un miracolo: Josemaria, malato, è infatti dato per morto da un medico la cui scienza è evidentemente cieca di fronte alla luce divina, la quale mette in salvo il piccolo Escrivà facendo sì che egli sia “nato due volte”, come spiegherà poi sua madre: “È stata la vergine Maria a farti nascere una seconda volta (…) certamente per qualcosa di grande”. Il “qualcosa di grande” è chiaramente la fondazione dell’Opus Dei, il cui spirito è descritto tramite il vero co-protagonista del film, l’asino Torcido presentato come modello in virtù della sua ottusa e sostanzialmente a-finalistica laboriosità: santificarsi per mezzo del lavoro quotidiano è infatti il fine dichiarato di tale organizzazione; sarà forse per questo che il film che ne celebra l’anniversario è stato realizzato in Corea del Nord, dove l’“ascesi” produttiva trova terreno fertile anche se in una chiave magari meno mistica?
Come era facilmente prevedibile, centrale si rivela il ruolo della famiglia tanto invocata dal Vaticano e tanto “corteggiata” dal mezzo televisivo: il rapporto tra Josemaria e la propria non a caso è la chiave di volta del film. La devotissima famiglia Escrivà è infatti un vero e proprio focolare di carità: basti guardare semplicemente alla gestione del fallimento del negozio di famiglia da parte del padre, incurante della sventura propria ma sempre pronto a preoccuparsi per i suoi dipendenti (la famiglia cristiana specchio della sua Chiesa: si pensi per esempio al filantropico IOR). Esempio che sarà seguito dal figlio, celere nel privarsi dei soldi messi da parte per l’Università, destinati ad altro uso vista la successiva scelta del sacerdozio. Il tutto è frutto della divina e imperscrutabile Provvidenza, la stessa che fa accettare di buon grado sempre al capofamiglia la scomparsa di tre sue figlie, che evidentemente deve avere un senso secondo i piani immensamente buoni dell’Altissimo. È infatti la vocazione di Josemaria il fine di ogni accadimento e ad essa tutto va sacrificato: il “qualcosa di grande” verso cui è chiamato concede infatti a Escrivà le simpatie della Madonna, invocata in quanto Madre comprensiva ma pronta a salvare solo il figlio maschio e non le tre femmine, per poi donare alla famiglia un nuovo pargolo solo per permettere al primogenito di lasciarla per la carriera ecclesiastica. Un giro di vite un po’ doloroso che però non deve essere accolto o giudicato con cruccio: “Benedetto sia il dolore. Amato sia il dolore. Santificato sia il dolore… Glorificato sia il dolore!”, recita infatti l’aforisma 208 del Cammino di Monsignor de Balaguer, di cui non può che essere una seguace quell’On. Binetti così orgogliosa di esternare le pratiche mortificanti a cui si sottopone per mezzo del cilicio.
Proprio un atto di sopportazione del dolore è uno dei momenti chiave dell’agiografia: irritato da un barbiere che gli promette conquiste femminili grazie alle sue acconciature, un Escrivà ormai pre-adolescente si ribella finendo tagliato ma sopportando eroicamente il dolore. Si noti come nel sottrarsi dalle cure del barbiere tentatore egli urta una brocca d’acqua versandosene addosso il contenuto in un certo senso ribattezzandosi: dopo l’addio alle relazioni e al benvenuto alla sofferenza il nostro eroe è così pronto a scoprire la sua vocazione, rimettendosi interamente a Dio che un giorno gli fa così scoprire l’importanza del suo destino: “Josemaria Escrivà il 2 ottobre 1928 capì finalmente quello che il Signore voleva da lui: fondò l’Opus Dei, che ha mostrato a innumerevoli persone nei 5 continenti la strada della santità cristiana in mezzo al mondo. Ogni attività umana può essere svolta per amore di Dio: il lavoro, il riposo, il divertimento”.
Da notare come le immagini che scorrono mentre la voce fuori campo narra la nascita dell’Opus Dei sono scene di semplice laboriosità quotidiana: dalla cooperazione in famiglia alla solidarietà operosa tra contadini. Nell’ottica della Chiesa degli umili che entra nelle semplici case dei telespettatori, tale scelta stilistica fa percepire la fondazione come una sorta di aggregato di piccole comunità e non come il colosso economico che in realtà è (si faccia un raffronto con il personaggio del Signor Escrivà e i metodi con cui opera la fondazione di suo figlio). A ciò si aggiunge la beatificazione, ben sottolineata dall’aureola che lo abbraccia, di Escrivà de Balaguer ordinata da Giovanni Paolo II: essendo quest’ultimo il Papa che per primo ha sfruttato il mezzo televisivo entrando costantemente nelle case dei fedeli in virtù del suo appeal comunicativo fatto di carezze e gesti affabili che lo fanno ancora percepire come un amorevole membro della famiglia, è inevitabile che la gente circoscriva in un’aura di bontà chiunque si inserisca nel solco del suo pontificato (già un “No, non dobbiamo avere paura” di sapore wojtyliano è pronunciato da Escrivà nella prima metà del film). La ruffiana parabola del santo è quindi ad uso e consumo di ogni pia famiglia che si percepisce così rappresentata in un turbine di buonismo e ipocrisia: carità, buoni sentimenti, obbedienza, umiltà e amore verso il prossimo. Di certo a nessuno in salotto sarà venuto in mente in seguito di scoprire cosa è successo tra quel 1928 e la beatificazione di Monsignor de Balaguer. Ovviamente dell’appoggio al regime franchista del piccolo Josemaria una volta divenuto adulto il film non ha parlato; chissà, forse è anche per questo che ci si è fermati alla sola infanzia oltre che per motivi di identificazione offerti ai partecipanti della liturgia televisiva. Ma si può comunque affidarsi solo a Rete 4 e continuare a credere alla santità del mite prelato: in fondo il simbolo che dovrebbe rappresentare l’Opus Dei è pur sempre un asino…

(20 ottobre 2008)



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