La scommessa della rappresentanza. Perché la democrazia diretta non è la soluzione alla crisi della politica

Paola Bellone

Contro la democrazia diretta non è un instant book. Chi lo scrive non è l’ennesimo censore dell’attuale esperienza politica in Italia. Al Movimento 5 Stelle è dedicato un capitolo (“Conformismo a 5 stelle”), ma proprio a partire dal suo incipit si comprende la profondità della prospettiva di Francesco Pallante, che scrive: «La posizione politica che più di tutte vorrebbe presentarsi come di rottura – quella del Movimento 5 Stelle – risulta straordinariamente in continuità con il passato» (salvo dare atto a Beppe Grillo «di non essersi limitato a distruggere, ma di aver provato a costruire»). L’attitudine dimostrativa del libro fa sì che il lettore sia già pervenuto alla stessa conclusione al termine del capitolo precedente, appassionandosi a una efficace rilettura della storia politica della Seconda Repubblica che segue il filo rosso delle riforme elettorali, delle – per lo più tentate – riforme costituzionali e riavvolge il nastro fino alla nascita delle maggiori formazioni politiche, collocate in schieramenti opposti, ma accomunate dal dogma della sovranità dell’elettore predicato con lo stesso afflato palingenetico.

È difficile individuare un genere per definire questo saggio, che, per la ricchezza argomentativa e la continua individuazione di connessioni, spazia dal diritto costituzionale alla teoria politica, dalla storia alla sociologia. Senza mai perdere di vista la quintessenza dei problemi, infatti, Pallante (classe 1972, professore associato di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Torino), nel cercare cause e soluzioni, necessariamente affronta la complessità coinvolgendo il lettore nella sfida che lui stesso si è posto. Lo fa, però, con una duttilità e una chiarezza di esposizione che è propria solo di chi non si è concesso alcuno sconto né nell’approfondimento né nella sintesi.

Tout se tient, è la cifra del libro, perché, scrive Pallante, la politica è il riflesso della società: la trasformazione dell’una è segno della trasformazione dell’altra. Così il fenomeno della “disintermediazione” non ha risparmiato alcun settore: «Dal produttore direttamente al consumatore. Dal governante direttamente al governato». Dal mondo produttivo il fenomeno ha investito partiti, sindacati, media, contaminando anche la cultura: la scuola, la medicina, la scienza. D’altra parte, se la classe dirigente ha abdicato alla funzione di dirigere la società, «avviluppandosi su se stessa nell’onanistica coltivazione dei propri interessi», non sono poche nemmeno le responsabilità del popolo, che ha negato l’esistenza di problemi gravissimi, quali la devastazione dell’ambiente, l’ingiustizia sociale, l’evasione fiscale, il debito pubblico, la criminalità organizzata. A dire che, se dilagano i comportamenti politici degenerati, da un punto di vista squisitamente logico, ampliare la cerchia dei titolari del potere politico, non può essere la soluzione: «significherebbe solo regalare nuove occasioni alla cattiva politica».

Ma non è solo logica la dimostrazione con cui Pallante ricusa incondizionatamente, fin dal titolo, la democrazia diretta come forma di governo. L’aspetto più persuasivo, oltre che più affascinante, infatti, è la razionalità della sua tesi, elaborata non attraverso la mera speculazione. Pur sintetizzando mirabilmente il pensiero di grandi maestri (Bobbio, Max Weber, Kelsen…) e stimolando ulteriormente il lettore con un apparato bibliografico discorsivo che vien voglia di leggere alla fine di ogni capitolo, Pallante argomenta tenendo i piedi dentro la società e facendo tesoro della storia e dei valori che possono ritenersi pacificamente condivisi in quanto sanciti dalla Costituzione repubblicana. Il suo ragionamento è tanto più persuasivo quanto più egli si affaccia anche oltre confine.
Nel capitolo intitolato “Lo Stato sussidiario”, nella prima parte del libro, dichiaratamente dedicata alla ricerca delle cause, Pallante descrive il contesto politico culturale internazionale che ha preceduto la crisi italiana della metà degli anni Ottanta. È del 1975 il rapporto La crisi della democrazia pubblicato dalla Trilateral Commission, il gruppo che riuniva uomini d’affari, politici e studiosi provenienti dal Nord America, dall’Europa e dall’area del Pacifico, che ha stigmatizzato il sovraccarico di governo causato dall’esigenza di soddisfare le sempre più numerose domande di protezione sociale dei cittadini, tipico delle democrazie occidentali in cui la crisi del secondo dopoguerra era stata superata attraverso un compromesso tra forze politico–economiche liberali e forze politico-sociali d’ispirazione socialista. Cinque anni dopo Ronald Reagan dirà: «Lo Stato non è la soluzione del nostro problema, lo Stato è il problema». La perdita della centralità dello Stato sarà anche cruciale nel processo di integrazione europea, che, all’insegna dello Stato minimo, sancirà un nuovo patto tra Stato e cittadini, attraverso un tradimento della Costituzione italiana, come ammesso nella sua autobiografia dallo stesso Guido Carli, tra i firmatari del Trattato di Maastricht.

Il percorso che ha portato all’affermazione sempre più incalzante della democrazia diretta, di pari passo con la democrazia maggioritaria, sembra partito proprio dal contesto in cui è stato elaborato il rapporto La crisi della democrazia, che individuava indirettamente la radice dei problemi nel compromesso tra ideologie diverse raggiunto nelle democrazie occidentali all’indomani della Seconda guerra mondiale. La democrazia diretta, infatti, espone ciascun cittadino al rischio del dominio di una maggioranza avversa, mentre la rappresentanza politica è il solo strumento idoneo ad assicurare uguale libertà a tutte le posizioni, sul piano sostanziale e non meramente formale.

Il cerchio si chiude quando Pallante, citando Arend Lijphart, afferma che democrazia maggioritaria e democrazia diretta disgregano il popolo in folla. I rappresentanti politici, invece, dovrebbero cogliere e rielaborare le istanze sociali profonde e trasformarle in proposte politiche complessive, diventare strumento di integrazione sociale e progettazione politica.

Senza risparmiare critiche alle formazioni partitiche attuali e ricostruendo la crisi che ha condotto nella Prima Repubblica alla degenerazione della partitocrazia, Pallante sostiene la necessità di governare lo scontro tra gli interessi parziali contrapposti, risolvendoli attraverso la mediazione partitica nell’individuazione dell’interesse complessivo.

Ecco perché la rappresentanza è uno strumento insostituibile. Solo i rappresentanti possono porsi l’obiettivo di costruire consenso procedendo «per sovrapposizione», agire politicamente individuando e realizzando l’interesse nazionale.

La democrazia, scrive icasticamente Pallante, non è la figlia stupida della matematica. L’individuazione dell’interesse generale deve essere oggetto di confronto, anche conflittuale. In assenza di accordo, anche quando ci si dovrà contare, lo si farà misurandosi con l’interesse generale, non imponendo agli sconfitti la visione dei più.


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Non appare un dettaglio cronologico neutro, allora, l’individuazione dell’inizio del percorso che ha portato all’affermazione della democrazia diretta in Italia, nella metà degli anni Ottanta, quando – scrive Pallante – «cambia il segno politico dell’accordo del pentapartito: un’inversione di rotta che chiude la fase dell’attuazione della Costituzione repubblicana senza riuscire ad aprirne una realmente nuova». L’Italia non è riuscita a trovare la propria identità dopo la morte di Aldo Moro, che «ha chiarito a tutti l’impossibilità di ripetere con il Pci l’operazione compiuta quindici anni prima allargando l’area di governo al Psi». Un atto di forza, dunque, ha contrastato il compromesso che è, invece, connaturato nella rappresentanza politica.

«Contro la democrazia diretta» è un libro preziosissimo, che merita di essere meditato e discusso, ma anche praticato, fin dall’invito, rivolto nel primo capitolo, a ritrovare riflessività, lungimiranza, responsabilità. Si tratta di una necessità affermata insieme all’interrogativo drammatico formulato nel primo capitolo, che lo apre come una chiave: «occorre capire come si sia potuti rovinare così in basso: quando e perché un sistema che aveva saputo trarre l’Italia in salvo dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale, fino a farne una delle principali potenze del pianeta, si sia tramutato in causa di inarrestabile declino».

Questa è l’enorme posta in gioco che Pallante propone di vincere – dopo avere fatto chiarezza – nell’ultimo capitolo, quando, pur senza volere consegnare al lettore alcuna certezza, definisce una scommessa la rappresentanza politica, in quanto tale preferibile alla certezza di un inganno.

(17 luglio 2020)





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