La scommessa di Corbyn

Nicola Melloni

Giovedì si vota nel Regno Unito, una elezione “storica” che potrebbe portare, infine, all’uscita della Gran Bretagna dalla UE o, in caso contrario, alla prima vittoria di un leader veramente socialista dalla fine della Guerra Fredda.

I sondaggi sono dalla parte dei Conservatori, anche se un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament) resta una possibilità concreta. E’ stata una campagna elettorale di rara bruttezza che conferma lo stato comatoso della democrazia inglese. Corbyn è stato strumentalmente accusato di essere addirittura un anti-semita, un attacco completamente infondato prima diffuso dalla minoranza Labour, poi ripreso dai Conservatori e rilanciato a tamburo battente dai mainstream media, a cui naturalmente si sono accodati anche i giornali nostrani. Boris Johnson ha rifiutato di sottoporsi al tradizionale “grilling”, una intervista “senza guanti bianchi” in cui Andrew Neil, giornalista della BBC mette in crisi i candidati a forza di domande scomode. E anche nelle ultime ore i Tories hanno inventato di sana pianta la notizia secondo cui un loro dirigente sarebbe stato aggredito da un attivista Labour – storia rilanciata immediatamente, senza nemmeno cercare uno straccio di conferma, dai più noti giornalisti inglesi. Un ventennio fa, in Italia si guardava alla Gran Bretagna come modello di democrazia e di giornalismo super partes – un mito crollato nello spazio di un paio di anni. Corbyn fa paura e va demonizzato: il suo programma che include tasse per i ricchi, nazionalizzazioni, e partecipazione dei lavoratori all’amministrazione dell’azienda è vissuto come un pericolo epocale dall’establishment britannico.

Gli elettori, per altro, sono in larghissima parte favorevoli alle proposte politiche del Labour. Eppure il partito di Corbyn rimane indietro nei sondaggi e anche le continue gaffe di Boris Johnson non smuovono l’elettorato. Sarebbe facile dar la colpa alla campagna mediatica in atto, ma il problema è assai più profondo. Infatti il Labour rischia di perdere in zone che sono state storicamente “rosse”, laddove redistribuzione e supporto pubblico farebbero davvero la differenza per i cittadini. Se è vero che il distacco dell’Inghilterra (post) industriale è avvenuto negli anni del New Labour, è anche vero che pure la svolta di Corbyn non ha cambiato questo trend.
Il Nord povero aveva votato in massa Brexit e ora accusa i Laburisti di non rispettare il loro voto, proponendo un secondo referendum. L’ironia della situazione è che mentre, per anni, giornalisti e intellettuali hanno accusato Corbyn di non essere abbastanza forte nell’opporsi alla Brexit, la possibile sconfitta del Labour rischia di essere figlia proprio di quella opposizione: una marea di collegi marginali, storicamente laburisti ma Leavers che potrebbero passare ai Tories. Capiamoci: la scelta opposta sarebbe stata ancora più deleteria, consegnando milioni di voti ai Liberal-Democratici e garantendosi una sconfitta sicura. Nel momento in cui la Brexit è divenuta il cleavage dirimente di queste elezioni, qualsiasi cosa il Labour facesse sarebbe stata perdente.

Corbyn ha sempre avuto chiara questa situazione e il suo obiettivo è sempre stato di non farsi imprigionare in categorie fatte per dividere il suo elettorato: il Labour non doveva essere il partito del Remain ma del lavoro, del welfare, dei diritti sia sociali che civili. Non è però riuscito a sradicare la narrazione della Brexit, martellata dai media e unico cavallo di battaglia tanto per i Conservatori che per i Liberal-democratici. Un cleavage in larga parte extra-politico, dettato tanto dal risentimento verso un sistema economico ingiusto, dal “sogno” di riprendere il controllo delle proprie vite (take back control), quanto dal nazionalismo greve e dalla xenofobia che Tories e tabloid hanno distillato per anni. Uno strumento perfetto per distrarre l’elettorato e dividere la working class: da una parte le zone de-industrializzate del Nord, dall’altra i nuovi “proletari” delle grandi città. Una divisione che nulla ha a che vedere con un sistema economico marcio, con una politica non rappresentativa, con le diseguaglianze.

Una cosa che Corbyn ha sempre capito – ecco perché la supposta indecisione e le scelte ondivaghe sulla Brexit: per convenienza elettorale – come solo ora si vede chiaramente; per rispetto del voto e della dignità degli elettori – cosa continuamente ignorata dalla stragrande parte del personale politico, non solo in UK; ma soprattutto perché il suo progetto politico non può essere rinchiuso negli spazi angusti e per molti versi extra-politici del Leave/Remain. Era la scelta giusta, a mio parere, ma quella meno scontata e opportunista e più rischiosa. Ed infatti Corbyn ha faticato e probabilmente fallito nel superare questa divisione: per chi, per anni, ha visto il proprio voto e i propri bisogni ignorati, veder messo in discussione il risultato di un referendum è un peccato capitale che va al di là anche della propria condizione materiale.

Questa è stata la scommessa di Corbyn: giusta, ma non completamente capita. La tentazione, in caso di sconfitta, sarà quella di far piazza pulita del lavoro di questi anni: ritornare al New Labour, un partito liberale, in grado di compattare l’elettorato Remain e riassorbire i voti Liberal-democratici, ma incapace di esprimere la benché minima critica sociale è che in fondo alla base del malessere odierno.

(10 dicembre 2019)





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