La Scuola di Atene di Raffaello
Nadia Pucci
L’affresco di Raffaello nella Stanza della Segnatura, la celeberrima Scuola di Atene, nello studiolo e biblioteca dell’appartamento di Giulio II, non cessa ancora oggi di stupire e di seminare interrogativi, ricerche, meraviglia. Non mi riferisco solo agli studiosi: la recente, bellissima monografia di Frommel dedicata alle Stanze ne rappresenta un esempio illustre. Parlo di noi profani o semplici appassionati.
Nell’ultima delle nostre visite alle Stanze, possibili o immaginate, in tempi di Medioevo virale, non ci aspettiamo da un momento all’altro, di veder comparire all’improvviso, nel tempio in cui è ambientato l’affresco, qualcosa o qualcuno? Un nuovo personaggio che sbircia da dietro le imponenti paraste, illuminate dal cielo terso di azzurro della cupola, incuriosito dalle animate discussioni o sbucato all’improvviso al centro della scena fra maestri e allievi in primo piano? Non ci stupiremmo neppure se Platone, con il volto di Leonardo, e Aristotele si decidessero finalmente a scendere la scalinata, brontolando con Raffaello e lamentandosi per le articolazioni delle spalle indolenzite, a dir poco: il dito puntato da cinquecento anni (più undici, in verità), al cielo il primo, il maestro, e a terra l’allievo. Riprendendo magari a litigare e allontanandosi senza neppure degnarsi di rispondere alle nostre domande impertinenti …
Quando Raffaello giunse a Roma, chiamato dal Bramante, nel 1508, aveva già una carriera splendida alle spalle: Urbino, Città di Castello, Perugia, Firenze: queste le tappe della sua formazione e della sua folgorante carriera. Tuttavia l’ «eccezionale educazione»[1] ricevuta a Urbino assieme allo strepitoso talento ne avevano costruito le basi. Il padre, Giovanni Santi, pittore e scenografo di corte, autore delle Cronache Rimate, era di casa al Palazzo Ducale e sin da bambino e ancora adolescente era pane dell’anima per Raffaello la cultura che lì si respirava. Pensiamo ai fiamminghi che avevano dipinto Federico da Montefeltro e gli uomini illustri dello studiolo nel Palazzo, Giusto di Gand, Berruguete, alla limpidezza cristallina dello spazio geometrico e la dignità della figura umana nelle opere di Piero, alla cerchia urbinate: Timoteo Viti, Girolamo Genga, lo scrigno del Palazzo Ducale. Senza tralasciare il retaggio che gli derivava dal padre[2] e le prime esperienze nella sua bottega[3]: il precoce contatto, grazie alla figura paterna, con i modelli umbri, in particolare il Perugino[4].
Nella Stanza della Segnatura, diversi sono gli apporti che Raffaello deriva dallo Studiolo del Palazzo Ducale di Urbino, compreso il programma della decorazione[5]. Nello Studiolo di Urbino, al di sopra degli intarsi, vi erano infatti collocati in doppio registro 24 uomini illustri: teologi, filosofi, poeti: 15 di questi si ritrovano negli affreschi della Stanza, nella Scuola di Atene, tra cui Platone, Aristotele, Euclide e Tolomeo.
D’altronde Giulio II confida su Raffaello nel suo progetto di far rivivere la grandezza di Roma e mostrare al mondo quella del suo pontificato, a partire dal felice retaggio dell’antico, innestato sull’albero della cultura cristiana. Irascibile, collerico, vizioso, un papa guerriero, nel vero senso della parola, intenzionato a recuperare e sottomettere città e territori allo Stato della Chiesa, chiamando all’occorrenza anche gli eserciti stranieri, francesi e spagnoli, in Italia: ad Agnadello (1509) persino la Repubblica di Venezia rischiò il collasso. Un papa rinascimentale, sotto tutti gli aspetti al di là del bene e del male. Grande mecenate e collezionista, commissionò opere che da sole basterebbero a costituire il patrimonio dell’umanità. Il grande umanista Erasmo da Rotterdam lo strattona parecchio nel suo pamphlet, gustosissimo, intitolato Giulio, scritto in latino e pubblicato anonimo nel 1517[6]. Giulio è rappresentato mentre, dopo la morte, arriva con Genio, il suo alter ego, e con i suoi armigeri in cielo, bussando fragorosamente alla porta del Paradiso. Immaginiamo il seguito: riuscirà Giulio a entrare in Paradiso?
La Scuola di Atene si inserisce nel progetto del pontificato giuliano che Raffaello interpreta in modo geniale. Tuttavia nessun approccio forse ci potrebbe introdurre nella complessità dell’opera se non ci facessimo guidare dalle parole di Frommel: «Raffaello era cresciuto alla corte di Urbino, frequentata dall’élite intellettuale e artistica italiana, dove suo padre lavorava come pittore e poeta. Se egli non avesse avuto una valida formazione di latino e di studi umanistici, difficilmente Giulio avrebbe nominato lui e non Michelangelo Scriptor Apostolicus dopo che nell’estate del 1511 avevano presentato i loro affreschi. A Roma Raffaello apparteneva a una raffinata cerchia di prìncipi della Chiesa, teologi, umanisti e artisti come non si era mai vista neppure a Firenze. Grazie a questa esperienza del tutto nuova e alla sua passione intellettuale, il ventiseienne potè rievocare la comunità dei sapienti e dei loro discepoli in modo talmente efficace che ancor oggi la Scuola di Atene è una delle opere più celebri di tutta la storia dell’arte»[7].
Innanzitutto la scena in cui Raffaello colloca i personaggi dell’affresco: il progetto elaborato dal Bramante per la fabbrica di San Pietro (nominato da Giulio architetto della fabbrica dal 1506 fino alla morte nel 1514. Incarico prestigioso che passerà poi a Raffaello fino alla morte). Aperta ai quattro lati: la luce penetra dalle volte e l’azzurro del cielo emerge dal fondo e dalla cupola sovrastante come Venere dal mare di Cipro. I filosofi, tutti (tranne forse Averroè e Zoroastro oltre ai contemporanei raffigurati) appartenenti alla cultura greca, di scuole e secoli diversi, stanno uscendo dal tempio e continuano in capannelli a discutere, dialogare, tentare soluzione ai problemi. Frommel afferma che nessun dipinto, neppure l’Ultima Cena di Leonardo, riesce a trasmettere così potentemente il senso di scuola e l’intenso, erotico rapporto allievo-maestro come la Scuola di Atene.
Al vertice della piramide dei personaggi, accanto ad Aristotele, Raffaello rende omaggio a Leonardo dipingendo Platone con il suo volto. Platone ha in mano il Timeo, indica il cielo: il mondo sopraceleste delle idee e la destinazione delle anime felici. Aristotele, in mano la sua Etica a Nicomaco, indica la terra e la ricerca della felicità in privato e in pubblico: l’euprattein, il ben agire e la pratica delle virtù, le forme dell’amicizia e, al sommo dell’umano, la felicità del pensare.
L’intento di spiegare il pensiero causale, esplicitato dall’allegoria della filosofia sulla volta causarum rerum cognitio, è tradotto da Raffaello in senso matematico. Ma non stupisce che non sia l’unico aspetto del suo programma nell’affresco e che l’altro, connesso al primo, sia la «vita felice»[8].
«Il suo pensiero si fonda sulla matematica, – afferma Frommel – perciò gli angoli inferiori della piramide umana sono rappresentati da Euclide e Pitagora.Questi ultimi sono quindi i vertici inferiori di un triangolo ideale che culmina con Platone e Aristotele, che formano il vertice superiore. La maggior parte degli altri personaggi stabilisce uno stretto rapporto c
on questi tre vertici della scena piramidale e nessun altra disciplina assume nell’affresco di Raffaello un’importanza paragonabile»[9].
In questo contesto si staglia ancora di più come guida nel paesaggio dell’affresco di Raffaello il Timeo di Platone, uno dei pochissimi testi del grande filosofo conosciuti in epoca medioevale, prima del grande lavoro di traduzione dei dialoghi e di diffusione del suo pensiero da parte di Marsilio Ficino e dell’Accademia Platonica fiorentina alla metà del Quattrocento. Innesto straordinariamente fecondo, quello del neoplatonismo, nella cultura del Rinascimento, se pensiamo al bakground che animò, con sensibilità diverse, il genio di Leonardo, Michelangelo e Raffaello[10]. Senza considerare gli esiti che la cultura dei pitagorici, mutuata da Platone e dai testi ermetici, ebbe nel creare il fertile humus attorno cui si svilupperà la rivoluzione astronomica.
Nell’affresco, Pitagora, sulle cui teorie riformulate e rifondate si articola il Timeo platonico, scrive sul manoscritto che ha di fronte. Forse sta commentando, le armonie numeriche della scala musicale disegnate sulla lavagnetta che uno dei suoi allievi sorregge di fronte a lui. «Si tratta dei rapporti fra cifre piccole, sui quali si fondano gli intervalli di quarta, di quinta e di ottava, e l’armonia delle sfere, e di tali armonie si servivano non solo i musici ma anche gli artisti»[11]. Le stesse armonie espresse in numeri cui si riferisce il Timeo, il dialogo dove appunto è un pitagorico, Timeo di Locri, a narrarci in prima persona il grande mito del demiurgo, l’artigiano celeste che plasma l’universo, portando una materia caotica, in cui esistevano solo tracce di ordine, dal disordine all’ordine.
L’«anima del mondo», più antica del corpo del mondo, perché destinata a guidarlo e a sovraintendere alle rivoluzioni celesti, il demiurgo l’ha plasmata mescolando le essenze che la compongono secondo proporzioni numeriche, cioè i rapporti delle armonie musicali (Timeo, 35a-36b)[12] che Raffaello ha dipinto sulla lavagnetta di fronte a Pitagora. L’universo è costruito sulle armonie matematiche della musica: la musica delle stelle.
Da qui forse la cura dell’essere-universo-natura: anche il tempio in cui è ambientato l’affresco, come l’Essere di Parmenide, è «inviolabile», «non saccheggiabile» nel senso giuridico del termine[13]. Una filosofia della natura come sensibilità estrema, sguardo di cura sulle cose, Raffaello l’ha traghettata per noi, come un dono prezioso, dal passato nel nostro futuro. Se solo guardiamo con gli occhi della ragione e della bellezza. Tale sensibilità è traducibile oggi in un nuovo linguaggio della scienza? Nel mondo esausto e malato dalla tracotanza rapace della ragione predatoria? Abbiamo un’altra scelta? Non abbiamo un pianeta B.
Nel Timeo l’universo è pensato come un tutto, somigliantissimo a quello «di cui gli altri animali considerati nella loro singola individualità e come specie sono parti» (30c 5-6), un «vivente dotato di anima e di intelligenza» (30b 8), un «dio felice» (34b 8). E la terra poi, «nostra nutrice … Egli [il demiurgo] la costruì custode ed artefice della notte e del giorno» (40c). Non per nulla vediamo sul lato sinistro dell’affresco due grandi astronomi, Zoroastro e Tolomeo: l’uno di fronte all’altro, il cosmo dell’uno si specchia nel globo terracqueo dell’altro. E Raffaello che si dipinge accanto a loro ne è testimone. Inoltre «i movimenti dell’armonia sono della stessa famiglia delle rivoluzioni della nostra anima» (47d). Come sottolinea Frommel, «per Platone la perfezione dell’universo è l’archetipo dell’anima umana, a cui allude anche il suo mantello rosso»[14]. In questa armonia, forse, la radice della vita felice.
Ma il legame fra la terra, il cosmo e l’uomo non si ferma qui. Ci siamo già spostati, con Zoroastro e Tolomeo, in direzione dell’altro angolo alla base della piramide dei personaggi. A sinistra, in primo piano Euclide con le fattezze del Bramante è attorniato dall’entusiasmo dei suoi allievi. Sta disegnando con l’aiuto del compasso due triangoli rettangoli sovrapposti, uno isoscele e l’altro scaleno che, secondo il Timeo (53c8-d4), sono gli atomi, cioè gli elementi primi grazie ai quali il demiurgo plasma, compone i corpi primi, aria, acqua, terra, fuoco: il corpo dell’universo. Frommel ci fa notare che «il blu del mantello di Aristotele e il verde della sua tunica sono gli stessi colori che rappresentano l’Aria e la Terra sulla veste variopinta dell’allegoria della Filosofia nella volta»[15].
Sono le combinazioni di quei triangoli a dare vita ai 4 poliedri regolari: la piramide o il fuoco, l’ottaedro o l’aria, l’icosaedro o l’acqua, tutti e tre questi poliedri costituiti da triangoli rettangoli scaleni, mentre il cubo o la terra da triangoli isosceli (Timeo, 54d-55c). Aria, acqua, terra e fuoco, grazie al principio di associazione e dissociazione dei triangoli che li compongono, saranno l’ordito e la trama della tessitura delle cose nell’universo e delle loro trasformazioni, anche se il fuoco prevale di gran lungo nei cieli. I triangoli elementari quindi sono le vocali e le consonanti dell’ordine matematico-geometrico del tutto. Quei «caratteri» con cui è scritto l’universo, come dirà Galileo nel Saggiatore[16] (1623) più di un secolo dopo. L’allievo di Euclide che ha colto la spiegazione si volta infatti, quasi di scatto, girando lo sguardo verso il cosmo di Zoroastro, mentre Tolomeo tiene come contrappunto in mano il globo terracqueo.
Certo, l’affresco è ricchissimo ancora di spunti e di personaggi incredibili! Basti pensare a Eraclito con il volto di Michelangelo come lui ipercritico e scontroso … E con l’amato Alcibiade ecco Socrate, che vuol essere una mosca fastidiosa per i suoi concittadini, un «tafano», capace di rovesciare tutti i valori ritenuti per certi, compreso il giudizio sulla morte. E l’atomista Democrito, che considerava anche l’anima (occhio al mantello rosso) un aggregato di atomi, quindi mortale: un ateo dipinto nella biblioteca del papa. E il cinico Diogene cosa sta dicendo ad Alessandro Magno mentre sale incontro al suo maestro, Aristotele? E Inghirami, fra i contemporanei, perché Raffaello lo dipinge vicino a Pitagora e incoronato di foglie di vite?
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Frommel risponde alle nostre domande e ci lascia con la curiosità di scoprire ancora. Lo sguardo dello studioso percorre tutte le Stanze ricostruendo a tutto tondo, per ogni affresco, la genesi creativa, le varianti, i progetti di politica, di cultura, di rappresentanza e di potere che di volta in volta i papi esplicitano e le risposte uniche e creative dell’artista. Un’opera preziosa e ancora più prezioso è il suo sguardo, capace di cogliere la complessità e la incredibile ricchezza di riferimenti coinvolti nelle opere di Raffaello, che come scrigni rivelano tesori inesauribili.
[1] Silvia Ginzburg, Sull’educazione di Raffaello, in Raffaello e gli amici di Urbino (catalogo della mostra, Urbino 2019), a cura di S. Agosti e S. Ginzburg, Firenze 2019, pp. 18-19.
[2] Cfr. A. Forcellino, Raffaello. Una vita felice, Roma-Bari 2008, pp. 30, 40, 52.
[3] M. Ambrosini Massari, Urbino prima e dopo Raffaello, in Raffaello e gli amici di Urbino, cit., pp.31-32, ritiene probabile la collaborazione del giovanissimo Raffaello all’opera del padre: «Il disegno di Windsor per la Musa Clio, è di una qualità tanto alta e insieme lontana dalla produzione di Giovanni alla metà circa del nono decennio, momento a cui dovrebbe risalire, da far pensare che possa trattarsi piuttosto di una precocissima esercitazione del figlio accanto al padre, o comunque su modelli perugineschi sicuramente presenti nella sua bottega».
[4] Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori, architetti, Roma 2019, p.619, sostiene la precoce educazione di Raffaello adolescente, che il padre, Giovanni Santi, volle affidare al Perugino. A. M. Ambrosini Massari, Urbino prima e dopo Raffaello, cit., pp. 30-32, sostiene la pregnanza della tesi di Roberto Longhi, sulla precoce conoscenza del Perugino o di modelli perugineschi, da parte di Raffaello, nella bottega del padre e proprio grazie alla sua figura, come testimonia l’attribuzione a Raffaello dell’affresco Madonna col Bambino, nella casa natale.
[5] C. L. Frommel, Raffaello. Le Stanze, Milano 2017, pp.15-16.
[6] Erasmo da Rotterdam, Giulio, Einaudi, Torino, 2014.
[7] C. L. Frommel, Raffaello. Le Stanze, Milano 2017, p. 24.
[8] Ivi, p. 20.
[9] Ibidem.
[10] Sull’influenza del neoplatonismo sui tre grandi del Rinascimento, cfr. G.C. Argan, Storia dell’ Arte Italiana, III, Firenze 1973, pp. 8-30.
[11] Frommel, op.cit., p. 21.
[12] Cfr. Francis Mac Donald Cornford, Plato’s Cosmology, London 1977, pp. 69-72.
[13] Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introd., testo, trad. e note di Giovanni Cerri, Torino 1999, fr. 7/8, 53 e nota a p. 240.
[14] Frommel, op. cit., p. 20.
[15] Ibidem.
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