La scuola pubblica italiana ai tempi del coronavirus

Valentina A.

I miei figli, un maschio di 11 anni e una bambina di 7 anni, frequentano rispettivamente la prima media e la prima elementare di due scuole al centro di Roma.
Le scuole sono state chiuse il 5 marzo e a oggi, 23 marzo 2020, non sono ancora partite le lezioni. La famosa didattica online di cui tutti parlano è attualmente un’utopia.
Nella scuola elementare, un enorme plesso scolastico in un quartiere multiculturale di Roma, a oggi sono attivi i seguenti procedimenti: un gruppo whatsapp dove scrivono i genitori, un altro, sempre whatsapp, dove invece sono presenti anche le maestre. Il principio è quello di tenere vivo il rapporto con i bambini, su questa chat ci sono quindi tutte le attività a cui sono felicemente costretti gli alunni durante la reclusione: far germogliare un seme di un avocado, costruire marionette, piantare delle lenticchie, giocare a pulire la casa con l’aspirapolvere…su questa chat tutti i genitori, sennò pare brutto, devono rispondere con espressioni di meraviglia: ‘che bravi!’ ‘che belli!’ ‘che fantasia!’
E quindi un paio d’ore al giorno si passano così.
La maestra di italiano poi, quasi quotidianamente, ha aperto una chat di classe virtuale dove, con una difficoltà immensa di collegamento (occorre avere una linea wi-fi seria e un’enorme pazienza), chiede ai bambini di scrivere delle frasette: ‘Oggi è primavera’, ‘A primavera volano le rondini’ e io aggiungerei ‘Una rondine non fa primavera’. Mentre noi genitori, impossibilitati a lavorare, cerchiamo disperatamente di prendere la linea e far partecipare i bambini spiegandogli dove sono le lettere sulla tastiera del pc, contemporaneamente dobbiamo avere sott’occhio la chat whatsapp della classe per sapere quando è il nostro turno di scrivere ‘Viva la primavera’ e consolare tutti gli altri che si lamentano perché non riescono a collegarsi, a scrivere, a interagire e quindi altre due ore vanno via così.
Invece la maestra di matematica, assente da oltre tre mesi per ragioni familiari, è miracolosamente risuscitata proprio il giovedì di chiusura delle scuole. Purtroppo però non ha con sè il testo scolastico e quindi manda di continuo delle schede da scaricare e dei compiti da fare, pur non sapendo a che livello si trovano i bambini visto che non li vede da più di tre mesi. Cerchiamo quindi di stampare i compiti, farli fare ai bambini, scannerizzarli e poi caricarli per mostrarli alla maestra che chiaramente non sa aprire il link per vederli ed eventualmente correggerli. Ma noi lo facciamo lo stesso, anche se nessuno li vedrà mai.
Così passano circa un altro paio di ore. E questa è la prima elementare.
Le medie invece sono un altro passo, no? Tanti professori, tante materie, zaini stracolmi di libri e una richiesta di responsabilità che finalmente deve essere dei ragazzi.
Ad oggi però delle 30 ore settimanali di lezioni, online ne sono solo quattro. I professori si sono organizzati in diverse piattaforme.
Abbiamo adottato quindi un registro elettronico dove si trovano i compiti (attenzione a cliccare su ‘presa visione’ altrimenti non vale), lo stesso registro elettronico da scaricare però sul pc per alcune materie, una piattaforma b-smart per altri compiti e dove occorrerà poi scannerizzare, caricare e inviare i compiti da correggere – che nessuno corregge-, un gruppo su zoom, 3 gruppi su skype e diverse chat whatsapp governate dai ragazzi.
Quindi gli alunni di prima media devono possedere almeno un telefonino smart (e noi che stiamo facendo una battaglia per non dare ad un ragazzo di undici anni il cellulare), un computer o un tablet e una connessione wi-fi potente.
Sul registro elettronico si trovano ogni giorno decine e decine di compiti da fare: operazioni, letture (talvolta anche tre romanzi a settimana), disegni tecnici, frasi di inglese, esperimenti scientifici che i genitori devono innanzitutto capire – nessuno ce li ha esposti – spiegare ai figli, costringerli a svolgere e poi, come al solito, scannerizzare, caricare e inviare con la speranza che qualcuno li legga. Questo prende circa un’ora e mezzo al giorno.
Su Zoom le lezioni, solo una materia e solo un’ora alla settimana, durano massimo 40 minuti, la professoressa non sa ancora gestire la piattaforma e i ragazzi ne approfittano, parlando uno sull’altro, in un caos totale. Oggi ho sentito la prof che urlava: ‘se continuate così chiederò ai vostri genitori di partecipare alla lezione’. L’ho presa come un’ulteriore minaccia a me e al mio ‘smart working’…
Su Skype invece alcuni alunni sanno come silenziare gli altri studenti e addirittura cacciarli via dal gruppo, quindi si pratica una sorta di bullismo virtuale in cui quelli che hanno giocato di più ai videogiochi e quindi sono più tecnologici, zittiscono, togliendo il microfono e il video, i più deboli.
I ragazzi sono esasperati e chiedono di tornare a scuola.
Anche qui, tutte le lezioni sono in primis organizzate dalle mamme sulla chat generale whatsapp, condivise poi con le professoresse, ognuna di noi ha anche una chat privata con i vari insegnanti dove in modo molto gentile chiede cortesemente di avere un orario delle materie così da poter gestire il proprio lavoro. Poi chiaramente c’è la sottochat delle mamme dove si commenta la chat ufficiale della classe.
Anche questo prende un altro paio di ore al giorno.
In effetti quattro ore di lezione alla settimana che ne richiedono quaranta di preparazione sono davvero esasperanti.
I genitori sono fuori di testa, sono stati costretti a cedere i loro telefoni, i loro computer, il loro tempo di reclusi totalmente ai loro figli e quindi semplicemente non possono svolgere il loro lavoro.
E se l’economia del nostro paese farà fatica a ripartire sarà perché abbiamo prestato i computer ai nostri figli?
Diciamocelo, lo smart-working è solo per i single o per i ricchi che posseggono tanti pc, tanti tablet e tanti telefonini almeno quanti sono i figli.
Purtroppo in questa didattica online sono andati completamente persi i fondamenti della scuola pubblica, quelli fissati dalla Costituzione: i bambini e i giovani italiani devono essere posti in condizioni di sostanziale uguaglianza rispetto ad un bene così fondamentale come l’educazione.
Ecco, tutte le famiglie che non hanno un computer, una linea telefonica, un telefonino smart, una connessione wi-fi – e non sono poche in scuole così grandi e che si pregiano appunto di essere interculturali – sono andate perdute.
Non sono presenti sulle chat, non mandano foto dei primi germogli delle lenticchie, nessuno li sente più, nessuno sa cosa stanno facendo: sono i nuovi invisibili.
Magari, forse, stanno solo studiando tranquillamente sui libri. Io me lo auguro.

(24 marzo 2020)





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