Il conflitto giuridico sulla Bce e le implicazioni per il futuro dell’euro
Pompeo Della Posta
Una chiave di lettura possibile per interpretare il conflitto innescato dalla recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sull’operato della Banca centrale europea (Bce) è data dal dilemma irrisolto circa la vera natura dell’Unione europea (e quindi anche del suo sottoinsieme, rappresentato dall’Unione economica e monetaria europea (Ume)): si tratta di una entità sovranazionale (cioè di una federazione nella quale l’interesse comune prevale su quello dei singoli stati e a nessun paese è concesso diritto di veto in materie di interesse comune) o di una istituzione intergovernativa, in cui si partecipa solo in funzione della convenienza nazionale, cercando quindi di spuntare le condizioni di maggiore favore per il proprio paese, eventualmente anche a danno di tutti gli altri?
Questa dicotomia, come è ben noto, è riflessa anche negli organi dell’Unione europea. La Commissione, la Corte di giustizia, il Parlamento e, dopo la creazione dell’Ume, la Bce ne rappresentano l’anima sovranazionale. I Commissari europei, per esempio, si impegnano a non accettare indicazioni dai loro governi, una volta che abbiano assunto quel ruolo, dovendo – almeno in teoria – quasi dimenticare la loro nazionalità, operando nell’esclusivo interesse dell’intera Unione europea.
Le altre istituzioni europee rilevanti sono il Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo e il Consiglio dei ministri europei (detto anche Consiglio dell’Unione europea). In quest’ultimo si riuniscono appunto di volta in volta i ministri delle diverse aree di interesse. Si va dall’Ecofin, forse il più noto di tutti, relativo agli Affari economici e finanziari, fino a quelli che si occupano di affari esteri, presieduto dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, di agricoltura e pesca, giustizia, ambiente e così via.
Queste ultime due istituzioni, Consiglio europeo e Consiglio dell’Unione europea, sono il vero motore politico dell’Unione europea, cioè sono quelle che danno l’indirizzo e prendono le decisioni a livello economico e politico, ma guarda caso sono anche quelle che hanno natura intergovernativa: l’interesse del paese di appartenenza di chi le compone precede quello dell’Unione.
La sentenza della Corte costituzionale tedesca, che dà alla Bce un termine di tre mesi per dimostrare di avere agito in maniera proporzionata agli obiettivi di stabilità monetaria che deve perseguire, ci ricorda quindi – se ce ne fosse bisogno – che l’Ume non è una federazione sovranazionale, ma è una confederazione intergovernativa di stati, in cui c’è spazio per tutelare gli interessi di un paese anche a danno della maggioranza degli altri.
Ma vediamo più da vicino il caso in questione, che ha riguardato la contestazione dell’operato della Bce e quindi indirettamente anche della Corte di giustizia europea di Strasburgo che ne aveva già valutato ed approvato le decisioni operative in una sentenza del 2018.
La contestazione nei confronti della Corte di giustizia è soltanto l’ultima in ordine di tempo di una lunga serie di critiche aperte nei suoi confronti. Ciò è dovuto alla sua prospettiva sovranazionale e federalista, definita nei primi anni Sessanta – quindi a pochi anni di distanza dalla firma dei Trattati di Roma del 1957 – quando fu stabilita in una nota sentenza sia la superiorità dei suoi pronunciamenti rispetto alla legislazione nazionale per tutto ciò che riguardava fatti legati alla Comunità economica europea sia la diretta applicabilità della legislazione europea nelle aule giudiziarie degli stati membri.
I paesi tradizionalmente più gelosi della propria indipendenza non mancarono di manifestare la propria avversione. I primi fra quelli del gruppo di testa dei sei paesi fondatori, non potevano che essere i francesi: il livello più alto fu toccato da Giscard d’Estaing, nel 1975, che l’accusò apertamente addirittura di compiere atti illegali.
Anche il Regno Unito, altrettanto e anzi anche più geloso della propria indipendenza di quanto non fossero i francesi – la Brexit è lì a dimostrarlo – entrò in conflitto con la Corte, dopo il suo accesso nell’allora Comunità economica europea (oggi Unione europea). L’accusa che veniva mossa alla Corte da parte britannica era di erodere la sovranità nazionale in maniera indiretta, quindi in modo surrettizio e per questo ancora più subdolo. È inglese l’immagine di una Corte di giustizia europea che sottrae dalla porta posteriore, non vigilata, la sovranità che non avrebbe potuto essere invece tolta agli stati nazionali attraverso la porta principale dei trattati, che era invece preclusa dalla mancanza di volontà politica.
Fra i pronunciamenti “storici” e anche un po’ folcloristici se si vuole, della Corte, si ricorda quello della Crème de Cassis (Cassis de Dijon) il liquore con il quale soprattutto in Francia si prepara il kir – che viene definito royal se aggiunto a dello champagne anziché al vino bianco – una sorta di spritz ante-litteram. La Germania ne impedì l’importazione, adducendo presunti effetti negativi sulla salute dei consumatori tedeschi (si argomentava, in maniera evidentemente discutibile e pretestuosa che, essendo quel liquore dolce, il consumatore tedesco sarebbe stato indotto a berne in eccesso senza rendersi conto che stava assumendo alcool). La Corte ne impose invece il libero commercio. Da qui prese le mosse il futuro mercato unico, che poi l’Atto unico europeo sancirà definitivamente nel 1987.
Un’altra sentenza famosa della Corte di giustizia europea (dovrebbe esserlo anche fra i tanti appassionati di calcio in Europa) è quella relativa al caso Bosman, del 1995, che stabilì la libera circolazione dei lavoratori. Jean-Marc Bosman, un calciatore di nazionalità belga, non potendo giocare in Francia a causa di leggi nazionali restrittive, infatti, si appellò alla Corte perché stabilisse la illegittimità di tali leggi rispetto a quanto previsto dall’Atto unico europeo, ottenendone piena soddisfazione: anche in questo caso, il principio del libero movimento del lavoro – forse il maggiore beneficio di cui godiamo nel far parte dell’Unione europea e che non dovremmo affatto dare per scontato, come ci ricorda la già citata Brexit – risultò, così, sancito in modo inequivocabile.
Era inevitabile infine, nei nostri giorni, che la Corte di giustizia entrasse in conflitto con le istanze sovraniste che si fanno sempre più pressanti. Dopo le opposizioni di parte francese e inglese ricordate sopra, è quindi ora la volta di quelle tedesche, che si pongono però ad un livello ben più alto rispetto alle precedenti poiché in quest’ultimo caso il conflitto con la Corte di giustizia europea riguarda un’autorità nazionale preposta alla salvaguardia dell’ordinamento costituzionale interno.
Al di là degli aspetti di natura squisitamente giuridica – che lascio volentieri agli esperti di tali materie – relativi alla valutazione della possibilità della Corte costituzionale tedesca di porre condizioni alla Bce, una istituzione caratterizzata dal più alto grado di indipendenza, resta da analizzare quali siano gli effetti economici di tale pronunciamento. In ultima analisi, quindi, si tratta di comprendere quali effetti possa
avere la sentenza sul futuro dell’Ume. Le implicazioni, tuttavia, potrebbero essere ben più ampie e potrebbero riguardare anche il futuro della stessa Unione europea, se passasse il principio che i tribunali nazionali possono stabilire la loro priorità rispetto alla legislazione europea – con Ungheria e Polonia che sarebbero pronte a prendere parte al gioco per affermare le loro posizioni attuali, ai limiti del perimetro della democrazia.
Quali sono, quindi, le contestazioni che la Corte costituzionale tedesca muove nei confronti della Bce di fronte alla Corte di giustizia europea? Innanzitutto, che la Bce sia andata oltre il proprio mandato. Che non si sia limitata a fare “politica monetaria”, ma anche “politica economica”. Per chi studia macroeconomia questa distinzione sembra inappropriata poiché la politica monetaria è di per sé una delle possibili forme che può assumere la politica economica, tradizionalmente composta appunto dallo strumento monetario, operato dalla banca centrale e dallo strumento fiscale, deciso dal governo attraverso il ministero dell’Economia (o quelli preposti, separatamente, da un lato alla spesa pubblica – il ministero del Bilancio e della Programmazione – e dall’altro alle entrate – il ministero delle Finanze). In realtà, però, la distinzione fra politica monetaria e politica economica è presente anche nel Trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e con ogni probabilità si riferisce al fatto che mentre la Bce deve condurre la propria politica monetaria in maniera prestabilita e funzionale all’unico mandato che è tenuta a rispettare – il mantenimento della stabilità dei prezzi – ai governi nazionali è lasciato il compito di decidere appunto il complesso di politiche economiche da seguire: in altre parole, la Bce non dovrebbe avere autonomia di giudizio, trattandosi di una istituzione la cui natura è meramente tecnica che, in quanto tale, deve svolgere in maniera asettica e puntuale il compito assegnatole. Volendo richiamare il dibattito degli anni Ottanta fra regole rigide e discrezionalità, quindi, la Bce non dovrebbe poter esercitare alcuna discrezionalità, essendo soggetta alle disposizioni e alle regole vincolanti che il Trattato di Maastricht stabilì per lei.
Ma le cose sono meno chiare di quanto potrebbero sembrare. Davvero il whatever it takes di Draghi del luglio 2012 si limitava al rispetto rigido delle regole senza potere esercitare alcuna discrezionalità? È opinione ormai molto diffusa, compreso di chi scrive, che fu proprio quello strappo alle regole, quell’esercizio di discrezionalità monetaria o se si vuole di applicazione di regole state-contingent, vale a dire adattate alle particolari circostanze in cui potrebbe trovarsi lo stato dell’economia anche a seguito del verificarsi di shock inattesi che salvò l’euro e con ogni probabilità il futuro della stessa Unione europea. Sì, si trattò di un esercizio di vera e propria politica economica, non soltanto di politica monetaria, non avrei dubbi.
Il vero salvacondotto della Bce, la ragione formale che può opporre di fronte a chiunque (ma soprattutto di fronte ai paesi del Nord Europa, prima fra tutti la Germania) per giustificare il proprio operato, però, visti i bassi tassi di inflazione, è che le politiche monetarie che ha condotto sono state e restano conformi al mandato ricevuto di mantenere il tasso di inflazione nell’area dell’euro “al di sotto ma vicino al 2%” e che il divario nei tassi di interesse fra paesi appartenenti all’Unione economica e monetaria europea (lo spread) era determinato da un andamento perverso e autorealizzantesi (self-fulfilling) delle aspettative, non giustificato dai valori di fondo dell’economia. Era necessario quindi, con un intervento che solo un prestatore di ultima istanza può fare, rassicurare e calmare i mercati, dichiarandosi pronti a fare tutto ciò che fosse necessario fare al fine di ottenere questo risultato.
La Corte tedesca ritiene, tuttavia, che la Bce sia andata al di là di quanto le fosse permesso fare e che abbia operato scelte di politica economica che, in quanto tali non avrebbe avuto l’autorità per compiere. È tempo, quindi, secondo la Corte costituzionale tedesca, che la Bce rientri nei ranghi, che non compia ulteriori atti ultra vires, cioè atti che, appunto, vanno al di là dei poteri che le sono stati concessi dai Trattati. La Corte ribadisce quindi che la Bce non può diventare in maniera indiretta e strisciante uno strumento sovranazionale (un’accusa simile a quella fatta nel tempo alla Corte di giustizia europea) che si contrappone agli interessi nazionali dei singoli paesi che fanno parte dell’Ume.
La Corte tedesca dice ancora che le operazioni tecniche svolte dalla Bce – operazioni di cui pure è costretta a riconoscere la legittimità, sancita dalla sentenza del 2018 della Corte di giustizia europea che non può contestare e non contesta – potrebbero non essere proporzionali agli obiettivi che le giustificavano, per esempio superando il limite di un terzo del finanziamento del debito pubblico di un governo, ben oltre quindi il limite posto dal peso di quel governo all’interno della Bce (la cosiddetta capital key, vale a dire la quota che ciascuna banca centrale nazionale detiene dell’azionariato della Bce). Così facendo si violerebbe quindi l’altro caposaldo della politica monetaria che la Bce è tenuta a seguire, vale a dire il divieto di finanziare le spese e i debiti degli stati che fanno parte dell’Ume.
Pur potendo avere inevitabili ripercussioni anche sul recente Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), che prevede esplicitamente proprio la rimozione di quei limiti, la sentenza della Corte costituzionale tedesca si riferisce alle operazioni collegate al Public Sector Purchase Programme (PSPP) del 2015, rese necessarie dal fatto di avere toccato lo zero lower bound, il limite inferiore dello zero per il tasso di interesse, il principale strumento nelle mani di qualunque banca centrale. L’avere raggiunto il livello minimo per il tasso di interesse (o di quello che veniva ritenuto tale, prima di giungere perfino a fissare tassi negativi) implicava la necessità di essere creativi e di inventarsi, come hanno fatto le banche centrali di tutto il mondo, strumenti “non-convenzionali” per la conduzione della politica monetaria, cioè strumenti che andassero oltre quelli consueti, ormai non più disponibili. Questi ultimi, oltre alla fissazione dei tassi di interesse, includevano la definizione della percentuale di riserva obbligatoria che le banche avrebbero dovuto tenere a disposizione in caso di necessità (ormai ridotta al minimo dell’1%) e le operazioni di rifinanziamento, cioè di acquisto temporaneo di titoli sul mercato aperte. Queste ultime, al fine di garantire prospettive stabili di liquidità al sistema bancario, hanno dovuto essere trasformate dapprima in operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO, Long Term Refinancing Operations), poi a lunghissimo termine (VLTRO, Very Long Term Refinancing Operations) e poi in operazioni di rifinanziamento finalizzate esplicitamente alla concessione di credito (TLTRO, Targeted Long Term Refinancing Operations), visto che il credito che la Bce faceva alle aziende di credito non veniva altrimenti canalizzato alle imprese, l’unico vero volano per il superamento della crisi e per la ripresa economica.
I tavoli sui quali ha dovuto giocare la Bce per inventarsi forme nuove – appunto, “non conv
enzionali” – di politica monetaria, sono stati molteplici, quindi: quello del credito al settore pubblico, relativo all’acquisto dei titoli del debito dei governi che il mercato mostrava di volere smobilizzare (il cosiddetto quantitative easing, che però vista la propria natura, potrebbe forse anche essere definito, in maniera più chiara, public easing); quello del credit easing, vale a dire del credito da concedere al settore privato attraverso la liquidità fornita al sistema bancario (realizzato attraverso le operazioni viste sopra di LTRO, VLTRO e TLTRO); e quello della comunicazione ai mercati finanziari al fine di orientarne lo stato delle aspettative, la cosiddetta forward guidance.
Con quest’ultima, la Bce intende rassicurare i mercati sul fatto che la liquidità concessa all’economia non subirà interruzioni. Questo è quanto ha continuato a fare Mario Draghi fino alle ultime battute della sua presidenza, ma che Christine Lagarde, che gli è succeduta, è sembrata invece negare con la sua scivolata – poi rettificata – sul controllo degli spread che non sarebbe stato compito della Bce.
Con tale rassicurazione, la Bce intende invogliare le imprese ad investire, ribadendo che la restituzione delle somme di denaro che oggi sono state prese a prestito non comporterà sacrifici crescenti, come avverrebbe in caso di deflazione. Le politiche monetarie espansive promesse anche per il futuro, invece, implicando l’aspettativa di un aumento dei prezzi dei prodotti che le stesse imprese vendono, assicura profitti futuri, rendendo così convenienti – e quindi possibili oggi – investimenti e crescita.
La Bce ha assunto un compito enorme, di supplenza rispetto a politiche fiscali insufficienti, specchio di una altrettanto insufficiente volontà politica. La Corte costituzionale tedesca, quindi, in fin dei conti ha ragione: nel tentativo di evitare il deragliamento dell’Ume, la Bce ha fatto più di quello che avrebbe dovuto fare e che la Corte vorrebbe impedirle di continuare a fare.
È anche vero, del resto, che si tratta di un compito che già la depressione degli anni Trenta dello scorso secolo e, dal punto di vista teorico, la Teoria generale di Keynes dimostrarono essere molto difficile, se non addirittura impossibile in una situazione del tipo di quello che stiamo vivendo in questi mesi: se, in un contesto di depressione e di aspettative negative, il cavallo (l’economia) non vuol bere è inutile volergli dare da bere (liquidità). Non berrà (non ripartiranno gli investimenti). Quindi ci vogliono le politiche fiscali, quelle rispetto alle quali nell’Unione europea e nell’Ume si continua invece a balbettare. Le ragioni sono ben note, ma possono essere riassunte nella diffidenza reciproca fra i paesi del Nord e del Sud Europa, diffidenza che allontana la possibilità che si possa trovare un ragionevole compromesso e punto di incontro fra le due posizioni. Da un lato la richiesta di solidarietà da parte dei paesi del Sud, dall’altra l’interpretazione minima che ne danno i paesi del Nord, nonostante che la posizione di forza da cui trattano sia stata guadagnata anche in funzione della struttura istituzionale dell’Ume, a cui quelli del Sud hanno accettato di partecipare.
Tale diffidenza, riflessa nella stipulazione di trattati ritenuti per definizione rigidi e immodificabili e che vengono blanditi come totem ai quali continuare ad aderire anche quando la situazione ne richiederebbe palesemente la revisione, impedisce perfino di considerare la soluzione più immediata che paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito o il Giappone stanno adottando; soluzione sulla quale concordano economisti appartenenti all’intero spettro del pensiero economico, dai teorici eterodossi più radicali ai monetaristi conservatori che si rifanno a Milton Friedman, passando dai neo-keynesiani. Si tratta della monetizzazione della spesa pubblica, vale a dire la semplice stampa incondizionata di moneta, che deve essere effettuata con urgenza per sostenere sia i consumi, al fine di sostenere il reddito corrente sia gli investimenti, per creare le premesse alla crescita futura.
Se il tentativo di legare definitivamente le mani alla Bce, come propone di fare l’organo costituzionale tedesco, dovesse andare in porto, nella migliore delle ipotesi la politica fiscale potrebbe ricevere il giusto impulso per svolgere il proprio ruolo, come qualcuno ha osservato. Anche in quel caso, tuttavia, la soluzione meno costosa e teoricamente più fondata, cioè la stampa di moneta – da distribuire con “elicotteri” o in qualunque altro modo – sarebbe ignorata e tutto dipenderà da come il peso del debito sarà ripartito fra i diversi paesi o con quali modalità e a quali condizioni sarà concesso e/o condiviso.
È certo però che se sarà lasciato essenzialmente sulle spalle dei singoli paesi, inclusa l’Italia, la loro ripresa sarà fortemente a rischio e con essa sarà anche a rischio il futuro dell’intera Unione europea.
(18 maggio 2020)
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