La sinistra al tempo della crisi. Prosegue il dibattito tra Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti
IL LAVORO SENZA RAPPRESENTANZA
di Emilio Carnevali
che prende spunto dal sulla crisi e il consenso al governo Berlusconi è, per quanto breve, davvero ricco di indicazioni e sollecitazioni interessanti.
Per comodità vorrei partire dal fondo, e cioè dall’individuazione della proposta del segretario del Pd Franceschini di un assegno mensile ai disoccupati come unico “segno di discontinuità” rispetto ad una politica sradicata dal “plesso rovente degli interessi reali”.
Sul fatto che la proposta sia un “po’ poco” – come ammette lo stesso Pellizzetti nonostante l’apertura di credito – siamo d’accordo. Il punto è vedere se la proposta possa indicare l’inizio di un ripensamento e di una inversione di tendenza rispetto alla strategia politica che fin qui ha ispirato il Partito democratico.
Personalmente considero la proposta in sé ragionevole e perfino un netto passo avanti se confrontata con la “proposta-bandiera” lanciata da Veltroni nella campagna elettorale del 2008, quella famosa del salario minimo di 1000 euro al mese per i precari (l’analogia è suggerita dal significato politico delle due proposte e non ovviamente dalla simmetria nel merito). Facendo astrazione dal diverso contesto economico, la proposta veltroniana era un vero pasticcio propagandistico pieno di incongruenze e punti oscuri non chiariti nonostante le sollecitazioni provenute da più parti (e non solo da sinistra, come testimonia il confronto Giavazzi – Morando sulle pagine del Corriere in cui l’economista bocconiano si chiedeva non senza stupore: “Davvero il Pd propone ‘1000-1100 euro al mese’ senza neppure l’indicazione delle ore di lavoro cui esso farà riferimento?”).
Non credo tuttavia che la proposta di Franceschini segni una discontinuità strategica rispetto al progetto originario del Pd. Il Pd conserva infatti il tratto fondamentale della “vocazione maggioritaria” – espressione che potrebbe suonare un po’ ironica se si pensa ad un partito ormai accreditato ben sotto la soglia del 30% – ma che coglie bene la sua ambizione ad una rappresentanza larga della società italiana icasticamente rappresentata dal continuo riferimento agli “interessi generali” e al “bene del Paese” contrapposti agli egoismi individuali di cui Berlusconi si farebbe interprete. Non mi pare che il Pd voglia rinunciare ad accontentare contemporaneamente tutti i soggetti di quel blocco sociale “keynesiano-fordista” di cui parla Pellizzetti (Confindustria in testa), pagando con il prezzo dell’ambiguità e della continua oscillazione l’impossibilità di ricomporre da una posizione di governo i conflitti che all’interno di quel blocco continuano a generarsi.
Ma il Pd in questo modo è incapace anche di parlare a chi dal blocco “keynesiano-fordista” è escluso – e sono una quota sempre crescente della società – proprio perché l’unico aspetto di innovazione e “modernizzazione” che è stato ormai acquisito nel suo patrimonio ideale è la subalternità del politico all’economico così come recepita dall’onda lunga neoliberista che dai lavori di von Hayek passando per la scuola della Public Choice rappresenta un “felice” esempio di rivoluzione conservatrice condotta secondo le indicazioni gramsciane di egemonia culturale che deve precedere e accompagnare la presa del potere.
Pellizzetti auspica un “ritorno a quanto un tempo chiamavamo ‘politica industriale’ come intervento pubblico per accompagnare/guidare sviluppo e coesione sociale”. Sono d’accordissimo con lui. Per questo ho seguito con interesse il dibattito che all’interno della sinistra (ma qui ci si deve intendere con i termini) si è inaugurato agli albori del governo Prodi a partire dalla rivisitazione – necessariamente critica visto il mutamento del quadro – del grande precedente storico degli anni ’60, del primo centrosinistra e della riflessione sulla programmazione che allora vide contributi importantissimi come le Idee per la programmazione economica di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini o la Nota aggiuntiva alla relazione generale sulla situazione economica del Paese presentata alla Camera nel 1962 da Ugo La Malfa.
Le tristi vicende del governo Prodi le conosciamo tutti e la sinistra ha pagato anche con la scomparsa dal Parlamento il totale fallimento del suo tentativo di influenzare quell’azione politica dominata da un’egemonia centrista a guida Pd. Quando si parla di contrapporre un altro blocco sociale a quello berlusconian-temontiano che unisce “lavoro indipendente corporato con la rendita” io immagino che questo tentativo passi per politiche redistributive che, ad esempio, attacchino la rendita e diano qualcosa a chi sta “in basso”. Il Partito democratico nel corso del governo Prodi si è fermamente opposto alla riforma della tassazione delle rendite finanziarie proposta dalla sinistra che voleva riequilibrare le aliquote del 12,5% su dividendi, obbligazioni private superiori ai 18 mesi, capital gain, con quelle ben più alte sugli investimenti produttivi e sui redditi da lavoro (l’aliquota era individuata al 20% come da programma dell’Unione e da standard medi europei). Ci sono segnali di inversione di tendenza su questo? Non mi pare. Ci saranno quando gli andamenti dei mercati finanziari torneranno ad essere compatibili con un intervento in tale direzione? Non credo.
Interventi sui patrimoni, per carità, neanche a parlarne (ricordiamoci che l’abolizione dell’imposta di successione e dell’Ici sulla prima casa attuate dai governi Berlusconi ha seguito le iniziative dei precedenti governi di centrosinistra che tentavano di copiare in questo modo la misura-bandiera della campagna elettorale berlusconiana, aprendogli di fatto la strada della semplice abolizione dei “tetti”).
Sull’irpef Franceschini ha proposto un contributo una tantum di 2 punti per i redditi sopra i 120.000 euro per finanziare un fondo di 500 milioni per le “associazioni di volontariato” e i comuni impegnati nella lotta alla povertà. Ora, non è che si vuole vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, ma sinceramente io non so dare tutti i torti a chi ha paragonato la proposta all’elemosina della Social Card di Tremonti. Su questo punto la proposta del segretario di Rifondazione Paolo Ferrero di un intervento strutturale (e non una tantum) sulla fascia superiore ai 100.000 euro mi sembra più pertinente. Nella prima formulazione della riforma fiscale del 1973 c’erano 32 scaglioni e l’aliquota massima era all’82%. Nessuno pensa di tornare a quel modello, ma aver paura di un intervento strutturale di un paio di punti è forse un eccesso opposto.
Si potrebbe proseguire molto oltre, ma gli esempi mi sembrano sufficienti per capire a cosa alludo. Sono invece totalmente d’accordo con l’affermazione di Pellizzetti secondo cui i “ceti declinano solo se politicamente disarmati/abbandonati”. Ecco perché credo che sia necessaria in Italia darsi da fare per la ricostruzione della sinistra e della rappresentanza del mondo del lavoro. Il lavoro ha perso centralità nelle dinamiche di coagulazione dei diversi “blocchi sociali”? In parte sì, ma colpisce il fatto che il
fantomatico “operaio che vota Lega” è stato la star assoluta del dibattito politico post-elettorale. Ora anche Di Pietro – che negli ultimi mesi si è rivelato assai abile a fiutare dove soffia il vento (non senza una buona dose di trasformismo rispetto alle sue posizioni precedenti) – ha lanciato l’offensiva nelle fabbriche insieme all’ex Fiom Zipponi. Non sarà che la “fine della centralità del lavoro” è una delle tante ideologie all’interno di quell’“onda lunga” di cui parla anche l’amico Pellizzetti?
UN NUOVO CONFLITTO SOCIALE PER REINVENTARE LA DEMOCRAZIA
di Pierfranco Pellizzetti
Una spruzzata di precisazioni:
1. Non ho incontrato Dario Franceschini sulla via di Damasco. Semmai mi è piaciuto un certo cambio di stile comunicativo (quel “clericofascista” a muso duro rivolto a Berlusconi, dopo decenni di manierismi mollicci) e l’aver osato porre (pur sommessamente) il tema della redistribuzione; la discesa in piazza a fianco di CGIL (alla faccia dei furbetti del partitino alla Letta jr. Buon sangue non mente!). La prudente apertura di credito si è immediatamente richiusa alla vista di candidature tipo Cofferati capolista per le europee: purtroppo non cambiano mai;
2. In questo momento terribile per troppi, non mi sento di rifiutare a priori interventi “risarcitori” (come si diceva nel “sindacalese” d’antan). Sicché considero con rispetto soluzioni-tampone da gauche parigina, tipo “salari di cittadinanza” o “secondo assegno”. Tenendo – però – sempre ben presente che trattasi di scelte difensive, non di politiche orientate al futuro;
3. Emilio Carnevali si riferisce al blocco “keynesiano-fordista” come se fosse qualcosa di ancora esistente. Io non lo credo. Ammesso che mai sia esistito in Italia (come keynesianesimo-fordismo venne contrabbandato da Amintore Fanfani &co. il paternalismo/clientelismo DC. E – poi – dove e quando mai abbiamo avuto fabbriche fordiste? Neppure la caserma FIAT…). Di quel “blocco” si parlò nella prima metà degli anni Settanta come “Alleanza dei Produttori”. Ma poi tutto finì lì, anche perché Confindustria comprese presto che il suo posto stava in quel della rendita (e ancora ci sta: hai presente la padana Marcegaglia nella cordata Alitalia?). Il blocco oggi egemone cui penso io è quello del privilegio e dei suoi ascari e famigli (“abbienti e impauriti”);
4. Possiamo intenderci Carnevali e il sottoscritto, ma sapendo che le nostre matrici culturali sono diverse. A lui definire le sue, io mi dichiaro “liberale piemontese” (una categoria dello spirito). Ricordando – tuttavia – che Piero Gobetti poteva scrivere tranquillamente su l’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci;
5. Questo dibattito è a futura memoria. Intanto ce lo facciamo tra di noi, visto che la vigente politica/politicante nelle sue varie declinazioni e geografie è del tutto refrattaria (antropologicamente, prima ancora che culturalmente) a una riflessione analitico/strategica che parta dal sociale e si innesti nelle dinamiche della trasformazione.
Ciò detto veniamo al punto, in estrema sintesi:
le premesse del mio ragionamento sono due; e sempre da “liberale piemontese”: la centralità del conflitto (riaggiornando le einaudiane “lotte del lavoro”), le coalizioni di interessi orientati al cambiamento come motore per la conquista della Giustizia e della Libertà (riaggiornando la gobettiana alleanza tra “aristocrazie operaie e aristocrazie borghesi”).
Non usciamo da questa morta gora senza la ripresa dell’antagonismo. Il problema è capire su quale terreno andare a confliggere. Il controllo della produzione capitalistica (suvvia…) o le logiche stesse del Capitalismo, nella sua “stagione d’autunno” annunciata dalla finanziarizzazione?
Dubito ci sia molta tela da tessere come invenzione di futuro restando dentro il paradigma dominante, magari trovando fonti energetiche sostitutive (egualmente a basso costo e facilmente disponibili quanto i combustibili fossili: una pia illusione) e – così – perseverare nella dissipazione. Lo scontro – sempre a mio avviso – riguarda l’organizzazione della società, a partire da uno stile di consumo, dominante nel “secolo americano”, che non è riproponibile all’infinito.
Dunque, la proposta di una società più sobria, che sposti il proprio baricentro dalle opzioni individuali alla produzione di beni pubblici (e sempre più accessibili).
Difficilissimo? Più che probabile, ma l’alternativa è la catastrofe!
Immanuel Wallerstein parla di “mondo Puerto Alegre” vs. “mondo Davos”. Direi che già nella più casereccia Unione europea questi temi comincino a trovare cittadinanza. Un dibattito totalmente rimosso dalle nostre parti. Ma dibattito che deve radicarsi nel consenso, negli interessi. Che io sloganizzo come istanze di donne e uomini “concreti”, orientati/orientabili alla riappropriazione del proprio futuro.
Se proseguissimo in questo ragionamento appena abbozzato (a misura del medium che ci ospita), forse scopriremmo che i gruppi sociali che abbiamo etichettato come “declinanti” (in primis il “proletariato informatico” e la “mentedopera”) non risulterebbero più tali. E quelli che oggi ci appaiono “dominanti” potrebbero rivelarsi al capolinea. Nel calore di lotte che neppure sono all’orizzonte, innescate da politiche ipotetiche, che fungessero da levatrice di una società in trasformazione.
Reinventando democrazia.
(16 aprile 2009)
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