La solitudine del potere. In margine al film “J. Edgar” di Clint Eastwood
Umberto Curi
1. “E se avessi sbagliato tutto?”. Chissà quante volte è accaduto, a ciascuno di noi, di porci un interrogativo di questo genere. Quante volte, ripensando ad alcune scelte compiute in passato, siamo stati assaliti dal dubbio di avere intrapreso la strada meno opportuna o meno vantaggiosa. E quante volte ci siamo domandati quale corso avrebbe potuto assumere la nostra vita, se in alcuni momenti di svolta avessimo deciso in maniera diversa. In qualunque fase dell’esistenza si manifesti una simile problematica, è inevitabile che essa sia sempre accompagnata da malessere e perfino da angoscia.
Ma quando tutto ciò interviene quando si sia vicini al crepuscolo dei nostri giorni, quando già si intraveda il punto di arrivo del percorso che ci è stato assegnato, allora il dubbio diventa davvero lancinante. Perché, giunti a quel passaggio, non è più possibile alcun rimedio, nessuna rettifica può essere tentata, nessun aggiustamento può essere immaginato. L’interrogativo può assumere la forma di una certezza raggelante: mi accorgo di aver sbagliato, proprio nel momento in cui mi avvedo di non poter più modificare nulla. E dunque mi sento schiacciato dal peso di una vita intera sprecata o comunque spesa malamente.
Da una decina di anni, realizzando l’una dopo l’altra una serie di opere cinematografiche letteralmente una migliore dell’altra, Clint Eastwood “lavora” su questo interrogativo, conferisce forma a questo dubbio. E lo fa coinvolgendo intellettualmente ed emotivamente lo spettatore in un travaglio carico di pathos e privo di artificiosi sbocchi consolatori. Superata la soglia degli ottant’anni, il cineasta americano passa in rassegna il lavoro svolto in decenni di carriera, si misura con i personaggi a cui ha dato vita, si rimette radicalmente e coraggiosamente in questione.
Per un lungo periodo, egli è stato il “texano dagli occhi di ghiaccio”, il pistolero dalla mira infallibile e privo di ogni scrupolo, insensibile ad ogni sentimento di umana pietà, intangibile nel gelido autocontrollo dei propri nervi, attento soltanto a non sbagliare il colpo. Per ancora molti anni, egli si è identificato con l’Ispettore Callaghan, insofferente dei vincoli della legge, pronto a farsi giustizia da sé, marmoreamente convinto di poter distinguere con sicurezza fra il bene e il male, inflessibile persecutore dei malvagi, ai quali riserva una punizione esemplare. L’uno e l’altro – il pistolero e l’Ispettore – mai neppure sfiorati dal dubbio, mai toccati dal sospetto di essersi ingannati, mai impacciati nel loro incedere dall’incertezza di chi riconosca la temerarietà del giudizio.
Per anni, attraverso i suoi personaggi, ma anche mediante la regia in prima persona di alcune opere cinematografiche, Eastwood ha proposto una vera e propria visione del mondo, basata sul culto di alcuni valori incrollabili – patria, coraggio, giustizia, libertà – al cui servizio egli poneva le risorse di un sicuro talento di attore e di autore. Con l’idea che queste idealità dovessero essere affermate al di là di ogni possibile riserva mentale, che dovessero essere sovraordinate a qualunque altra esigenza, che dovessero essere imposte anche a costo di andare oltre ciò che la legge positiva consente. Una sorta di generalizzazione del motto secondo cui il fine giustifica i mezzi – dove il fine era la salvaguardia del valore supremo rappresentato dall’american way of life, mentre i mezzi potevano anche coincidere con la carabina del texano o la Magnum di Callaghan. “E se avessi sbagliato tutto?”. Valicata la soglia degli ottant’anni, Eastwood mette in scena un travaglio che non è solo artistico, ma che è anche esistenziale, nel quale egli oggettiva il tormento di un dubbio profondamente vissuto.
Era già accaduto con “Gran Torino”, nella memorabile sequenza conclusiva, nella quale allo spietato vendicatore dei torti e delle offese del passato subentra l’immagine di un Cristo che si immola per il riscatto dell’umanità. Dove la spirale del sangue che chiama altro sangue è sostituita dall’oblazione di un sangue destinato a sostituire l’odio con l’amore universale. Si è riproposto con i film dedicati alla guerra degli Stati Uniti contro il Giappone, dove l’unilateralità patriottica di tante celebrazioni hollywoodiane è soppiantata da uno sguardo più attento all’umanità dolente di coloro che sono coinvolti nelle atrocità della guerra, indipendentemente dal colore delle bandiere sotto cui militano. E’ ritornato perfino nel film dedicato a Nelson Mandela, nell’attenzione rivolta alla dimensione intimistica del ricordo di decenni di prigione, piuttosto che all’esaltazione encomiastica della vittoria finalmente conseguita. Ricompare, infine, in maniera ancor più compiuta nel film dedicato alla figura di J. Edgar Hoover.
Come suggeriscono con grande incisività le immagini conclusive (il richiamo, nient’affatto estrinseco, all’epilogo di “Citizen Kane” di Orson Welles e di “Sunset Boulevard” di Billy Wilder è emblematico), dopo aver dedicato la sua intera vita alla difesa intransigente della sua patria, e all’affermazione dei valori ad essa connessi, Hoover-Eastwood è assalito dal dubbio: “e se avessi sbagliato tutto?”. Forse, a dispetto della sincerità dell’impegno e della rettitudine delle intenzioni, quella vita è stata spesa male. Le scelte compiute, pur nella perfetta buona fede, si rivelano ora, giunti al rendiconto finale, incoerenti o negative. La macchina da presa indugia su alcuni particolari apparentemente irrilevanti, capaci tuttavia di evocare il senso del deterioramento e della corruzione prima ancora che compaia il corpo riverso del protagonista. Tutto, in quella stanza, restituisce l’alito pesante della morte: la penombra diffusa, le foto d’epoca ingiallite, l’inutile enfasi di cimeli e ornamenti, la pesantezza degli arredi. Immune da malattie conclamate, Hoover muore consumato da quel dubbio. Dalla consapevolezza – resa plasticamente nella scena successiva dall’irruzione brutale degli emissari di Nixon nel suo ufficio – di potersi ergere come custode di valori, da lui stesso in realtà contraddetti e calpestati. Muore, perché intuisce quale sia la risposta che dovrebbe dare alla domanda. “e se avessi sbagliato tutto?”.
2. Ma, pur essendo centrale e per molti aspetti predominante, la tematica alla quale ci si è finora riferiti non è l’unica presente in questa recente opera di Eastwood. A questa sorta di “meditazione sulla soglia”, ricorrente anche nel film precedente, il (per molti aspetti) meno riuscito “Hereafter”, si accompagna infatti anche una riflessione almeno altrettanto disincantata relativa alla natura del potere, e più ancora alla solitudine che è inseparabile dall’esistenza di colui che si trovi ad esercitarlo concretamente. Qui i riferimenti a due opere in precedenza già citate diventano ancor più stringenti. Da un lato, Edgar Hoover assomiglia molto, perfino dal punto di vista fisiognomico, al protagonista del capolavoro di Orson Welles. Come Charles Kane, incapace di amare “se non alle sue condizioni”, incline ad assumere l’amore come un possesso, più che come un dono, anche Edgar concepisce e pratica le sue relazioni affettive (con la madre, con la segretaria, con l’amico-amante Clyde) in maniera del tutto particolare.
Egli stesso riconosce l
’intima contraddittorietà del suo approccio, riassumibile in una formula estremamente eloquente: “io uccido ciò che amo”. E come il magnate della stampa raffigurato nell’opera di Welles, anche il personaggio descritto da Eastwood finisce per fare il vuoto intorno a sé, giungendo al compimento della sua vita abbandonato da tutti. Dall’altro lato, il legame con il film dedicato da Eastwood a tratteggiare la personalità di Nelson Mandela emerge con evidenza proprio in rapporto al comune destino a cui vanno incontro il leader sudafricano e il direttore dell’Agenzia americana. Una solitudine irrimediabile, non dipendente da motivi estrinseci o da fattori comunque contingenti, ma piuttosto conseguenza ineliminabile della posizione di chi si trovi ad esercitare il potere.
Emerge, a questo riguardo, uno degli aspetti più interessanti della ricerca svolta dal cineasta statunitense nel corso dell’ultimo decennio. Anziché inoltrarsi impropriamente in una trattazione astratta del tema del potere, Eastwood ne scruta la morfologia – e le pressochè inevitabili degenerazioni patologiche – attraverso il modo in cui esse si presentano nelle vicende di singoli personaggi, ciascuno dei quali abbia avuto la possibilità di compiere questa peculiare esperienza.
Già in alcune opere precedenti, infatti, in particolare in “Abuso di potere” (1997) e nel dittico sulla guerra nippo-americana (“Flags of our fathers” e “Letters from Jvo Jima”, entrambi del 2006), l’attenzione del regista si era concentrata sulle insanabili contraddizioni rilevabili nel comportamento di personalità investite del massimo potere, sullo scarto fra l’apparenza di una intangibile onorabilità pubblica, e la realtà deprimente di una spesso miserabile sostanza umana. Ma l’aspetto più originale, oltre che più convincente, di questo modo di affrontare il problema del potere può essere individuato nell’assenza di ogni moralismo, a cui si sostituisce una lucida rappresentazione dei processi di oggettiva corruzione ai quali è intrinsecamente esposto l’esercizio del potere in quanto tale.
Come risulta ad esempio limpidamente in “Edgar”, la questione non ha nulla a che vedere con gli ipotetici limiti “soggettivi”, o con gli eventuali “vizi”, del protagonista, quanto piuttosto con la natura del potere in quanto tale. Mano a mano che cresce e si consolida, fino a configurarsi sempre di più come absolutus, e dunque “sciolto” da ogni possibile condizionamento, il potere di Hoover, tanto più proporzionalmente aumenta la quota di arbitrio, di prevaricazione, di prepotenza nel modo in cui esso viene esercitato. Uso e abuso del potere sono una cosa sola, formano un binomio di fatto indissolubile. Quanto maggiore è l’influenza del Direttore dell’Agenzia nella vita interna degli Stati Uniti, tanto più grande è l’iniquità con la quale egli esercita questa prerogativa, alimentata da una sorta di delirio anticomunista, dalla nevrosi di un nemico costantemente in agguato, pronto a violare proditoriamente l’innocente illibatezza del popolo americano. E dunque non si tratta affatto, nella prospettiva delineata da Eastwood, di giudicare la bontà delle “intenzioni”, o di valutare i propositi con i quali si gestiscono le posizioni di comando.
Quali che siano le finalità da ciascuno sinceramente perseguite, intimamente corrotto e corruttore è il potere in quanto tale, la forza demoniaca che in esso si esprime, la carica irriducibilmente malefica in esso incarnata. Da questo punto di vista, non hanno alcun rilievo, né fanno alcuna reale differenza, la specifica personalità, o le nevrosi, di colui che per oltre quarant’anni ha ricoperto il ruolo di Direttore dell’FBI. Insiti nel potere in quanto tale, nella dynamis che gli è propria, sono quelle che solo superficialmente possono apparire come de-generazioni, e che invece al potere sono letteralmente con-generi, con esso nascono e con esso crescono e si riproducono.
Si comprende, allora, per quali motivi di fondo Edgar non possa che morire nel modo descritto dal film. Abbandonato o respinto dai suoi affetti più cari, tormentato dal dubbio di aver sbagliato tutto, sfinito da una lotta pluridecennale, della quale ora non riesce più a comprendere le ragioni. Solo. Esausto. Lacerato da interrogativi senza risposta. Quel corpo seminudo riverso sul pavimento, già nella sua scomposta oscenità, suggella la vicenda esistenziale di chi aveva creduto di poter infallibilmente distinguere il bene dal male, i buoni dai reprobi, sanzionando questi e salvaguardando quelli. E che, sul finire della sua travagliata esperienza, si trova ad affrontare, in solitudine, la prospettiva devastante di chi si avveda di aver sbagliato tutto.
(11 gennaio 2012)
Condividi | |
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.