Il trucco della “sussidiarietà” per privatizzare (e clericalizzare) pezzi dello Stato sociale
Giancarlo Straini
Il principio di sussidiarietà è usato molto frequentemente in ambito politico e giuridico, ma con molti e diversi significati. Per Sabino Cassese è un principio “ambiguo, con almeno trenta diversi significati, programma, formula magica, alibi, mito, epitome della confusione, foglia di fico” (1995).
Alcuni ne cercano le radici, con molta disinvoltura, nel pensiero classico, in Aristotele e Tommaso d’Aquino, quasi fosse un principio “naturale” e universale, però intendendolo genericamente come un aspetto (comunitarista) della dialettica centro-periferia, inevitabile in ogni organizzazione complessa.
In realtà il concetto è nato e si è sviluppato nel XIX secolo, in relazione alle limitazioni del potere temporale della chiesa cattolica determinate dalla modernità, dall’Illuminismo, dalla formazione degli stati nazionali.
La prima reazione della chiesa alla formazione del Regno d’Italia è stata una contrapposizione frontale allo Stato liberale, un’indicazione di estraneità (“né eletti, né elettori”), uno sdegnoso non expedit (“non conviene partecipare”).
Poi è iniziata una lenta elaborazione del lutto per la perdita del potere temporale, fino al tardivo riconoscimento del “disegno della Provvidenza” che avrebbe liberato la chiesa da tali incombenze, come in la volpe e l’uva di Esopo.
Per ritornare in campo la chiesa cattolica ha dovuto ripartire “dal basso”, con la sua dottrina sociale e la sussidiarietà.
La prima elaborazione del principio di sussidiarietà risale a Von Ketteler, vescovo di Magonza, che intorno al 1873 riconobbe che i privati e le famiglie non erano sempre in condizione di garantire l’istruzione scolastica resa necessaria dallo sviluppo sociale e industriale, tuttavia l’intervento dello Stato avrebbe dovuto limitarsi ai casi in cui privati, famiglie e comunità non fossero riusciti a garantirla.
Von Ketteler ispirò l’enciclica Rerum novarum (1891) di Leone XIII; il concetto è stato ripreso da tutti i papi, in particolare nelle encicliche Quadragesimo anno (1931) di Pio XI e Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II.
In quest’ultima possiamo leggere che “una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità”.
Il principio di sussidiarietà esprime un orientamento antistatalista (sussidiarietà negativa) ma non contrario, anzi alla ricerca dei sussidi dello Stato (sussidiarietà positiva), diversamente dal principio di sovranità delle sfere di matrice calvinista, che esclude ogni forma di sostegno da parte dello Stato.
La chiesa cattolica resta centralista ma pretende che tutte le altre forme organizzate si basino sul principio di sussidiarietà (si potrebbe dire, con una battuta, che è per la sussidiarietà ma solo con i sussidi degli altri).
In altri termini, il principio di sussidiarietà – come ci dice Cassese – è ambiguo e polisemico, quindi si adatta al contesto, pur mantenendo il suo significato originario antimoderno e controrivoluzionario, elaborato in contrapposizione all’Illuminismo e al pensiero liberale e socialista che ne discendono, per contendere loro l’egemonia sulle masse.
Le accentuazioni si spiegano con il contesto: per esempio nella Quadragesimo anno di Pio XI del 1931 si può riscontrare una sottolineatura della componente negativa della sussidiarietà (difesa dall’ingerenza dello Stato), rispetto a quella positiva (rivendicazione del suo sostegno).
Effettivamente il regime fascista aveva distrutto tutte le associazioni degli altri orientamenti per poi inglobarle e promuoverle come istituzioni dello Stato fascista (vedi l’OND, Opera Nazionale Dopolavoro, ecc.) per fascistizzare gli italiani e creare l’”uomo nuovo”. Erano rimaste autonome solo alcune associazioni cattoliche, frutto del riconoscimento reciproco sancito nei Patti Lateranensi del 1929 (analogamente nel Concordato con i nazisti del 1933), ma in Vaticano restava la preoccupazione che il proprio “totalitarismo” venisse schiacciato da quello della politica.
Nel secondo dopoguerra – dopo avere “ereditato” gran parte del patrimonio dell’associazionismo fascista, non dovendo ricostruire da zero la propria presenza sociale e potendo godere del favore della DC – la chiesa ha posto l’accento sulla sussidiarietà positiva (sul sostegno da parte dello Stato), che verrà poi ampiamente utilizzato per privatizzare la sanità (convenzionata) e la scuola (paritaria).
La riscrittura del Titolo V della Costituzione (1999 e 2001) con l’introduzione del principio di sussidiarietà e le varie norme che hanno obbligato gli enti locali a esternalizzare molte funzioni, sono una ferita per la laicità dello Stato, forse meno evidente ma non meno grave.
Non è questa la sede per esaminare l’uso del concetto di sussidiarietà nell’ambito giuridico, se non per ricordare che viene citato spesso ma interpretato diversamente – vedi ancora Cassese – a causa della sua “astrattezza”, talvolta addirittura rovesciandone le finalità.
Nel trattato che istituisce la Comunità Europea (1957) nell’art. 5 (ex 3B) c’è scritto che la CE “interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.
Tale concetto di sussidiarietà verticale (sostituzione del livello superiore con quello inferiore) è ripreso nel Trattato di Maastricht del 1992, ma non si caratterizzerebbe come un criterio formale di ripartizione delle competenze, bensì come un criterio “liquido”, “elastico”, come una giustificazione ex post delle competenze attribuite. E l’esperienza ci ha mostrato che è stato usato sia per decentrare che per accentrare.
Analogamente in Italia, la modifica del Titolo V del 2001 ha costituzionalizzato la sussidiarietà, ma la Corte Costituzionale l’ha interpretata bilanciando il principio di promozione delle autonomie locali con quello dell’unità e indivisibilità della Repubblica, invitando a una “leale collaborazione” tra Enti, quando è prevista la “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni.
Tornando alle considerazioni sulle conseguenze pratiche nell’uso del principio di sussidiarietà in relazione al contesto, dalla fine degli anni ‘70 – a seguito della presunta crisi fiscale dello Stato che avrebbe reso insostenibile il welfare pubblico – è stata promossa la sussidiarietà orizzontale (la sostituzione del pubblico con il privato) tramite il sostegno al Terzo Settore.
Il Terzo Settore (non profit), vede una grande presenza di associazioni cattoliche (Caritas, Acli, ecc.) e raccoglie aspetti nobili e meno nobili. Il settore è stato spesso utilizzato anche per erodere il welfare pubblico, per privatizzare sanità, istruzione ed assistenza, per precarizzare il l
avoro.
Alcune associazioni sono intervenute e continuano a farlo per affermare la laicità e i diritti universali (come è avvenuto nelle battaglie per divorzio, aborto, libertà sessuali, ecc.).
Molte altre, invece, si fondano sulla logica premoderna della carità. Diversamente dalla solidarietà che presuppone l’uguaglianza dei soggetti che lottano insieme per i diritti di tutti, la carità è una relazione gerarchica, che conferma l’asimmetria di potere, è strumentale, consolatoria e paternalista.
Su questo terreno si assiste a una convergenza oggettiva tra il neoliberismo compassionevole e la carità cristiana, entrambi antiegualitari e antistatalisti (per uno Stato minimo), sia pure con analisi e finalità diverse. Non a caso vari studiosi cattolici (Luca Diotallevi, Mauro Magatti, ecc.) – nell’osservare l’indebolimento dello Stato nazionale a seguito della seconda globalizzazione di fine secolo scorso – prospettano un ruolo “da multinazionale” per il Vaticano.
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