La tomba di Pandora. I cimiteri per i feti e la criminalizzazione dell’aborto

Adele Orioli

Il caso del cimitero per i feti è in questi giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Uno scandalo più che giustificato, se non dovuto. Meno giustificato è invece lo stupore di tutti quegli amministratori, funzionari, dirigenti e politici che di questo sistema sono testimoni, quando non diretti fautori, da almeno trent’anni. È tempo di un cambio di rotta. In gioco c’è ancora una volta l’autodeterminazione delle donne.

Da un semplice per quanto emozionalmente denso post su Facebook è partito lo scandalo che occupa intere colonne sui principali quotidiani di questi ultimi due giorni. I cimiteri per feti e, in soprammercato proprio per non farci mancare nulla, le sepolture non richieste ma per nulla anonime.

Scandalo, dicevamo, stupore e sconcerto. Reazione normale, anzi per fortuna ancora accorata e dovuta in questi tempi davvero non facili per l’autodeterminazione femminile (notizia di ieri sera, l’inversione di rotta dell’Aifa che ritorna a imporre l’obbligo di prescrizione medica non ripetibile della cosiddetta pillola del giorno dopo, il Norlevo, anche per le maggiorenni).

Un po’ meno normale ci sembra il cascar dal pero di tutti quegli amministratori, funzionari, dirigenti e politici che di questo sistema testimoni, quando non diretti fautori, lo sono da almeno trent’anni.

Da molti a dir la verità è stato indicato come normativamente colpevole un regio decreto, il 1238 del 1939, quasi a voler evocare il “solito” relitto fascista sul quale il legislatore si è “dimenticato” di intervenire. Il tutto in una dimensione deresponsabilizzante dell’amministrazione, in questo caso capitolina, che farebbe ridere se non affondasse più di un coltello in più di una piaga.

In realtà il regio decreto di cui sopra nel disciplinare i registri di stato civile si occupa solo dei feti espulsi oltre la 28esima settimana di gestazione (ultimo trimestre di gravidanza, settimo mese, grosso modo). Che, secondo regio decreto appunto, vanno considerati nati-morti e quindi con obbligo di apposizione del nome e di registrazione all’anagrafe.

Ma la disciplina che prevede la sepoltura su richiesta della famiglia, o comunque su richiesta dell’Asl/Comune, anche per i feti tra la 20esima e 28 settimana (non dichiarati nati morti) è il Decreto del Presidente della Repubblica n. 285 del 1990. Che aggiunge una ulteriore novità, precedentemente non contemplata: la possibilità di richiedere la sepoltura anche per quelli inferiori alla 20esima settimana, fino a quel momento considerati rifiuti ospedalieri e avviati tutti alla termovalorizzazione. Regolamento questo comunque già anticipato da una circolare dell’allora ministro della Salute Donat-Cattin: “Il seppellimento – si legge – deve di regola avvenire anche in assenza di richiesta dei genitori, posto che lo smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali urta contro i princìpi dell’etica comune”. Quale sarebbe l’etica comune che prevede ad esempio la possibilità di cremazione per le "parti anatomiche riconoscibili" ma il solo seppellimento in tumulazione (singola, sopra le 20 settimane) per i prodotti abortivi sembra già piuttosto chiaro. Così come è già piuttosto chiara la volontà di invertire l’oggetto e soggetto di tutela nell’interruzione di gravidanza, volontaria, terapeutica o spontanea che sia, e cioè la donna, i suoi diritti e il diritto a esercitarli.

Il direttore del San Camillo, nosocomio romano finito nella bufera per il caso di questi giorni, se la prende proprio con questo regolamento di polizia mortuaria e scarica il barile sulla gestione dei cimiteri, ritenendo necessario “attualizzare una normativa vecchia di trent’anni, che necessita di una modernizzazione capace di accogliere sensibilità diverse da quelle dell’epoca”. Nel 1990 la legge 194 però esisteva eccome: è dal 1978 che esiste e resiste (e incrociamo laicamente le dita per il futuro).

A ogni modo, non è nemmeno a 30 anni fa che dobbiamo guardare se vogliamo comprendere a fondo il caso specifico ma soprattutto la penosa situazione generale in tema di diritti delle donne. Perché regioni e comuni, dagli inizi del 2000, hanno ulteriormente collaborato ad aggravare la già pesante aura di criminalizzazione dell’aborto che questa normativa portava in via generale. Apripista la giunta Formigoni in Lombardia, seguita da piccoli e grandi comuni, si inaugurano via via veri e propri cimiteri per bambini mai nati, in alcuni casi all’interno di aree già esistenti, in altri approntati ex novo con cospicui finanziamenti. I giardini degli angeli, vengono chiamati. Giusto per far capire subito di cosa e di come se ne parla. Ma si fa molto di più. Si stabiliscono convenzioni con associazioni private (Difendiamo la Vita con Maria la più diffusa) che passano di ospedale (pubblico) in ospedale (sempre pubblico) a ritirare i rifiuti ospedalieri, cioè i prodotti abortivi inferiori alle 20 settimane non reclamati, e li seppelliscono con messa in suffragio, in alcuni casi previo battesimo. Agghiacciante. Violento. Con implicazioni bioetiche da riempire centinaia di pagine. E persino fuori di pandemia con implicazioni igieniche non indifferenti. Eppure possibile, permesso e anzi incoraggiato dalle stesse nostre amministrazioni.

E dove non intervengono i privati, ci pensa il pubblico: come nel caso di questi giorni, se il feto tra le 20 e le 28 settimane non viene reclamato, la Asl chiama l’Ama, l’azienda municipalizzata della nettezza urbana, che si incarica della sepoltura. Sotto una croce con il nome utilizzato per autorizzare il trasporto, cioè quello della madre. Più realisti del re, più colpevolizzanti del papa. Perché? Perché la croce è consuetudine salvo differente richiesta. E chi la dovrebbe fare, questa differente richiesta, se la famiglia ha rinunciato? Peraltro da dove derivi questa consuetudine nessuno sembrerebbe saperlo, ma è in realtà online sul sito dell’Ama. Le sepolture in beneficenza, cioè a spese del Comune, sono convenzionate esclusivamente con la Caritas diocesana e la Comunità di Sant’Egidio. (En passant, attenzione quindi a Roma se si è poveri a morire anche della religione giusta o il funerale non te lo fa nessuno). Il nome della madre, preso dai documenti per il trasporto forniti dagli ospedali, servirebbe per identificare la tomba nel caso qualcuno volesse ritrovarla. O sapere chi e quando ha abortito, se si avessero di queste necrofile curiosità. Alla faccia della privacy, alla faccia del diritto all’oblio, alla faccia del diritto all’aborto. L’alternativa è occuparsi personalmente della obbligatoria inumazione, previo trasporto anche qui obbligatoriamente con carro funebre. Insomma, il diritto alla riservatezza solo se a pagamento. E le donne ringraziano.


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Nelle altre città la situazione è molto simile, se non peggiore, come a Marsala dove è stato istituito addirittura un registro per i bambini mai nati. E anche se adesso finalmente il Garante della privacy ha aperto un’istruttoria, solo e già a Torino furono modificate le disposizioni del cimitero monumentale nel 2015 proprio a seguito di un caso simile a quello che tanto clamore ha suscitato. Clamore che però speriamo non si fermi alla capitale e alla, per quanto fondamentale, questione della riservatezza. Perché ora è quanto mai necessario un ripensamento globale e collettivo di una visione, anche legislativa, che proprio negli ultimi anni ha visto rafforzata la presenza di filoni integralisti pienamente partecipi della sussidiarietà pubblica, una visione che mira al progressivo e sistematico svuotamento della legge 194, in varie forme. E seppellire grumi di cellule contro la volontà della donna che le ha prodotte è senza dubbio una fra queste. È necessario che uno Stato che si dice laico e che riconosce il diritto all’autodeterminazione delle donne ponga in primo piano il loro, e soltanto il loro, diritto alla salute psicofisica. Che indubbiamente può includere la scelta, che a molti sembra inutilmente macabra, di fornire sepoltura al prodotto abortivo. Ma nel momento stesso in cui è un soggetto terzo, purtroppo pubblico o confessionalista che sia, ad arrogarsi il diritto di decidere per la donna stessa, le istituzioni si rendono complici e responsabili dell’annichilimento di qualsivoglia libertà di coscienza sotto una cappa di oscurantismo patriarcale negazionista in radice dell’autodeterminazione femminile.

Ben venga quindi questa tomba di Pandora: che sia foriera di altri scoperchiamenti e di decisi cambi di rotta.

(1 ottobre 2020)




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