La trappola ideologica del debito, uno strumento di dominio
Marco Bersani
L’enfasi sul debito pubblico non mira alla stabilità finanziaria dei paesi, bensì ad impedire politiche di spesa che contrastino l’ideologia dell’austerità e a favorire deregolamentazione del lavoro, privatizzazione dei servizi pubblici e sottrazione di democrazia. Pubblichiamo la prefazione di Marco Bersani al volume “Il sistema. Storia del debito sovrano e del suo ripudio” di Eric Toussaint, in questi giorni in libreria per Bordeaux edizioni.
Non solo per la statura intellettuale di chi lo ha scritto – Eric Toussaint, presidente di Cadtm internazionale, è forse il maggior esperto esistente in tema di debito pubblico – ma, soprattutto perché, dentro la ricostruzione dettagliata – e politica – del debito come strumento di dominio raccontata da Toussaint, il lettore italiano non farà fatica a ‘sentire aria di casa’ e a riconoscere l’attualità della condizione del nostro Paese.
L’Italia è uno dei Paesi con il più alto debito pubblico in senso assoluto (2318 mld a fine 2018) e tra i primi nel rapporto debito/Pil (132,1% a fine 2018).
Dati che potrebbero essere letti da diversi punti di vista, ma che, dall’agosto 2011 ad oggi, sono stati sottoposti all’unica chiave di lettura del pensiero dominante, che, su di essi, ha costruito la trappola ideologica del debito.
Da questo punto di vista, è illuminante la ricerca “Crisi economica e austerità. L’economia dello scarico civico”[1], realizzata dai Dipartimenti di Filosofia, Pedagogia, Psicologia dell’Università di Verona e di Padova, che ha esaminato il senso pubblico della crisi, attraverso l’analisi dei maggiori media ‘mainstream’, selezionando un campione di 922 articoli dei quotidiani ‘Il Corriere della Sera’, ‘La Repubblica’ e ‘La Stampa’, negi anni 2011, 2012, 2013.
La ricerca fa emergere l’uso sistematico di cornici metaforiche e la conseguente manipolazione delle emozioni collettive.
La prima metafora utilizzata è quella della catastrofe naturale, ovvero della crisi del debito raccontata come un’emergenza nazionale, causata da un evento catastrofico, che ha colpito tutta l’Italia senza eccezioni e senza precedenti. In questo caso, il messaggio mira alla socializzazione della responsabilità sul debito, che tutti i cittadini dovranno assumere su di sé, e, contemporaneamente, deresponsabilizza i politici dal prendersi l’onere per quello che è successo.
La seconda metafora ricorre al linguaggio medico, descrivendo il Paese come un paziente gravemente malato, bisognoso di cure ‘forti’ perché rischia la morte. In questo caso, il messaggio instilla l’idea che la guarigione del Paese malato, così come quando si è di fronte ad una grave patologia individuale, va affidata agli esperti, i quali, grazie al loro sapere tecnico, sono gli unici in grado di poter intervenire.
Se analizziamo dal punto di vista storico il debito pubblico italiano, si nota la grande discontinuità nel rapporto debito/pil, avvenuta nel periodo 1981-1994, quando la relazione schizza dal 58,46 al 121,84%.
Secondo la narrazione dominante, dovremmo dedurre che, in quel periodo, vi sia stato un fortissimo aumento della spesa pubblica. Peccato che i dati dimostrino il contrario: al netto della spesa per gli interessi sul debito, la spesa pubblica italiana è passata dal 42,1% del Pil nel 1984 al 42,9% nel 1994, ben al di sotto, sia in senso assoluto che relativo, alla spesa media dei paesi Ue (dal 45,5 al 46,6%) e a quella dell’eurozona (dal 46,7 al 47,7%).
Se a questo aggiungiamo che, dal 1990 ad oggi, il bilancio italiano si è chiuso 26 anni su 28 in avanzo primario (entrate superiori alle uscite, sempre al netto della spesa per gli interessi), la conclusione è evidente: non è l’eccesso di spesa pubblica la causa dell’alto debito.
In tutt’altra direzione andrebbero ricercate le cause. Una delle quali è legata ai processi di privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, dettati, dagli anni ’70 dalla dottrina neoliberale, che hanno trasformato il sistema valutario, da organizzato e ‘sicuro’, in un momdo senza certezze, nelle mani del libero fluttuare dei capitali. È frutto di questi processi, il divorzio (avvenuto per l’appunto nel 1981) della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, una delle concause del raddoppio del debito pubblico italiano.
Una seconda causa è stata dimostrata da uno studio prodotto da Cadtm Italia[2], che ha rilevato come la perdita di progressività della fiscalità nazionale, dal 1974 ad oggi, abbia ridotto drasticamente i prelievi sui redditi più alti, causando una diminuzione delle entrate pari a 146 mld di euro, cifra per colmare la quale, lo Stato è ricorso all’indebitamento, con un aggravio dei propri bilanci, in virtù degli interessi composti, di un maggior debito pari a 295 mld (13% di tutto il debito pubblico accumulato).
Un ulteriore quesito rende evidente la trappola del debito: perché nei vincoli dell’Unione Europea, per determinare lo stato di salute finanziaria di un paese, si ricorre al solo parametro del debito pubblico? Logica vorrebbe che si considerasse il debito complessivo di tutti gli attori che operano nel sistema economico: oltre allo Stato, le famiglie, le imprese e le banche.
Se lo si facesse, si scoprirebbe che l’Italia, con il suo indebitamento complessivo pari al 265% del Pil, è uno dei paesi più virtuosi, con valori appena poco superiori a quelli della Germania e decisamente migliori di quelli di Francia (304%) e Gran Bretagna (281%)[3].
Da qualsiasi punto si affronti il tema, quanto detto rende evidente come l’enfasi sul debito pubblico non miri alla stabilità finanziaria dei paesi, bensì ad impedire agli stessi di adottare politiche di spesa che contrastino l’ideologia dell’austerità, e a imbrigliarne le scelte per favorire la deregolamentazione del lavoro, la mercificazione dei beni comuni, la privatizzazione dei servizi pubblici e la sottrazione di democrazia.
Come dimostra ampiamente il libro di Toussaint, il debito è un rapporto di potere che si prefigge estrazione di valore (il pagamento degli interessi) e dominio sull’assogettato, determinandone le scelte e obbligandolo alla rassegnazione.
L’uscita dalla trappola del debito è dunque una battaglia fondamentale per riaprire l’orizzonte di una società diversa.
Ed è tanto più necessaria in questi tempi, nei quali, il combinato disposto di una interiorizzazione della dottrina neoliberale, da parte delle formazioni politiche della sinistra, e della frustrazione prodotta dalle condizioni di vita, imposte dalle politiche di austerità, ha prodotto una canalizzazione della rabbia verso forze reazionarie e razziste che, in Italia e non solo, hanno raggiunto il governo e stanno pervadendo i rapporti sociali.
Perché senza una radicale messa in discussione della premessa ‘c’è il debito, non ci sono i soldi’, nessun doveroso richiamo all’antifascismo e all’antirazzismo potrà arginare chi fa conseguire l’affermazione ‘se i soldi non ci sono, prima gli italiani’.
In questi tempi complessi, c’è bisogno di capire e di agire. Quello che vi apprestate a leggere è un libro prezioso in entrambe le direzioni.
[1] M. Menegatto, A. Zamperini, Crisi economica e austerità. L’economia dello scarico civico, in Il seme e l’albero, Rivista di scienze sociali, psicologia applicata e politiche di comunità, Vol. 1 2015
[2] R. Artifoni, A. De Lellis, F. Gesualdi, Fisco & debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, http://italia.cadtm.org/wp-content/uploads/2018/10/Fisco-Debito1-1.pdf
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