La Tunisia, i salafiti e i complici inconsapevoli dello “scontro di civiltà”
Annamaria Rivera
Il 16 settembre, a Sfax, in Tunisia, si è svolta una manifestazione promossa dall’ufficio regionale dell’Ugtt, la storica centrale sindacale che è stata uno dei protagonisti più importanti della Rivoluzione del 14 gennaio. Non vi sarebbe niente di sorprendente se non fosse che la manifestazione, preceduta da un appello, era stata convocata per protestare contro gli attacchi “all’Islam e ai suoi simboli sacri”. Che un sindacato dalla lunga tradizione laico-nazionalista – in un Paese con un solido impianto “modernista” – si faccia intrappolare nell’ondata di proteste che percorre il mondo musulmano, scatenata dalla torbida provocazione di un pessimo film di stampo islamofobico e razzista, è certo una notizia. Ed è un indizio della confusione e dell’ambiguità intorno agli incidenti del 14 settembre, quando a Tunisi una folla capeggiata da gruppi di salafiti jihadisti ha saccheggiato, messo a fuoco, distrutto le sedi dell’ambasciata statunitense e della scuola americana, incendiando anche una settantina fra autovetture e camionette.
Questo evento è stato gestito dal governo provvisorio e dalle forze dell’ordine nel peggiore dei modi, benché fosse del tutto prevedibile. Gli ultimi quindici mesi della transizione tunisina sono stati scanditi, infatti, da atti di violenza quotidiana da parte di salafiti, spesso spalleggiati da delinquenti comuni: gli uni finanziati dall’Arabia Saudita, si dice, gli altri assoldati da personaggi del vecchio regime. Dal canto suo la polizia, dapprima presa alla sprovvista, ha poi reagito nel modo eccessivo – per usare un eufemismo – che le è consueto: haucciso ben quattro manifestanti e ferito con proiettili decine di persone, compreso il comandante della Guardia civile presso l’ambasciata spagnola. Non c’è da meravigliarsi: tutt’oggi le forze dell’ordine si comportano come se niente fosse cambiato, sicché la repressione violenta anche di manifestazioni pacifiche, gli arresti illegali, la pratica dello stupro e della tortura ai danni di persone fermate sono moneta corrente. Basta citare due fatti recenti: l’8 settembre sono arrestati quattro agenti della polizia giudiziaria accusati di aver torturato a morte, nel commissariato di Sidi Hassine, non lontana dalla capitale, un giovane fermato perché sospettato di furto; altri tre poliziotti vengono arrestati negli stessi giorni per aver stuprato, nel commissariato di Ain Zaghouan, anch’essa vicino Tunisi, una ragazza fermata arbitrariamente la notte fra il 3 e il 4 settembre. Il portavoce del ministero dell’Interno ne dà notizia aggiungendo che la giovane era abbigliata « in modo indecente».
Dunque, alla tradizionale violenza degli apparati repressivi si aggiunge quella recente di gruppi che si richiamano al salafismo jihadista (conviene precisarlo, poiché la galassia salafita è costituita da tendenze svariate, anche nonviolente), il che rende sempre più cupa l’ombra che incombe sulla transizione.
E’ almeno dal 26 giugno 2011 che nello spazio pubblico tunisino si rendono visibili le imprese minacciose e aggressive degli oltranzisti del jihad, cioè da quando essi fanno irruzione nel cinema “Afric’art” per interrompere la proiezione del film di Nadia el Fani, Ni Allah, ni maître. La fanno ancora da protagonisti ai primi di ottobre del 2011, allorché scoppia l’affaire Persepolis, il film d’animazione franco-iraniano di Paronnaud e Satrapi, mandato in onda da Nessma Tv.
Da allora le lugubri bandiere nere salafite, talvolta accostate al ritratto di Osama Bin Laden, sventolano su una sequela di atti gravissimi che si accelera a ritmo incalzante: gli attacchi alle più varie sedi di istituzioni, partiti, sindacati; l’imposizione del loro comando in certe moschee e quartieri popolari; le aggressioni quotidiane a politici, sindacalisti, artisti, intellettuali, femministe, perfino turiste ree d’indossare abiti “indecenti”; la tendenza ad agire come squadracce che giudicano e puniscono secondo presunti dettami religiosi, addirittura col taglio della mano a due ragazzi accusati ingiustamente di furto.
E’ una prassi coerente con la loro ideologia, che si caratterizza non solo per la versione letteralista e integralista dell’islam, la propensione totalitaria, il progetto d’instaurazione di un regime teocratico, la misoginia radicale e messa in pratica, ma anche per l’esaltazione esplicita della violenza, della sopraffazione, della guerra contro i miscredenti.
I partiti di opposizione e le varie espressioni della società civile tunisina non hanno mai smesso di additare le gravi responsabilità di Ennahda, il partito islamista “moderato” che domina la coalizione governativa a tre, insieme con due partiti laici e di centrosinistra, il Cpr ed Ettakotol. A giusta ragione, poiché, per opportunismo politico e anche per qualche affinità ideologica, Ennahda non ha fatto che coccolare i salafiti, sperando di ammansirli e integrarli nella propria sfera politica ed elettorale; e in tal modo ha voluto o ha permesso che ogni volta rimanessero impuniti.
Ma le responsabilità politiche vanno ben oltre Ennahda ed erano evidenti almeno fin da quando scoppiò l’affaire Persepolis. I salafiti non furono i soli a demonizzare il film e l’emittente privata, il cui torto più grave, in verità, è quello di avere come proprietari un ex sostenitore di Ben Ali e Berlusconi, tramite Mediaset. Infatti, la protesta contro la pellicola “blasfema” fu condivisa attivamente da una corrente di opinione ampia e variegata, compresi alcuni fra coloro che a ragione accusano Ennahda di complicità coi salafiti. Per dirne una, assai sorprendente, a contribuire alla condanna di Persepolis fu anche “Nawaat”, giornale online che è stato (ed è) una delle voci più interessanti dell’opposizione al regime benalista e poi della Rivoluzione del 14 gennaio.
Giusto il giorno dopo il tentativo dei salafiti di bruciare la sede della televisione privata, “Nawaat” pubblica un lungo articolo non firmato di veemente condanna della pellicola e di Nessma Tv: “Forte dei finanziamenti sionisti”, si scrive, Nessma Tv, dopo aver compiuto “ogni genere di provocazione contro i buoni costumi”, osa anche “attentare ai valori sacri dell’Islam”; “che sia fatta giustizia”, conclude l’articolo, contro chi “trasgredisce le leggi che proibiscono l’attentato alle cose sacre”. C’è da aggiungere che in quella occasione ben centoquaranta avvocati tunisini patrocinarono una petizione popolare contro i contenuti “blasfemi” di quel film e poi una querela contro i responsabili dell’emittente televisiva: a maggio scorso il direttore, Nabil Karoui, è stato condannato a una pesante pena pecuniaria.
Una certa ambiguità, afasia o debolezza di reazione si è registrata in una parte della società civile e dell’area dei partiti laici anche rispetto all’assurda vicenda di Jabeur Mejri e Ghazi Béji. Ricordiamo che il 25 giugno 2012 i due giovani di Mahdia sono stati condannati anche in seconda istanza a sette anni e mezzo di carcere e a un’ammenda di 1200 dinari per turbamento dell’ordine pubblico e offesa alla morale, per aver postato su Facebook testi e immagini reputati blasfemi, in realtà per essersi dichiarati atei. La condanna è stata approvata dal portavoce ufficiale d
el presidente della Repubblica, ovvero il laico Moncef Marzouki, storico oppositore del regime benalista e a suo tempo attivo difensore dei diritti umani. Béji, condannato in contumacia, era riuscito sottrarsi al carcere preventivo con la fuga. Oggi è il primo rifugiato fuggito dalla Tunisia post-rivoluzione, avendo ottenuto l’asilo politico dalla Romania.
Tutto questo s’inserisce in un contesto economico disastroso e in una situazione sociale esplosiva, con tensioni, suicidi pubblici tra le fiamme, tumulti e scioperi in varie regioni, soprattutto in quella Tunisia «profonda» dalla quale è partita l’insurrezione che ha rovesciato il regime. Che anche associazioni e partiti laici e di sinistra si siano fatti invischiare nel dibattito sull’“identità arabo-musulmana”, a proposito della nuova costituzione, è un segno della loro lontananza dalle masse diseredate. Quelle che oggi, dopo aver fatto la rivoluzione, non possono che affidare all’emigrazione “clandestina” dei loro figli l’estrema speranza di riscatto sociale.
Dalla difesa dell’“identità arabo-musulmana” alla condivisione della protesta per l’attentato “ai valori sacri dell’Islam” il passo è assai breve. Ma sembra che alcune élite laiche e progressiste tunisine non colgano l’incoerenza fra la giusta indignazione verso i salafiti e i loro protettori, da una parte, e dall’altra la condivisione di una lettura del mondo in termini identitari e religiosi, o almeno para-religiosi.
Quanto a certe élite di sinistra nostrane, a giudicare da taluni commenti su qualche testata di sinistra, anch’esse sembrano vittime della trappola identitaria, se non differenzialista. Vi si scorge, infatti, un’interpretazione che legge l’ondata recente di collera contro le offese all’islam quale espressione di un antioccidentalismo, inteso in fondo come antimperialismo. Questa tesi risulta ancor più fallace per il fatto che la ventata di proteste viene attribuita a un indefinito “radicalismo islamico”, formula che non distingue da Paese a Paese, né fra ben definite correnti salafite – peraltro finanziate dall’Arabia Saudita – e formazioni politiche come Ennahda e i Fratelli musulmani: le ultime due filo-occidentali, sia pur ambiguamente, e comunque finora ben soddisfatte della protezione ottenuta dalla presidenza statunitense.
Insomma, la nefasta profezia dello “scontro di civiltà” sembra inverarsi non solo per colpa della torbida manovra ordita tramite The Innocence of Muslims, ma anche grazie a coloro che ne hanno raccolto la provocazione, per fini spesso altrettanto torbidi, e per l’insipienza degli inconsapevoli portatori d’acqua “progressisti”.
(20 settembre 2012)
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