La verità, vi prego, su Giulio Andreotti

Fausto Pellecchia

Per chi voglia dipanare l’intreccio criminale tra mafia e politica, sfilando la trama di un capitolo decisivo della storia della repubblica degli ultimi 40 anni, la lettura di La verità del processo Andreotti e Guido Lo forte (Laterza 2018) costituisce una tappa imprescindibile. Attraverso una meticolosa analisi dei fatti e dei personaggi che compongono il voluminoso incartamento del caso giudiziario di Giulio Andreotti, uno dei più potenti uomini politici italiani del dopoguerra, i due ex magistrati fanno riemergere un sistema di potere fondato sull’ininterrotta complicità-connivenza tra boss di primo piano delle cosche mafiose ed elementi di spicco delle classi dirigenti (uomini delle istituzioni, imprenditori, banchieri e faccendieri, protetti e sostenuti da imbonitori del circuito politico-mediatico) che ancora oggi è ben lungi dall’essere stato sconfitto e dissolto.

È una meticolosa e puntuale rassegna delle prove documentali e delle testimonianze incrociate che gremiscono i faldoni del processo avviato dalla Procura di Palermo nel 1993 e conclusosi il 15 ottobre 2004 con la definitiva sentenza della Cassazione. In essa si ricostruisce la vicenda altalenante della lotta delle istituzioni alle infiltrazioni di Cosa nostra, continuamente interrotta da cedimenti, negazionismi e abbandoni che costarono la vita a magistrati e uomini politici e rappresentanti dello Stato in una lunga galleria di lutti e di stragi.

Si passa dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta e Balduccio Di Maggio, alla organizzazione degli omicidi del giudice Rocco Chinnici e (fratello dell’attuale Presidente della Repubblica), e consorte, , l’“eroe borghese” che svelò i misfatti del bancarottiere piduista Michele Sindona. Infine, ci si sofferma sulla organizzazione delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, nelle quali furono falcidiati, insieme agli uomini della scorta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Si ricorderà come i due coraggiosi protagonisti del pool antimafia furono in più occasioni osteggiati e isolati dagli uomini delle istituzioni, nonché calunniati dall’orchestrazione di un consistente depistaggio dell’opinione pubblica, sebbene (o proprio perché) avessero ottenuto, con il maxi processo di Palermo, il più importante successo contro la mafia. In tutti questi episodi, l’ombra sinistra di Giulio Andreotti affiora come il supremo nume tutelare (il “divo”) di Cosa nostra: patrono del circolo politico-mafioso , sodale , interlocutore privilegiato di boss del calibro e Totò Riina.

Secondo Caselli e Lo Forte, varie testimonianze, processualmente accertate, dimostrano «che gli omicidi politico-mafiosi costituiscono l’extrema ratio per rimuovere, in modo cruento, ostacoli o pericoli che mettono a rischio le corpose cointeressenze che cementano il sistema di potere politico-mafioso». Numerosi processi hanno dimostrato come tali omicidi, a causa del loro "costo politico", vengono preceduti da estenuanti tentativi di “aggiustamento” che individuano in Giulio Andreotti la figura cardine per le opportune mediazioni politico-istituzionali. Per questo, nel dispositivo della sentenza che lo riguarda si legge «[G.Andreotti] con la sua condotta (…) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso, un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi” (dalla sentenza d’appello del processo Andreotti, confermata in Cassazione).

Eppure ancora oggi, sono in molti a credere che Andreotti sia stato totalmente assolto dall’imputazione di “concorso esterno in associazione mafiosa” (art.416-bis) formulato dalla Procura palermitana. Prevale piuttosto il ricordo del triplice urlo di giubilo (“assolto!”) del suo giovane difensore Giulia Bongiorno, da allora diventata toga di grido, e oggi candidata della Lega nel collegio plurinominale del Senato della Sicilia occidentale, con Salvini capolista in 4 collegi siciliani, e nominata in pectore dallo stesso leader leghista, come futuro Guardasigilli.

A lucrarne un inatteso profitto politico, ci fu anche Pier Ferdinando Casini attorniato da una folta schiera di giornalisti e telecamere. L’allora presidente della Camera (designato da Berlusconi), e oggi candidato del PD renziano nella “rossa” Bologna, non nascose la propria esultanza per l’“assoluzione” del vecchio leader DC, presentandolo come vittima dell’atteggiamento “persecutorio” di una magistratura “politicizzata”. Questa versione distorta del processo e della sua sentenza fu poi largamente amplificata da settori politico-mediatici, in aperta polemica con la Procura palermitana e le presunte “toghe rosse”, che culminò nella mancata nomina di Caselli a procuratore nazionale antimafia con una serie di disposizioni contra personam. Al suo posto, fu nominato Pietro Grasso, il quale, due anni dopo (“a giochi fatti”) in una intervista a La Stampa raccontò di essere stato «fortemente critico contro quella scelta governativa perché era dichiarato lo scopo di sfavorire Caselli».

In verità, si produsse una radicale mistificazione del dispositivo della sentenza della Corte di appello: in esso si dichiarava commesso (ma estinto per prescrizione e non per assoluzione) fino alla primavera del 1980 il reato di collusione con la mafia. Ed anche la formula assolutoria per il periodo successivo al 1980 era "dubitativa”: i giudici di primo grado, nel 1999, mandarono assolto Andreotti con l’articolo 530, 2° comma, equivalente alla vecchia “insufficienza di prove”; l’appello del 2003, invece, decretò il «non doversi procedere… in ordine al reato di associazione per delinquere… commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione» (alla quale l’imputato e i suoi legali si guardarono bene dal rinunciare). Sentenza confermata, punto per punto, nel 2004 dalla Cassazione, con la motivazione che l’art.416-bis fu introdotto soltanto nel 1982 – quasi che fino ad allora l’associazione mafiosa fosse da considerarsi poco più che un club folkloristico.

La tormentata vicenda del processo Andreotti e la sua vulgata mediatica non sono tuttavia riconducibili soltanto alla differenza tra verità giuridica e verità storica, o tra responsabilità penale e responsabilità etico-politica dei fatti processualmente accertati. Com’è noto, la prescrizione determina l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere del tempo. La ratio della norma è che, a distanza di un certo periodo di tempo dal fatto, viene meno l’interesse dello Stato a sanzionare la relativa condotta, poiché si presuppone che la pretesa punitiva (ed emendativa) si affievolisca fino a scomparire quando sia decorso un determinato periodo di tempo. L’istituto della prescrizione si basa infatti sull’idea che la risposta dello Stato ad un fatto di reato, verificatosi ad una certa distanza di tempo, perda le sue ragioni, sia sul piano preventivo-emendativo, sia su quello “retributivo”, in ragione del risarcimento sociale per il reato commesso. Del resto, proprio per questo, la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato.

In questo senso, l’istituto della prescrizione sembra contraddire indirettamente il fondamentale principio giuridico secondo cui “non vi è pena senza colpa”. A tal proposito, tuttavia, un illustre –quanto famigerato- giurista del ‘900, Carl Schmitt osservava: «Si potrebbe infatti argomentare che la pena preceda logicamente la colpa, perché non vi sarebbe alcuna colpa se essa non venisse punita. Il modo più semplice per eliminare il delitto dal mondo, sarebbe la cancellazione del codice penale. Il principio “non vi è pena senza colpa, dovrebbe allora suonare piuttosto “non vi è colpa senza pena”». La corrispondenza retributiva tra sanzione e reato avrebbe il suo corrispettivo nel nesso inscindibile tra insanzionabilità e innocenza. Per evitare le conseguenze paradossali di questa costellazione giuridica, Schmitt obietta che «il diritto presuppone necessariamente qualcosa a partire da cui minaccia una pena, e questo può avvenire soltanto se esso considera ciò che punisce come un male, cioè come qualcosa contrario ai suoi scopi» (Über Schuld und Schuldarten, Schletter, Breslau, 1910, p.19).

Di qui discende, nel caso in questione, un ulteriore paradosso: per la complessità e per la notevole durata temporale delle procedure di accertamento dei reati di mafia, i fatti criminosi, pur processualmente accertati, non risulterebbero sempre ascrivibili come fatti contrari agli scopi dello Stato ed anzi potrebbero essere assunti come compatibili con essi in quanto “mali necessari”. Per questo il paradigma del processo Andreotti (che mostra evidenti analogie con il caso Dell’Utri-Berlusconi) porta impresso il sigillo della sotterranea ambiguità che lega politica e associazioni mafiose: attraverso la porta stretta della prescrizione, la vecchia talpa della “ragione di Stato” continua a scavare il tunnel che le permette di entrare in comunicazione con l’antistato della criminalità organizzata.

(25 febbraio 2018)





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