L’abisso che separa la medicina italiana da quella anglosassone
Cari colleghi,
sono un medico italiano, e risiedo da diversi anni all’estero, prima a Londra, ora in Nuova Zelanda. Sento l’esigenza di esprimere il mio punto di vista su uno dei momenti più cupi della storia del nostro Paese. Questo per me è, al momento, l’unico mezzo per sostenere amici e colleghi stimati che da anni si impegnano anima e corpo, in mezzo a mille ostacoli, per fare dell’Italia una nazione rispettata e credibile a livello internazionale. A loro va il mio incoraggiamento e plauso, in tempi così grigi che lasciano poco spazio a bagliori di ripresa.
Più volte mi è stato chiesto perché non volessi rientrare in Italia, dopo diversi anni passati all’estero. La risposta è in sé molto dolorosa e tinta da un sottile velo di rabbia: gli italiani emigrati all’estero non credono, al momento, che L’Italia possa offrire loro le stesse prospettive professionali e culturali che altri paesi sono in grado di dare. È una pura questione meritocratica, che prescinde da ogni possibile motivazione finanziaria o contrattuale, visto e considerato che, nel mio caso specifico, non c’è un lavoro a tempo indeterminato alle mie spalle che mi aspetta.
Vivere e lavorare in UK ha non solo consolidato la mie idee sul concetto di democrazia, uguaglianza e progresso di una cultura moderna, ma mi ha anche aperto a un nuovo modo di approcciare la mia professione, in modo sensibilmente diverso da come ero abituata nel passato. Ed il passaggio in Nuova Zelanda ha semplicemente confermato la natura profondamente meritocratica di questi paesi e la tristissima anomalia italiana. Ogni volta che rientro in Italia questo contrasto diventa più stridente ed intollerabile.
Mi sembra sistematicamente di assistere ad un’eterna lotta tra due frangenti contrapposti. Da un lato un nutrito gruppo di lassisti e superficiali, che hanno reso internazionalmente popolare lo stile italiano “alla carlona”, a fianco a quelli considerati pura personificazione del motto “mors tua vita mea” (generalmente contraddistinto da un “vago” atteggiamento mafioso, che spinge i soggetti in questione ad una ricerca e raggiungimento spasmodico dei loro interessi privati attraverso percorsi molto poco cristallini).
Dall’altra quelli che ai tempi odierni sono gli Eroi di questo paese, una nutrita, ma purtroppo non sufficiente, schiera di professionisti che con energia, ottimismo, passione, zelo e coraggio cercano di portare avanti progetti e idee, per dare a questo paese in piena metastasi la speranza di un futuro. Faccio subito un esempio pratico illustrando qualche aspetto del sistema formativo anglosassone, nel settore medico, rispetto all’Italiano e di come questo sia intrinsecamente legato ad un diverso concetto di cultura della formazione professionale.
Le ragioni di questa contrapposizione sono strutturali: tralasciando le enormi pecche sulla strutturazione dell’esame di stato, ritengo che le scuole di specializzazione italiana (postgraduate medical training in inglese) siano nettamente indietro rispetto allo standard straniero. In Italia il percorso è in mano, su per giù, ad uno o due docenti che presiedono il percorso specialistico e decidono per te il tuo percorso clinico, (come per es. le cosiddette rotazioni nelle varie specialità chirurgiche in cui l’Anestesista deve dimostrare competenze), ed hanno in più l’autorità di valutare da soli il tuo livello di preparazione teorica. Insomma, la solita gestione pseudofamiliare dove si fà quel che si può e “se non si può”… pace e bene, tanto poi ti specializzi lo stesso!
Nei paesi anglosassoni il training specialistico è cosa ben diversa e viene valutato e supervisionato da organi accademici nazionali, super partes, i College (Il Royal College of Anaesthetists è l’istituzione Accademica degli Anestesisti della Gran Bretagna, tanto per fare un esempio). Il College è responsabile del training specialistico, organizza le rotazioni e richiede perciò che ogni specializzando, a completamento del percorso, debba avere compiuto tutte le rotazioni nei vari settori: chi non ha coperto tutti i moduli chirurgici, compresi 9 mesi in Terapia Intensiva, è invitato "cortesemente" a ripresentare il suo curriculum soltanto dopo aver colmato quelle lacune. Cosa ben diversa dal panorama Italiano dove, se vedi e fai, bene… e se fai poco va bene lo stesso, e il titolo lo prendi in ogni caso!
Non solo. Forse qualcuno dei miei colleghi avrà sentito parlare dell’F.R.C.A. (Fellowship of the Royal College of Anaesthetists of England). Questo non è altro che l’obbligatorio esame nazionale di teoria, estremamente impegnativo, strutturato in due parti, e presieduto da un gruppo di esperti in materia, professori e non, e che generalmente vede una percentuale di successo al primo tentativo non più alta del 55% (in Nuova Zelanda la % è ancora più bassa). Ben lontano dal panorama delle “Italian expectations”, richiesta alle nostre sessioni di esame: i racconti, da parte di colleghi connazionali trasferiti a Londra, confermano lo stesso trend in tutta Italia, dove da 30 anni a questa parte nessuno ha mai fallito al primo tentativo: siamo tutti dei geni!
In Italia puoi diventare anestesista, chirurgo, radiologo, infettivologo anche sulla semplice base delle relazioni personali: una raccomandazione e via! Sei, cinque, anche quattro anni ed hai finito. Poi, con qualche telefonatina strategicamente congegnata, riesci pure a conseguire un bel posto di lavoro. Nessuno che garantisca la qualità e serietà della tua preparazione e che ti valuti indipendentemente per le tue reali conoscenze teoriche e capacità…
E allora che succede? Che il cancro della mentalità mafiosa, quello che Roger Abravanel nel suo libro "Meritocrazia" definisce “familismo amorale” (tendenza in base alla quale individui appartenenti ad una comunità tentano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo familiare, supponendo che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera) e del menefreghismo imperante, si insinua in modo subdolo avvelenando le nostre corsie, si scontra con le frustrazioni di quei colleghi appassionati, zelanti e studiosi che tutti giorni lottano nella speranza di un Paese ed una sanità migliore.
Vorrei che l’Italia capisse, una volta per tutte, di essere da tempo diventata un paese con enorme spreco di risorse umane. Dove, nel caso della medicina, dovrebbero essere invece imposti, da organi nazionali super partes che si fanno garanti di qualità, standard clinici e accademici (traning obbligatori ed esami clinici rigorosi) dai quali non si possa prescindere.
Vorrei che la fiducia nel concetto del merito, e nelle istituzioni che ne sono garanti, tornasse a vibrare nelle menti di milioni di italiani che urlano, in queste ore, indignati per un paese alla deriva.
Vorrei uno stato forte, capace di autoregolamentarsi e di infondere nuova linfa alla credibilità e all’autorevolezza delle istituzioni, necessarie per generare fiducia in una possibilità di sviluppo alternativo a quello della “famiglia” intesa in senso mafioso.
Finché tutto questo mancherà, l’Italia sarà in balia di una classe politica berlusconeggiante, o inebetita e spersonalizzata come quella pseudosinistrorsa.
Son sicura che queste righe susciteranno indignazione tra i ben pensanti accademici locali. Poco mi interessa. Sono riflessioni di chi, lavorando fuori e confrontandosi con altre realtà, avverte con sconforto l’inarrestabile declino di una nazione un tempo vanto del mondo.
Federica Merella
(7 febbraio 2011)
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