Laicità incompiuta

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‘Laico’ è il popolo, l’uomo comune, è ciò che tutti abbiamo in comune. La laicità è la quintessenza della cittadinanza democratica. L’attuale rinascita del sentimento religioso – e la sempre più decisa interferenza della Chiesa nelle questioni pubbliche – è dovuta al timore ‘laico’ di proporre una visione del mondo. È il momento di rivendicare con orgoglio la cultura laica, con al centro la difesa dei diritti.

di Alessandro Dal Lago

Il gesuita e la suora
Partecipo a una sorta di festival filosofico dedicato al pluralismo religioso e culturale. A cena, mi trovo seduto accanto a un uomo sulla cinquantina, alto, barbuto, vestito di grigio scuro. Affabile, amante del buon vino e, scopro rapidamente, di buone letture. È un gesuita e vive in una comunità monastica in Siria. Parla arabo e inglese. Mi racconta delle sue esperienze tra gli islamici e si dichiara avverso alla politica occidentale, e soprattutto americana, in Iraq. Ritiene che l’incancrenirsi della questione palestinese sia all’origine del radicalismo islamico. Ridacchiando, mi rivela che dal cattocomunismo della giovinezza («Sa, avevo perfino amici finiti nella lotta armata») si è spostato su posizioni radicalmente antioccidentali: «In un certo senso, non mi fraintenda, simpatizzo con i fondamentalisti islamici. Vede, per molti di loro la sharia è solo un pretesto. Il comunismo è fallito, il laicismo baatista è stato la maschera di una corruzione generalizzata. L’islam radicale, con il suo universalismo e la sua purezza, è una bandiera in cui ai giovani è facile riconoscersi. E poi, guardi, è il sintomo globale del fallimento dell’ideologia laica dell’Occidente, dell’illuminismo».
Su questo ultimo punto espongo una forte perplessità. Non condividere le linee della politica internazionale americana (e occidentale), e in particolare opporsi alla guerra in Iraq, non significa accettare necessariamente una visione religiosa del mondo. Stiamo parlando di un quadro politico ed economico ingarbugliato, in cui la religione gioca a mio avviso un ruolo di facciata. Mi dichiaro contrario all’interpretazione dei conflitti in chiave culturale o religiosa, à la Huntington, per intenderci. «Quindi, per lei la religione è solo sovrastruttura», osserva ironicamente il gesuita. No, non è esattamente così, penso, ma come faccio a spiegarmi? Fatalmente, la conversazione scivola sui rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. Il gesuita si accalora nella difesa di Ratzinger («Anche se non ha apparentemente il carisma di papa Wojtyla, ma gli dia tempo…»). Secondo lui, in Italia si vuole impedire alla Chiesa di parlare. «Ma se il papa esterna un giorno sì e uno no!», obietto. A questo punto, il tono della discussione cambia. Si fa aspro. Io nego che la cultura religiosa, cristiana o no, abbia il diritto di intromettersi (indipendentemente dalla libertà di parola di cui chiunque deve godere) negli affari di uno Stato aconfessionale. Il gesuita mi accusa di non comprendere che il messaggio cristiano è universale e quindi riguarda anche i non credenti. Mi dà del laico fanatico. Si meraviglia che un professore universitario, un umanista («Lei è una specie di filosofo, no?»), abbia idee così rudimentali sulla religione. Gli rispondo: «Ma che c’entra la religione con i Pacs, mi scusi? Perché una convivenza di fatto non dovrebbe essere tutelata dalla legge? E i diritti soggettivi? Siamo alle solite, voi cattolici siete liberi di conformarvi alla vostra fede, ma perché volete imporla a chi cattolico non è?»). Ed eccoci alla contrapposizione di senso comune tra visioni del mondo. «Lei dice di essere di sinistra», fa lui sarcasticamente, «ma è solo un liberale, anzi un fondamentalista liberale». Ho una reazione di insofferenza. La finiamo lì. Ci salutiamo con freddezza e ci ignoriamo per tutta la durata del convegno.
Qualche tempo dopo incontro una mia ex studentessa. Si è fatta suora e lavora in un centro studi sulle migrazioni in America latina. Una quarantenne spigliata, entusiasta, in jeans e maglietta («Nel nostro ordine nessuno mette l’abito»). Simpatizza per la teologia della liberazione, o meglio per ciò che ne resta. Mi propone di far parte del comitato scientifico di una rivista internazionale sull’immigrazione. «Se non le dà fastidio collaborare con i cattolici». «Ma si figuri». «Sa», aggiunge, «ho l’impressione che da voi in Europa cerchino di farci tacere, noi credenti». Viene fuori che anche lei (che pure non deve simpatizzare molto con papa Ratzinger) è convinta di una sorta di ritorno aggressivo del laicismo. Sostiene che senza il volontariato cattolico la questione migratoria sarebbe ben più esplosiva (questo lo credo anch’io, è un dato di fatto). «E allora, non potete, voi laici, appoggiarci quando vi facciamo comodo e tapparci la bocca quando rivendichiamo i diritti della nostra fede». Propongo di parlare d’altro. A me la sorella è simpatica, anche perché mi ricorda la protagonista di un racconto di Salinger che mi è sempre stato caro. Ci salutiamo cordialmente. Collaborerò alla sua rivista.
Che cos’hanno in comune i due episodi? In diversi ambienti cattolici si tende ad accusare una non meglio identificata cultura laica di collusione, per così dire, con il nemico, individuato volta per volta nella finanza globale, nella volontà di potenza Usa, nelle forze disgregatrici della comunità elementari e così via. La religione sarebbe la sola risposta – ora che il socialismo è finito – alla supremazia del consumismo eccetera. Il che è obiettivamente non privo di verosimiglianza. La straordinaria partecipazione al movimento no global del 2001 è anche effetto del disco verde di Wojtyla e di parte della gerarchia vaticana. Il che non ha impedito al papa polacco di proseguire nell’attacco allo spirito del Concilio Vaticano II, di avere nel cuore Comunione e liberazione, di pensare a una ri-evangelizzazione dell’Europa dell’Est e di praticare un rapporto carismatico, e quindi politicamente diretto, con i credenti. Siamo, una volta di più, all’idea della Chiesa come complexio oppositorum e quindi sintesi di conservatorismo teologico-politico e iniziativa sociale. Da qui, anche, la sensazione di tanti cattolici di far parte dell’unica sfera di senso estranea a una modernità corrotta. Da qui l’avversione al laicismo e la rottura evidente di alleanze tattiche con la sinistra laica (1).

Laico, ossia cittadino
Molti segnali mi fanno ritenere che si stia perdendo il senso storicamente consolidato della parola laico. Sperando che il gesuita e la mia amica ora lontana leggano prima o poi queste righe e apprezzino una modesta prova di erudizione, propongo una breve riflessione sul termine. In greco, lao¿ß significa genericamente popolo (si confronti il tedesco Leute, la gente). Da cui, laiko¿ß, «del popolo», e il latino laicus, con cui si intendeva nel medioevo il credente minuto, in quanto separato o diverso dagli ecclesiastici. In inglese, layman denota oggi – grazie a uno slittamento comprensibile – il «non esperto», l’«uomo della strada», il «profano». Profanus infatti è chi sta davanti al tempio o ne è fuori (e fanatico, si potrebbe dire, è chi parla dal tempio…). Ma già nell’antica Roma, il senso della parola era secolarizz
ato. Odi profanum vulgus et arceo, esclama lo snob Orazio (Odi, III,1,1): «Odio il popolo ignorante e me ne tengo alla larga». In breve, «laico» è un termine che, con un significato analogo in varie lingue indoeuropee, ha finito per designare la gente comune in quanto non specializzata, non inclusa in ambiti ristretti (le Chiese, la cultura letteraria, il sapere eccetera). Domando allora: che cos’è la laicità se non la quintessenza di ciò che chiameremmo cittadinanza democratica? Infatti, nei sistemi politici avanzati, i cittadini dovrebbero essere tali indipendentemente dallo status, dal patrimonio, dalla professione di fede e dalle preferenze culturali. È ciò che, all’epoca della riforma ateniese di Clistene, si chiamava isonomia, ovvero uguaglianza nella legge. Berlusconi è – o dovrebbe essere – un cittadino con i miei stessi diritti.
La questione è abbastanza semplice, se la si affronta avendo chiari i quadri di riferimento. La religione è in primo luogo una faccenda di fede e dunque soggettiva, irrazionale, relativa ai valori, come avrebbe detto Max Weber (2). Essendo un sociologo, e quindi indegno seguace del dotto tedesco, le religioni mi interessano straordinariamente, in quanto sistemi simbolici complessi. Arrivo a dire che ne sono affascinato. Di fronte al corpus teologico e letterario che ci ha lasciato il cristianesimo non si può non provare un atteggiamento reverenziale. E, aggiungo, solo uno stolto potrebbe minimizzare i lasciti molteplici che il cristianesimo ci ha consegnato. È in nome di tale eredità storica che, per fare un esempio, mi trovo in sintonia, su alcune questioni sociali, con la sorella citata sopra – e per nulla con quella specie di darwinismo economico o filosofia del mercato che oggi è spacciata per pensiero liberale. Comunque determinata, la sollecitudine per gli altri è una disposizione cui non vorrei mai rinunciare (benché, con Foucault, sia molto interessato al significato di ciò che chiamerei stile di governo pastorale). Così come non posso nascondere la mia predilezione per il grande poeta cristiano Eliot (più per la sua straordinaria scrittura jazzistica, direi, che per le idee tradizionaliste, anche se c’è da chiedersi se i due aspetti siano separabili). In ogni modo, come si fa a dire che non siamo intrisi di cultura cristiana, noi europei? Ma questo non fa di me un credente, né un cristiano. Un uomo «vuoto», direbbe Eliot, ma comunque un laico, cioè un cittadino comune.
Se ci si sposta dalla fede (e anche dai rispecchiamenti culturali o dalle idiosincrasie letterarie) e si va sul terreno pubblico, che siamo cristiani o no è divenuto giuridicamente irrilevante. In circa tre secoli, a partire dalla lotta di alcune sette protestanti con la Chiesa di Roma, l’appartenenza religiosa non ha più potuto definire la cittadinanza, e quindi la sfera dei diritti (è un grandioso paradosso della storia, già notato da Tocqueville e indagato da Weber, che dobbiamo la nostra libertà di pensiero a gente intollerante e settaria come Calvino o i Padri pellegrini). Rivoluzioni, persecuzioni e guerre ci hanno consegnato alla fine di un lungo processo storico Stati più o meno laici, in cui quello che i cittadini hanno in comune è un insieme di diritti di appartenenza, indipendentemente dalla fede professata.
La cosa è ovvia in paesi come la Francia o l’Inghilterra, e negli Usa, che pure nacquero da un arcipelago di sette protestanti, e persino nella cattolicissima Spagna, dopo la fine del franchismo, ma non in Italia, per ragioni molto note. Sede del soglio pontificio e unico grande paese al mondo il cui il cattolicesimo politico è stato al governo per quasi un cinquantennio (il caso della Germania è diverso, dato che i cattolici sono solo una componente del partito cristiano, la Cdu), la Repubblica italiana ha un rapporto compromissorio con la Chiesa. Non tanto e non solo sul piano politico (da noi il 90 per cento del ceto politico si dichiara più o meno cattolico, anche per opportunismo…), quanto su quello giuridico. Diciamo che la laicità dello Stato è instabile e parziale: in mille modi la Chiesa è presente nella nostra costituzione materiale. Certo, la libertà religiosa è indiscutibile, formalmente, e quindi anche il diritto di professare l’ateismo o l’agnosticismo. Ma se, come nel caso di Pacs o Dico (oltre che dell’aborto), esponenti della Chiesa intervengono sul processo politico-legislativo con capacità oggettiva di veto, non possiamo parlare di semplice influenza, lobbismo, o mero diritto di parola (che nessuno nega o si sogna di negare a Ratzinger, Bertone o Ruini). Parliamo di influenza politico-culturale che assume tutto l’aspetto di una costante ed efficace pressione esterna.
In Italia, la situazione è ambigua perché i cattolici sono ufficialmente divisi nelle relazioni con il Vaticano. Alle inclinazioni lefebvriane della Lega e al cattolicesimo tutto esteriore (e classicamente trasformista) di Forza Italia, An, parte del Pd, si contrappone, un po’ debolmente, il laicismo di alcuni esponenti della vecchia sinistra democristiana e di pochi altri gruppi dichiaratamente laici. Ma troppi episodi mostrano che la capacità di intervento della Chiesa nelle questioni interne dello Stato italiano è oggettivamente forte. Anche qui, è necessario sgombrare il campo dagli equivoci. Ovviamente, con l’antica eccezione di Fanfani e Andreotti e quella più recente di statisti come Casini e Buttiglione, i politici non sono troppo inclini ad ammettere la loro dipendenza dal Vaticano. Siamo piuttosto nella sfera delle propensioni, degli ammiccamenti e dei cedimenti. O forse – ed è peggio – di una proclamata affinità culturale. Quando il ministro Bersani va a Rimini e si rivolge alla platea di Comunione e liberazione come la «meglio gioventù», o autorità dello Stato quali Amato e Bertinotti ci intrattengono sui loro travagli interiori in materia di fede, facendo di questioni che riguardano solo loro una sorta di narrative edificante (come sarebbe più elegante, per cattolici e laici, risparmiarci questi supplementi d’anima!), siamo davanti a un clinamen molto pericoloso. La mediatizzazione del discorso religioso è decisiva nella sfera pubblica. Finisce per affermare l’idea che la fede sia un fatto politico, di tutti, e non un’esperienza soggettiva e singolare. Anche qui si potrebbe parlare, naturalmente in senso molto ampio, di Costituzione materiale.
Alcuni dotti amici, studiosi di teoria pura del diritto, negano che esista qualcosa come una Costituzione materiale, e di conseguenza che la Chiesa vi partecipi. Tuttavia, allo stesso modo in cui qualsiasi professore universitario sa che norme e regolamenti in materia di concorsi non descrivono esattamente la realtà dei concorsi, così oso affermare che le istituzioni ecclesiastiche sono variamente presenti nel nostro apparato statale. Ecco un esempio tra mille che potrei fare: qualche anno fa ho partecipato all’inaugurazione della nuova sede di una facoltà universitaria. Era presente un esponente della locale curia che ha impartito la benedizione. Ero contrariato, e con me qualche collega (compreso un credente, e ciò va a suo onore). Ritengo che si sia trattato di un atto improprio, e che chi ha dato l’autorizzazione, o ha convocato il prelato, abbia commesso un abuso, e non solo perché nel pubblico potevano trovarsi ebrei, altri credenti, o atei. Il punto non è questo. Si tratta di un caso forse irrisorio, ma rivelatore, di sconfinamento: fino a prova contraria, l’appartenenza religiosa rientra nella sfera delle preferenze private, anche se socialmente maggioritarie, e quindi non &egrav
e; compatibile con un’istituzione pubblica come l’università che rientra in un ambito che ho definito sopra laico, comune a tutti i cittadini.
Si noti. Tale ambito non riposa su alcun fondamento filosofico-giuridico sostanziale. Non ha la pretesa di discendere da una verità assoluta (e quindi definire la sua difesa come fanatismo o fondamentalismo laico è un controsenso). È il risultato giuridico e istituzionale di un processo storico e dei relativi aggiustamenti. Nessuno dovrebbe pretendere di fare delle Costituzioni un feticcio metafisico. Ma al tempo stesso, essendo il più inclusivo di tutti gli ambiti (dà uguale cittadinanza a credente e al non credente e così via), è quello in cui l’uguaglianza giuridica tra diversi trova il massimo riconoscimento. Con un paradosso solo apparente, consente proprio la libertà dei credenti, e quindi anche quella dei cristiani. Il giorno in cui una Costituzione, formale o materiale, inglobasse una cultura religiosa come ufficiale, si getterebbero le premesse delle guerre di religione. E ciò tanto più quando inevitabilmente diverse fedi vengono praticate nel territorio dei singoli Stati, date le interferenze e le implicazioni planetarie (mobilità umana e simbolica, riferimenti culturali eterogenei eccetera) che vanno sotto il nome di globalizzazione.

Le maschere del molteplice
L’espressione «eterogeneità delle credenze» è ovviamente il punto critico della questione. Che l’unità della cultura dell’Occidente cristiano (ammesso che sia mai stata davvero unitaria) sia implosa in ciò che Weber chiamava «politeismo dei valori» è qualcosa di assodato, sin dal primo dopoguerra (3). Ma il mondo di rovine, materiali e simboliche, che Eliot mette al centro di La terra desolata era il risultato del primo conflitto mondiale, della conflagrazione tra gli Stati nazionali, non di quella cosa nota come «crisi dei valori», un’espressione opaca che ha avuto fin troppa circolazione in filosofia (penso a Max Scheler e alla schiera dei suoi seguaci, soprattutto cattolici). In altri termini, la religione, e tanto meno quella cattolica, non aveva saputo impedire una strage immane perpetrata tra paesi cristiani e largamente cattolici. Politeismo voleva dire semplicemente che nessuna cultura, a partire da quella cristiana, poteva più aspirare al rango di criterio unificatore delle motivazioni ultime. Che Weber fosse personalmente angosciato dall’aridità di un mondo politeistico non toglie nulla all’evidente validità della diagnosi. Eliot, come prima – in un’età meno ansiosa – il cardinale Henry Newman, ha tentato un superamento di tale condizione (nei Quattro quartetti e nei saggi sulla cultura), ma si tratta di letteratura, anche se somma. La società contemporanea non è cristiana, più di quanto non sia esclusivamente liberale, socialista e così via. Le maschere del molteplice ci circondano da ogni parte. Il politeismo, forma della pluralità delle credenze, è un dato di fatto di cui la cultura politica deve tenere conto. Iosif Brodskij (ecco un altro poeta che non mi dispiace) riteneva che coincidesse con la tolleranza. Altri potranno vedervi una dimensione di incertezza e quindi di nichilismo. Ma questo è il mondo che, dopo lunghi processi di secolarizzazione – e nonostante gli evidenti lasciti della cultura cristiana – è il nostro e che lasceremo in eredità.
Ritengo che la laicità – nel senso etimologico e storico delle strutture pubbliche comuni a cui non si addice alcuna proclamazione di fede – possa conciliarsi con la pluralità di credenze e fedi. Ma non si tratta di una convivenza alla pari, bensì di diverse sfere, in cui la legge di tutti deve godere di supremazia. Qualcosa da confermare giorno per giorno, nel travaglio politico. Come appunto mostra l’influenza politico-culturale della Chiesa cattolica o, per altri versi l’islam politico, le concezioni del mondo integrali (insieme di valori religiosi, concezioni sociali e politiche eccetera) sono per natura totalizzanti. Possono accettare tatticamente l’emarginazione temporanea o la coesistenza con altri sistemi di credenze, ma il loro fine è inevitabilmente un mondo organizzato in base ai loro principi esclusivi. Poiché il loro messaggio è universalistico, ed è stato talvolta capace, a parole o nei fatti, di contrastare i lati oscuri della cultura politica occidentale (l’imperialismo, il razzismo eccetera), esso vuole essere inevitabilmente universale. Da qui il suo fascino, anche per i laici. Farò solo un esempio. Nell’affrontare le questioni migratorie, la Chiesa (al di là del paternalismo) è infinitamente più universalistica delle cancellerie occidentali, ossessionate e influenzate dal razzismo esplicito delle minoranze e da quello implicito delle maggioranze. La Chiesa non ha paura di proclamare l’uguaglianza degli abitanti del mondo, il diritto oggettivo alla mobilità umana, la supremazia delle persone sull’arida contabilità economica e demografica. E lo stesso vale per la denuncia della guerra e del capitalismo globale. In altri termini, la forza della religione risiede nella capacità di offrire una sfera compiuta di senso, una visione integrale del mondo. Il che pone i laici di sinistra come me in una situazione paradossale, come giustamente notava la mia amica suora. Essere d’accordo con i cattolici su alcune questioni sociali, ma non sulla famiglia, sulla fecondazione assistita, sull’istruzione privata e così via. Un paradosso che la sinistra cerca di risolvere con ammiccamenti, compromissioni e in fondo opportunismo. C’è una via d’uscita da tutto questo?
Io credo di sì. Se si torna al concetto originale di laicità, e cioè a un’idea di uguaglianza civile e politica, di isonomia, si scopre facilmente che la laicità è incompiuta, anzi che è pura forma giuridico-politica. Il guscio democratico delle società occidentali nasconde a malapena le disuguaglianze, l’autoritarismo politico, il carattere esclusivo, separato e in fondo dispotico di quella che Foucault avrebbe chiamato gouvernamentalité mondiale. Il dominio di strutture di potere economico globale che nessuno ha eletto e che condannano gran parte dell’umanità al sottosviluppo e alla sofferenza. L’ascesa di un complesso militare-industriale planetario. Un uso abietto, su scala locale e globale, della paura (pericolosi lavavetri, minacciosi graffitari, islamici ubiqui eccetera). E così via. La fine ingloriosa del socialismo reale ha comportato il tramonto di concezioni politiche capaci di contrastare una costituzione materiale del mondo basata sugli interessi e le strategie dell’Fmi, della Banca mondiale, dei produttori di armi e delle burocrazie transnazionali. Ecco dove germoglia il fascino del discorso religioso (su questo non posso non essere d’accordo con il gesuita). Ed ecco il terreno di una laicità da ricostruire integralmente.
Nella sua incompiuta e insuperata ricerca sulle religioni universali, Max Weber fa della teodicea, la giustizia ultraterrena, il cuore del messaggio monoteistico. La morte e le sofferenze che la precedono trovano senso nella prefigurazione di un altro mondo di salvezza. I bisbigli degli angeli, il ringhio dei demoni, le voci nel deserto dei profeti e il sacrificio dei martiri testimoniano l’immanenza dell’alterità. Come ha mostrato Peter Brown, il cristianesimo delle origini era capace di conciliare l’attesa dell’avvento con una dinamica organizzazione sociale e culturale dei credenti (ed è per questo, forse, che Costantino decise di fare della setta cristiana, che a
ll’inizio del quarto secolo contava non più del 5 o 10 per cento degli abitanti dell’impero, la sola religione politicamente legittima) (4). Ma anche la vita dei pagani come Giuliano aveva senso nella costante presenza del sacro (brivido della divinità, lo definisce lui). Ossessione di una giustizia che non è raggiungibile nei limiti dell’imperfezione terrena, ma che sovrasta, come un mondo parallelo e incombente, la vita dei mortali. Senza una sfera di giustizia la vita è insostenibile. Questo è semplicemente il terreno in cui le grandi religioni danno forma simbolica e sostanza psicologica alla consapevolezza del dolore e della morte.
Si tratta dunque di comprendere come la religione offra molto di più, di fatto, dello scipito razionalismo che spesso si spaccia per cultura laica. Scipito, proprio perché privo di contenuti di giustizia, perché mera forma logica del mercato, unica divinità effettiva del nostro mondo. Ebbene, la difesa dei diritti – ciò che noi umani, noi laici, abbiamo in comune – può essere la sola risposta efficace alle pretese totalizzanti del discorso religioso. In Assassinio nella cattedrale di Eliot, Thomas Becket si erge contro il re d’Inghilterra in quanto difensore del popolo minuto, anche se il conflitto che porta alla sua uccisione ha forma teologico-politica. Qualcuno vede in giro campioni autentici dei diritti tra i nostri leader politici? Perché lasciare ai vescovi la difesa dei migranti e agli imam l’opposizione al neocolonialismo?
Che cosa ci offre invece il cosiddetto liberalismo, nelle sue forme aggressive o democratiche? Pensiamo solo a casa nostra. Ossessione manipolata e demagogica della sicurezza, da scaricare su qualche capro espiatorio a portata di mano. Gente che si richiama al socialismo e alla democrazia e che vellica gli impulsi più bassi, ventrali, alla protezione spasmodica della roba, se non dei feticci come l’automobile. Uso della legalità in chiave di oppiaceo pubblico, quando le leggi bastano e avanzano, e mentre metà di un paese come l’Italia è in preda a signorie armate locali che fanno affari con le imprese (quando il ministro Amato dice che la mafia si combatte a partire dalla repressione dei lavavetri o dei graffitari, non fa solo criminologia d’accatto: esprime la storica soggezione di gran parte del ceto politico italiano, di destra e di sinistra, ai contropoteri mafiosi). Caccia al teppismo liceale, quando lo Stato non è in grado di offrire un’istruzione universitaria decente. Analfabetismo televisivo, mentre le autorità comunali offrono incessantemente ai loro amministrati notti insonni e concerti di vecchie star imbolsite della canzone popolare. Come non vedere il vuoto che si spalanca dietro queste kermesse del panino imbottito? Verrà lunedì, le cartacce saranno state spazzate, e il consenso che sindaci e assessori pensavano di aver raccattato svanirà, se mai c’è stato. Miseria del consumo di massa che negli anni Sessanta Fellini e i maestri della commedia all’italiana avevano magnificamente messo alla berlina (film a cui il supposto cinefilo Veltroni, campione di una cultura «popolare» eterodiretta, farebbe meglio a ridare un’occhiata).
A questa miseria – che lascia l’amaro in bocca e spalanca la strada a qualsiasi impulso irrazionale a una vita sensata – che ha da contrapporre un autentico sapere laico? Non certamente l’ambito formalistico e sempre più esangue in cui sta naufragando la teoria politica accademica. O quella sorta di capitalismo poco temperato che andava sotto il nome di «terza via». Bensì un’antropologia egualitaria (e quindi laica) ancora frammentaria e forse virtuale, ma di cui esistono sparse intuizioni e che comunque preme nell’agire di centinaia di milioni di nostri simili nel mondo. Nulla di metafisico, perché rientra in quella che Hegel avrebbe chiamato sfera dei bisogni, anche se eccede le dimensioni degli Stati nazionali e ha dimensioni planetarie. L’idea di una sfera pubblica a cui tutti dovrebbero partecipare, al di là delle loro inclinazioni private o culturali. La consapevolezza che tutti noi nasciamo, e dovremmo morire, uguali nella condivisione dei beni terreni, o comunque di quelli indispensabili a una vita decente. Che le istituzioni sono necessarie, ma solo se proteggono i cittadini dalla volontà di potenza dei pochi. Che il male è solo il nome che diamo alla reciproca spoliazione. Che barriere e dogane e confini non solo sono infondati filosoficamente, ma oggi scricchiolanti in ogni dove. Che donne e uomini hanno in comune infinitamente di più della loro apparenza corporea. Che il corpo non è né maledizione, né benedizione, ma sede della libertà. Che esiste una dignità degli artefatti umani di cui tutti dovrebbero partecipare. E così via. Ognuna di queste intuizioni, e innumerevoli altre, rimandano a patrimoni di conoscenza che, benché alimentati in origine dalle teodicee, si sono emancipati definitivamente dal fondo oscuro, la paura e la finitudine, a cui le religioni hanno sempre attinto, e che oggi ci viene additato di nuovo come punizione della laicità…
Se la difesa degli spazi di laicità, che io non vedo se non come cittadinanza in progress, è lasciata ai limatori di convenzioni europee, a qualche sparso erede dei dossettiani o a nostalgici carducciani e frammassoni, la battaglia è perduta in partenza. Ma se invece diviene il terreno di un lavoro dell’umanità per la realizzazione (ovviamente interminabile, per definizione) dell’uguaglianza, allora non tutto è perduto. E allora, coraggio, laici, alziamo la testa.

(1) Per una comprensione della rinascita della Chiesa nel senso «trionfale» qui descritto si veda C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffré, Milano 1986.
(2) Irrazionale significa semplicemente che non si conforma a sequenze di relazioni prevedibili tra mezzi e fini. In un certo senso, ogni nucleo simbolico che chiamiamo cultura rientra in tale definizione.
(3) M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino 2004.
(4) Cfr. P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Albin Michel, Paris 2007. Libro che fa giustizia delle interpretazioni culturaliste e hegeliane della transizione dal paganesimo al cristianesimo. Una scelta politica aleatoria ha consentito l’insediamento del cristianesimo come cultura ufficiale dell’impero romano. La storia non è il terreno di un’evoluzione fatale…



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