Laicità, religione, democrazia
Dall’educazione dei figli alla morale sessuale, dall’eutanasia agli omosessuali, dall’aborto alle coppie di fatto, dalla libertà di espressione alle mutilazioni genitali. Parlare oggi del rapporto tra religioni e democrazia significa affrontare gli argomenti più diversi, perché le varie Chiese pretendono con sempre maggiore forza un posto privilegiato nel dibattito pubblico. Una tavola rotonda tra vari intellettuali, diversi per formazione e paesi d’origine, prova a fare il punto.
Tavola rotonda tra Paolo FLORES D’ARCAIS / Roberta DE MONTICELLI / Thomas NAGEL / Dan SPERBER / Daniel DENNETT / Sam HARRIS / Marcel GAUCHET / Avishai MARGALIT / Fernando SAVATER
(a cura di Gloria Origgi e Noga Arikha)
L’argomento-Dio e la democrazia
Paolo Flores d’Arcais
L’islam fondamentalista e teocratico è da tutti riconosciuto come la negazione della laicità, dell’autonomia della politica dalle confessioni religiose, a partire dalla quale sono nate le moderne democrazie liberali. A lungo ci si è illusi che l’attacco alla laicità venisse solo dall’«esterno» dell’Occidente e facesse tutt’uno con un attacco alla civiltà occidentale, attacco di cui il terrorismo sarebbe la forma estrema. Ma non è più solo l’islam che sfida la visione laica della politica. Papa Ratzinger rovescia l’assunto storico della laicità, come formulato dalla scuola di Grozio, secondo cui nella sfera pubblica bisogna comportarsi «etsi Deus non daretur», nel suo opposto: Benedetto XVI pretende che in una democrazia, se si vuole evitare il tracollo nel nichilismo, ogni cittadino, anche se agnostico, scettico, ateo, debba comportarsi «sicuti Deus daretur». Deve cioè impegnarsi perché la legge si adegui ai precetti della «morale naturale», che coincidono poi con quelli della morale della Chiesa cattolica apostolica romana.
Del resto, negli Stati Uniti numerose congregazioni riformate, spesso di recente radicamento, espansione e aggressiva vitalità, pretendono la stessa cosa: che diventi reato perseguibile penalmente ciò che esse considerano peccato. Ed è lo stesso presidente degli Stati Uniti che dichiara di ricevere per illuminazione religiosa, direttamente da Gesù, le direttive essenziali per le sue decisioni politiche. Questo rovesciamento della tradizione laica, questo ripudio dell’«etsi Deus non daretur», non è dovuto anche alle ambiguità e incertezze con cui il principio di laicità è stato affermato sia in sede politica che in ambito culturale?
Solo in Francia e in Olanda, di fatto, a tale principio è stato dato seguito con sufficiente coerenza e rigore. E perfino in questi paesi viene oggi rimesso in discussione. Negli Stati Uniti, infatti, cioè nella democrazia più potente del mondo, laicità non ha mai voluto dire il dovere di tenere Dio fuori dalla sfera pubblica, dalla argomentazione politica. Anzi. I politici di ogni tendenza si sono sempre richiamati a Dio. E si è pensato (o forse ci si è illusi) che la molteplicità concorrenziale e individualistica delle Chiese, che alimentava una religiosità diffusa e onnipervasiva (anche nel discorso politico), costituisse un baluardo contro pretese confessionali e dogmatiche.
Eppure, la laicità è la rigorosa neutralità dello Stato rispetto a ciascun cittadino (quale che sia la sua religione o la sua non religione) in tutti gli aspetti della vita pubblica. Ma come è possibile tale neutralità, se nella decisione politica si ammette Dio come argomento? Una volta ammessa tale presenza, infatti, non si tratta solo dei noti problemi (e antinomie che ne derivano): quale Dio? chi ne sarà l’interprete autorizzato? come risolvere il conflitto tra diverse e incompatibili «volontà di Dio»? Anche se tali problemi fossero risolvibili, resterebbe la discriminazione nei confronti del cittadino non credente, ridotto a cittadino di serie B.
Allora, forse non è un caso che, accettata la presenza dell’argomento-Dio nella sfera pubblica, anziché il perdurare e il rafforzarsi di un’autolimitazione delle pretese mondane delle diverse confessioni, si assista a una nuova ondata di moralismi e dogmatismi confessionali che pretendono di diventare norma cogente erga omnes (i cittadini diversamente credenti e quelli non credenti), cioè legge dello Stato.
Se si rinuncia all’«etsi Deus non daretur», se nell’argomentazione pubblica viene legittimata l’irruzione della «volontà di Dio», allora sarà un argomento che un Dio è contro l’aborto, ma anche che un Dio è a favore della poligamia, e che un Dio esige la mutilazione sessuale delle bambine, e che un Dio considera inammissibili le trasfusioni di sangue… Fino al Dio, come sappiamo, che impone la lapidazione delle adultere. Se si rinuncia all’«etsi Deus non daretur» nella sfera pubblica, insomma, l’alternativa è solo una sharia, cristiana o islamica o ebraica o di qualsivoglia altra religione. Più o meno soft, ma legittimata in via di principio.
Allora, forse la coerenza «francese» sul velo e i simboli religiosi esclusi dalle scuole e dai luoghi pubblici non costituiscono una forma di estremismo e oltranzismo laicista (o addirittura di fondamentalismo laicista, come è stato detto), ma un giustificato richiamo a non utilizzare l’identità religiosa in contrapposizione alla comune identità di cittadini.
La contestazione di una idea rigorosa e intransigente di laicità non viene però solo dagli ambienti clericali e delle destre religiose. Un multiculturalismo che si dichiara progressista sta esercitando analogo attacco. Ma l’atteggiamento multiculturalista, che giustifica pratiche e credenze lesive dell’eguale dignità degli individui in nome della «appartenenza» a una tradizione, è davvero «progressista»? Parafrasando Marx, si potrebbe ribadire che una cultura può essere libera, senza che siano liberi coloro che vi appartengono. In nome della libertà di una cultura, si possono negare i diritti e le libertà dei singoli che a tale cultura «appartengono». Quando un bambino viene educato in una madrasa o in un «ghetto» fondamentalista di Gerusalemme o in una chiusura autoreferenziale famiglia-scuola cristiana, chi è libero? Il multiculturalismo, insomma, premia gerarchia e conformismo del gruppo rispetto al dissenso dell’individuo. L’appartenenza è l’opposto dell’autonomia e dello spirito critico.
Del resto, in occasione del film di Theo van Gogh, delle «vignette sataniche», e di altri casi di attività culturali o giornalistiche considerate «offensive» dai fedeli del Profeta (e casi analoghi non sono mancati in passato anche per opere ritenute «blasfeme» dalla Chiesa cattolica e altri ambienti cristiani), molte voci, anche «a sinistra», hanno assunto un atteggiamento di comprensione per le culture «offese», anziché ribadire la più radicale condanna di ogni tentativo di censura.
Anche in ambito strettamente culturale l’atteggiamento laico si è fatto sempre più debole, difensivo, perfino remissivo. Proclamare la superiorità cognitiva dell’ateismo è ormai bollato come residuo positivistico-ottocentesco. Sembra quasi che sia l’ateo a doversi discolpare sotto il profilo filosofico dall’accusa di dogmatismo! La razionalità non si riduce, ovviamente, ai s
oli asserti accertati dalle scienze sperimentali. Ma non può pretendere razionalità ciò che sia in contraddizione con tali asserti, e con quanto da essi può essere per via logica estrapolato. Né può pretendere l’etichetta di razionalità una qualsiasi ipotesi che cada sotto i colpi del «rasoio di Occam», che sia cioè superflua come spiegazione di fenomeni già altrimenti spiegati. Ciascuno è libero di credere oltre e al di là e perfino contro ciò che è razionalmente accertabile (scienza + logica), ma non di pretendere che questa sua fede sia anche ragione.
Ma il tentativo, costantemente rinnovato dalle più diverse tendenze filosofiche, di «dimostrare» i propri valori come iscritti nei fatti scientifici o nella «natura» (in barba alla più grande conquista filosofica moderna, la cosiddetta «legge di Hume», per cui un «ought» non può mai essere derivato da un «is»), apre la strada a infiniti surrogati delle religioni tradizionali, anziché a una laicità del pensiero compiutamente antimetafisica. E dunque al riconoscimento che, padroni e signori della norma (che non esiste in natura), siamo assolutamente responsabili nei confronti dei valori che scegliamo.
Una riscossa politica e culturale di laicità coerente e intransigente non è allora necessaria (anche se non sufficiente: restano cruciali i problemi materiali dei cittadini) per contrastare la crisi delle democrazie in cui viviamo?
Evitare lo scontro tra visioni del mondo
Thomas Nagel
Presentando la scelta tra teocrazia, laicità e multiculturalismo, Paolo Flores d’Arcais non considera un’alternativa importante, ossia un vincolo sull’uso del potere dello Stato a sostegno di qualsiasi posizione sulle questioni religiose fondamentali, ateismo incluso. La laicità, così com’è intesa da Flores d’Arcais, è la politica di scoraggiare l’ortodossia religiosa e in modo particolare l’indottrinamento dei bambini da parte degli ortodossi attraverso l’educazione privata. Il multiculturalismo è una politica di incoraggiamento della differenza, che sostiene ogni gruppo o confessione per proteggerlo dalla competizione culturale. Ma è possibile, in una società pluralistica, non fare né l’uno né l’altro. È questa la filosofia costituzionale ufficiale degli Stati Uniti, e, benché il suo spirito sia violato dalla retorica religiosa di figure politiche come il presidente Bush e sia stata osteggiata dalla destra religiosa, ha tenuto eccezionalmente bene grazie a rinforzi legali della Costituzione.
Questo non significa che sia la politica giusta. Ha costi notevoli, come sottolinea Flores d’Arcais, dato che la protezione della libertà religiosa contro l’interferenza dello Stato significa che le famiglie hanno l’autorità di inculcare ai figli particolari credenze religiose e morali – sul peccato, la vita sessuale e le relazioni tra uomini e donne, per esempio – che sia io che voi consideriamo non solo false, ma pericolose. Mi sembra nondimeno che valga fortemente la pena di evitare, se possibile, una battaglia su quale Weltanschaung religiosa o antireligiosa si imporrà sulla popolazione grazie all’uso del potere dello Stato. Impedire questa battaglia mantenendo la religione privata è la prima linea di difesa contro le pressioni teocratiche, anche se significa rifiutare di estendere la protezione integrale della libertà individuale da parte dello Stato ai bambini all’interno della famiglia.
Forse è solo un lapsus quando Flores d’Arcais dice che qualsiasi cosa contraddica le affermazioni delle scienze naturali non può stare dalla parte della razionalità. Certe affermazioni delle scienze sperimentali possono ovviamente essere erronee, come riconoscerebbero coloro che le hanno formulate. Possono essere contraddette da altre teorie basate su nuovi dati o su re-interpretazioni di dati precedenti. Quello che probabilmente Flores d’Arcais vuole dire è che nessuna spiegazione religiosa di un fenomeno può essere considerata razionale se esiste una spiegazione possibile dello stesso fenomeno nelle scienze empiriche. Mi chiedo se questo sia vero solo quando disponiamo di spiegazioni scientifiche complete e ben confermate o se Flores d’Arcais vuol dire qualcosa di più. Io credo che molti atei accettino una visione del mondo naturalista secondo la quale le spiegazioni religiose dei fenomeni hanno una probabilità a priori pari a zero e dunque non devono essere considerate in nessuna circostanza potenziali rivali delle spiegazioni in termini di leggi fisiche. Ma ovviamente questa proposizione non può essere stabilita dalle scienze naturali.
Questioni di fatto
Dan Sperber
Il dibattito comincia bene con le questioni di fondo ben formulate nell’intervento di Flores d’Arcais e con il commento di Nagel. Per prima cosa – poi interverrò sulle questioni più essenziali – vorrei precisare qualche fatto.
Flores d’Arcais si chiede se la coerenza dei francesi nel vietare il velo e i simboli religiosi nelle scuole e negli spazi pubblici possa essere giustificata come difesa di un’identità collettiva. Voglio precisare che in realtà i simboli religiosi ostentatori sono proibiti in Francia solo nelle scuole pubbliche. Non sono proibiti nelle scuole private né nelle università, pubbliche o private. Il diritto di portarli in pubblico o in privato è difeso dalla legge. Lo scorso 9 ottobre a Strasburgo il proprietario di un B&B è stato condannato a quattro mesi di prigione con la condizionale per aver rifiutato una donna che indossava il velo.
Non esiste una legge in Francia contro «l’uso dell’identità religiosa in contrapposizione alla comune identità dei cittadini», anche perché sarebbe difficile immaginare in cosa consisterebbe tale identità collettiva. Quel che esiste nel servizio pubblico è un «principio di neutralità» che impedisce ai funzionari pubblici (docenti, impiegati delle poste eccetera) di rendere manifeste sul posto di lavoro le loro convinzioni religiose. Lo stesso principio garantisce che la loro assunzione e la loro carriera non saranno influenzate dalle loro convinzioni.
Nagel scrive: «Presentando la scelta tra teocrazia, laicità e multiculturalismo, Paolo Flores d’Arcais non considera un’alternativa importante, ossia un vincolo sull’uso del potere dello Stato in sostegno di qualsiasi posizione sulle questioni fondamentali della religione, ateismo incluso».
Ma quest’ultima alternativa non è precisamente la laicità? La difesa dello Stato dell’ateismo esisteva nei paesi comunisti, ma è totalmente assente nei paesi laici standard come la Francia.
Nagel continua scrivendo: «La laicità, così com’è intesa da Flores d’Arcais, è la politica di scoraggiare l’ortodossia religiosa e in modo particolare l’indottrinamento dei bambini da parte degli ortodossi attraverso l’educazione privata». Per Flores d’Arcais, come per la maggior parte della gente, la Francia è il caso paradigmatico di laicità. Però le scuole private religiose sono molto comuni in Francia, e la maggior parte di esse sopravvive grazie alle sovvenzioni dello Stato, sovvenzioni che non ricevono «in quanto» scuole religiose, ma come tutte le scuole private che accettano di insegnare il programma scolastico nazionale e si sottomettono a una serie di controlli e regolamentazioni. Dop
odiché sono libere di aggiungere a tutto questo l’insegnamento di una religione. Ancora Nagel scrive: «La laicità […] è la politica di scoraggiare l’ortodossia religiosa. […] Il multiculturalismo è una politica di incoraggiamento della differenza, che sostiene ogni gruppo o confessione per proteggersi dalla competizione culturale. Ma è possibile, in una società pluralistica, non fare né l’uno né l’altro. È questa la filosofia costituzionale ufficiale degli Stati Uniti». Ma non è forse vero che in America le istituzioni religiose beneficiano – in quanto istituzioni religiose, di importanti riduzioni di tasse? Non è questo un modo di «dare supporto a ogni confessione per proteggerla dalla competizione culturale» in particolare dall’ateismo? Il risultato è che tutti i contribuenti americani sono così costretti a dare sussidi alla religione. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Nagel.
Un programma obbligatorio di educazione religiosa
Daniel Dennett
Thomas Nagel scrive: «Mi sembra nondimeno che valga fortemente la pena di evitare, se possibile, una battaglia su quale Weltanschaung religiosa o antireligiosa si imporrà sulla popolazione grazie all’uso del potere dello Stato. Impedire questa battaglia mantenendo la religione privata è la prima linea di difesa contro le pressioni teocratiche, anche se significa rifiutare di estendere la protezione integrale della libertà individuale da parte dello Stato ai bambini all’interno della famiglia».
In primo luogo, vorrei capire in dettaglio perché valga «fortemente» la pena di evitare questa battaglia, dato che sono molto scettico a proposito e trovo la controproposta di Nagel rovinosa. Così come la capisco io – ma forse mi sto sbagliando – Nagel sostiene che si debba «mantenere la religione nella sfera privata», il che significa che dobbiamo sacrificare il benessere attuale e futuro di alcuni bambini – forse di molti – al fine di mantenere un alquanto precario controllo sull’intervento dello Stato nelle faccende private. Invece di avere un (pericoloso? rancoroso? destabilizzante?) braccio di ferro politico su quale Weltanschaung debba fissare i limiti e i princìpi dell’intervento dello Stato in situazioni che possono essere definite di «abuso di minori», dovremmo semplicemente accettare l’idea che, nel caso dell’istruzione religiosa, i genitori hanno il diritto di trattare i loro figli in modo tale che in qualsiasi altro contesto sarebbero spediti in prigione. Penso che dobbiamo abbattere questa tradizione, non preservarla. E sono disposto a digrignare i denti e ad accettare il braccio di ferro politico. Può essere una battaglia aperta e non furtiva e c’è molto spazio per il dovuto equilibrio di poteri in modo da evitare il tipo di teocrazia o ateocrazia strisciante che sembra preoccupare Nagel.
La mia modesta proposta è quella di istituire un programma obbligatorio di insegnamento della religione. Ecco come l’ho spiegato nel mio libro Rompere l’incantesimo (Cortina editore): «Aumentiamo, dunque, le ore di istruzione religiosa nelle scuole, anziché diminuirle. Ai nostri bambini dovremmo insegnare dottrine e costumi, proibizioni e rituali, testi e musiche, e quando trattiamo di storia della religione, dovremmo includere sia i lati positivi – come, per esempio, il ruolo delle Chiese nel movimento per i diritti civili degli anni Sessanta del Novecento, la fioritura della scienza e delle arti nel primo Islam, il ruolo dei Musulmani Neri nel portare speranza, onore e rispetto di sé nelle vite fatte a pezzi di molti detenuti delle prigioni Usa – sia i lati negativi – l’Inquisizione, i secoli di antisemitismo, le responsabilità della Chiesa Cattolica Romana (con la sua opposizione all’uso dei contraccettivi) nella diffusione dell’Aids in Africa. Nessuna religione dovrebbe essere favorita, nessuna andrebbe ignorata. E quando scopriremo più cose sulle basi psicologiche e biologiche delle pratiche e degli atteggiamenti religiosi, tali scoperte andranno aggiunte al piano di studio, nello stesso modo in cui aggiorniamo i programmi nel campo della scienza, della salute o dell’attualità. Tutto questo dovrebbe far parte del curriculum richiesto per la scuola pubblica e privata. Ecco, quindi, una proposta: finché genitori non insegnano ai loro figli niente che potrebbe chiudere la loro mente 1) attraverso paure o avversioni o 2) rendendoli incapaci di interrogare le cose (negando loro un’istruzione, per esempio, o tenendoli completamente isolati dal mondo), essi potranno insegnare ai loro figli tutte le dottrine religiose che vorranno. È soltanto un’idea (e probabilmente ce ne sono di migliori da prendere in considerazione), ma dovrebbe attrarre gli amanti della libertà che sono ovunque: l’idea di insistere che i devoti di ogni religione debbano affrontare la sfida di rendere sicura la loro dottrina è abbastanza degna, abbastanza attraente, plausibile e sensata, per resistere alle tentazioni dei suoi competitori. Se hai bisogno di mettere i paraocchi – o una benda – ai tuoi figli per assicurare che confermino la loro fede quando saranno adulti, allora la tua fede deve scomparire» (p. 352-353).
Ci sono ovviamente molte obiezioni a cui bisogna rispondere. In primo luogo, ci si può chiedere come sarebbe mai possibile stabilire in pratica un programma di questo genere. Chi «detta» quali sono i fatti da includere e quelli da omettere? Certo sono in molti a pensare che sarebbe il focolaio di una tempesta politica. Ma io non ne sono convinto. Se possiamo concepire un processo politico che non sia solo trasparente ed equo, ma facilmente percepibile dal pubblico come tale, possiamo riuscire a raggiungere un consenso stabile su cosa va inserito nel curriculum e cosa resta fuori – e questo dovrebbe essere rivedibile nel tempo, a seconda di cosa impariamo sulla religione, dato che il processo politico dovrebbe essere in grado di mantenersi e di correggersi da solo. Tutte le religioni, piccole e grandi, sarebbero invitate a partecipare, così come i rappresentanti dei gruppi non religiosi, che negli Stati Uniti sono più numerosi di molte delle principali religioni. Ci sono circa 750 milioni di atei nel mondo oggi, il doppio dei buddisti, quaranta volte più degli ebrei, e più di cinquanta volte più dei mormoni, secondo uno studio recente di Philip Zuckerman. Tutte le religioni (principali e non) verrebbero invitate a presentare degli autoritratti delle loro tradizioni che includano tutto il materiale che vorrebbero che gli altri sappiano di loro, entro certi limiti di lunghezza. Nessuna religione ha la maggioranza nel mondo, e – in prima approssimazione, che può essere in seguito rivista – lo spazio e il tempo nel programma dovrebbero essere proporzionali al numero di fedeli nel mondo. Questi autoritratti sarebbero oggetto di critiche e obiezioni sulla base della loro inaccuratezza sui fatti, e altri rappresentanti (studiosi e altre parti interessate) avrebbero l’opportunità di proporre di includere fatti importanti lasciati fuori dagli autoritratti. Queste dispute sui fatti potrebbero poi essere risolte in qualcosa come un processo legale, che verrebbe senza dubbio reiterato più volte fino a quando non ci si accorda su una versione che possa essere approvata da tutti. È un processo che sappiamo gestire. Abbiamo negli Stati Uniti un equilibrio di poteri che può da un lato impedire alle religioni di nascondere verità vergognose ma innegabili, e dall’altro di prevenire che le religioni si alleino per mortificare le minoranze religiose. C’&egrav
e; bisogno di una volontà politica perché questo avvenga, ma chi non vede oggi l’importanza di dare una luce razionale alla soluzione di questi problemi?
(È da notare che la verità e la falsità delle dottrine religione non sarebbero incluse nel programma, dato che non c’è un singolo punto di una qualunque dottrina religiosa che sia riconosciuto come un fatto indiscutibile dalla comunità mondiale).
Un’altra obiezione che ho sentito spesso a quest’idea ritiene che sia ben poco realistico aspettarsi che gli insegnanti delle scuole private e i precettori a casa si adeguino al programma, dato che molti di loro lo troverebbero contrario alla loro visione del mondo. E certamente anche un numero significativo di insegnanti delle scuole pubbliche insegnerebbero di malavoglia il programma, ma non penso che sia importante. Mi va bene che gli insegnanti dicano agli studenti: «Questo programma obbligatorio è una schifezza, l’opera di Satana, un compromesso politico miserabile che uno Stato senza pietà vi fa ingoiare», basta che aggiungano: «In ogni caso, sarete interrogati e giudicati sul programma, e se non passate l’esame, dovrete rifarlo». La semplice esposizione, anche se tendenziosa, all’idea che la maggior parte della gente nel mondo crede che questi siano fatti dovrebbe riuscire a vaccinare molti bambini dai virus tossici di certe religioni. La credibilità dei maestri sarebbe anch’essa messa in questione se inveiscono contro il programma e, più il programma è ben fatto, più difficile sarà sostenere questa posizione. Qualche trasmissione televisiva e un buon sito web dovrebbero anche aiutare ad attenuare le posizioni di coloro che cercano di screditarlo.
Forse l’obiezione più seria che ho sentito è quella che il programma nelle scuole è già saturo. Cosa si potrebbe togliere per far posto a questo nuovo insegnamento? È ovviamente un’altra questione politica difficile, ma coloro che considerano che l’ignoranza diffusa sulla religione – specialmente dato il potere emotivo di quest’ignoranza – è una condizione pericolosa se persiste, dovranno aiutare gli insegnanti a decidere come dare priorità a queste questioni e glissarle nel programma. Abbiamo già le tre R nella scuola americana [i tre saperi di base che la scuola elementare deve insegnare: ‘reading’ (leggere), ‘riting’ (writing: scrivere) e ‘rithmetic’ (arithmetics: aritmetica)]. Chi pensa veramente che questa quarta R sia meno importante nel ventunesimo secolo?
Infine, mi sono divertito a sentire alcuni fieri oppositori del progetto definirlo «fascista» o «totalitarista», quando in realtà è una ventata rinfrescante di libertà: ognuno può insegnare quello che vuole sulla religione senza alcuna interferenza dello Stato, a patto che insegni anche questi fatti di base. Quanta libertà vogliamo? La libertà di mentire ai nostri figli? La libertà di farli crescere nell’ignoranza? Non avete la proprietà dei vostri figli come si aveva la proprietà degli schiavi e non avete il diritto di renderli incapaci con l’ignoranza. Avete il dovere di lasciar loro acquisire le conoscenze che sono disponibili agli altri bambini, com’è normale per chi cresce in una società libera. Inoltre, queste conoscenze li arricchiranno in molti modi, dato che aiuteranno a render loro più accessibili i capolavori della musica, dell’arte, della letteratura del mondo intero e daranno loro quella prospettiva speciale sulla propria vita che si ha solo confrontandola con la vita degli altri.
Un’ultima osservazione. La mia proposta non vuole diluire il principio della libertà di confessione: potete insegnare ai vostri figli quello che volete, a patto che insegniate loro anche il programma obbligatorio. Potete obbligarli a seguire rituali e osservare divieti, a patto che li teniate informati nel modo che ho indicato. Il programma obbligatorio non riuscirebbe certamente a cancellare le pratiche dubbie che le religioni hanno oggi la libertà di imporre sotto la rassicurante protezione della libertà religiosa, ma sicuramente renderebbe più difficile agli adulti mantenere queste tradizioni una volta che i bambini siano informati della vita degli altri. Per una testimonianza vivida del potere della conoscenza di altre vite, altri costumi, leggete Infedele, la storia commuovente di Ayaan Hirsi Ali, cresciuta nella Somalia musulmana, e l’effetto liberatorio che ebbe su di lei la lettura delle storie di Nancy Drew. Se insistiamo per lasciare scorrere l’informazione verso tutti i bambini, le religioni tossiche faranno fatica a sopravvivere, mentre le religioni che meritano il nostro rispetto prospereranno, e tutto ciò può essere ottenuto senza abrogare il principio della libertà religiosa.
Ma insomma, non siamo filosofi?
Roberta De Monticelli
Leggendo il testo e le questioni poste da Flores d’Arcais, e i commenti di Thomas Nagel, Dan Sperber e Daniel Dennett, sono rimasta sorpresa dal fatto che tre filosofi così eminenti sembrassero soddisfatti di discutere solamente la dimensione pratica, addirittura procedurale, del dibattito, così com’è stato lanciato dal suo promotore. Cosa dobbiamo fare per prevenire l’impatto negativo del fondamentalismo sulla cultura, sulla libertà individuale e sull’educazione dei giovani. Cosa è già stato fatto qui e là. Perché non è abbastanza, e via di seguito. È vero che si tratta di un dibattito sul laicismo, introdotto in riferimento allo stato attuale del dibattito pubblico italiano, dominato dal tentativo apparente di papa Ratzinger di restaurare una sorta di potestas indirecta della Chiesa sullo Stato, attraverso attività politiche e ideologiche intense messe in atto dalle associazioni e dai partiti cattolici di destra riguardo all’eutanasia, alla procreazione assistita, ai diritti civili delle coppie non sposate o omosessuali e così via.
Credo però che ci siano delle questioni fondamentali che valga la pena di sollevare. Eccone alcune, per tutti i partecipanti.
1) Laicità, teocrazia, multiculturalismo possono essere considerate politiche, ma anche atteggiamenti fondamentali verso la religione: ossia, modi diversi di concepire il suo ruolo nella società, nella vita e nell’etica pubblica, così come nell’educazione e nella politica. Ma per valutare quale di queste alternative sia appropriata e ancor di più cercare di capire se ce ne sono di migliori, bisognerebbe prima chiedersi se esiste o no un insieme coerente di caratteristiche comuni a tutte le religioni – un’essenza della religione, per così dire. Solo nel primo caso ha senso discutere gli atteggiamenti fondamentali menzionati sopra; altrimenti è meglio specificare di quale religione si sta parlando, caso per caso.
Provo a formulare una risposta alla domanda, almeno per renderla più chiara. Io penso che ci siano alcune proprietà comuni a tutte le religioni che sono sopravvissute alla modernità:
a) La trascendenza. La prima qualifica il principale oggetto della religione, il divino – sia che sia concepito come un essere animato o no. Senza eccezioni, il divino è caratterizzato come trascendente le categorie del nostro linguaggio, e dunque al di là della ragione e della comprensione umana, anche se non necessariamente in opposizione a esse. Questo è vero delle maggiori religioni non cristiane esistenti, come il buddismo, privo di un Dio personale, o l’induismo, privo di un solo Dio personale; ma è vero anche del cristianesimo,
la religione dell’incarnazione, dato che troviamo nei Vangeli molti moniti contro chi vuole possedere lo spirito divino (noli me tangere), per non dire dei tentativi di utilizzare il suo nome per interessi politici o umani (questo è un «peccato contro lo spirito», l’unico che non può essere perdonato). Ma la trascendenza assoluta, affermata dai più grandi filosofi antichi e moderni (Agostino, Anselmo, Tommaso d’Aquino, il maestro Eckhart, Nicola Cusano, Kant e molti altri), è un fatto comune alle tre «religioni del Libro», anche in virtù del loro background comune neoplatonico nell’epoca del loro fiorire. È per questo che è così sorprendente sentire il papa contestare a Ratisbona un’eredità filosofica e razionale condivisa con la religione islamica. Come spiega Kant, come sa bene Shakespeare, non è contro la razionalità pensare che il pensiero concettuale e linguistico ha i suoi limiti al di là dei quali ci sono molte più cose di quello che possiamo dire.
b) Le radici del male. Anche se è particolarmente sottolineato nella cristianità, a mia conoscenza in nessuna religione ancora in vita manca un’analisi profonda dei passi attraverso i quali un uomo o una comunità costruisce la sua esistenza (inautentica) esportando istinti aggressivi e incolpando l’altro. Nella maggior parte delle tradizioni religiose si trova un’analisi profonda dell’auto-giustificazione e dell’auto-asserzione, sia individuale che comunitaria. Sotto questo aspetto, la religione è un invito all’interiorità, nel senso preciso di decostruzione di un volere interessato ed egoista, in vista di una riforma e di una rinascita di una nuova individualità naturale, libera (o meno dipendente) dalle illusioni di un’identità che afferma sé stessa, ma non indifferente alla realizzazione di una vita individuale piena, fiorente e creativa – e capace di riconoscere la trascendenza di ognuno di noi relativamente a ogni definizione sociale o psicologica.
Se queste osservazioni sono plausibili, allora la domanda che segue è questa:
2) gli effetti negativi (su un pensiero laico, moderno, civile e moralmente decente, sull’educazione o sulla libertà della ricerca scientifica) che sono comunemente attribuiti alla religione o alle religioni, sono davvero da attribuire a essa o non dovrebbero piuttosto essere attribuiti alle degenerazioni politiche e istituzionali delle religioni (come il peccato contro lo Spirito)? E se qualcuno obietta che una distinzione del genere non può essere fatta, allora perché nella maggior parte delle Chiese (inclusa la Chiesa cattolica) ci sono uomini molto eminenti (vescovi, per esempio) che rappresentano e difendono quello che suggerisco nella seconda domanda? Per esempio, il cardinale Carlo Maria Martini, che è quasi diventato papa e che ha scritto la prefazione di un libro rivoluzionario sull’anima scritto da Vito Mancuso, è di quest’avviso. Più in generale: perché la storia dei movimenti di più grande rinnovamento della cristianità è una storia antistituzionale o ha influenzato le più profonde riforme delle Chiese?
Se pensate che la distinzione dipenda dalla religione che considerate e che, per esempio, un ruolo istituzionale e politico è essenziale alla Chiesa cattolica, allora la domanda seguente potrebbe essere:
3) a che scopo una religione si organizza come istituzione terrena? Siamo capaci di trovare obiettivi e fini che siano specificatamente religiosi, ossia legati alla spiritualità religiosa (distinta dal pensiero, dalla moralità, dalla legge e dall’arte) e non all’ideologia, ossia tentativi di conferire forza politica a valori spirituali? Penso in realtà che la risposta possa essere positiva e, almeno per quanto riguarda la Chiesa cattolica, penso che lo scopo di un’istituzione terrena sia di rendere possibile la contemplazione e la vita spirituale sulla terra, e non di influenzare l’etica pubblica, la legge o il governo. Questo è ciò che distingue storicamente e idealmente il cattolicesimo da alcune Chiese protestanti. La contemplazione contro l’etica calvinista, la santificazione del visibile contro l’ascetismo intramondano e così via. Ma, anche se mi sbaglio, questa domanda ne suggerisce un’altra, che può permettere di riorientare il dibattito:
4) d’accordo, la funzione critica degli intellettuali e dei filosofi è una cosa buona, necessaria e sacrosanta. La nostra eredità, l’Illuminismo, l’autonomia morale, il liberalismo, il libertarismo, la democrazia che si preoccupa dello sviluppo libero e pieno delle personalità, la libertà di ricerca, la libertà della scienza, la libertà dell’ateismo e della religione: tutto questo è indispensabile. Le critiche specifiche fatte da Flores d’Arcais e da Daniel Dennett sono perfettamente ben fondate. Però, se consideriamo le mie domande 1-3, non dovrebbero i filosofi cercare di portare anche la ragione, l’analisi concettuale e culturale nello spazio del dibattito attuale, e discutere con i rappresentanti della religione il posto appropriato della religione nella società, invece di accettare di ridurre il dibattito a uno scontro tra teocrazia e laicità? Non sarebbe meglio che aiutassero – come filosofi e intellettuali – un numero sempre maggiore di persone a desiderare una vita spirituale migliore, a conoscere il meglio e l’anima specifica delle tradizioni religiose, e a distinguere lo spirito dall’ideologia, o peggio, dall’idolatria?
Forse la proposta di Dennett di un programma sulla(e) religione(i) risponde a questa esigenza, ma non ne sono sicura…
Laicità senza compromessi
Sam Harris
Nel suo intervento, Paolo Flores d’Arcais sostiene che è necessario sviluppare un «laicismo coerente e senza compromessi» come salvaguardia della democrazia. Ha sicuramente ragione su questo, e la garanzia di un progetto simile non è difficile da trovare: dopotutto, cos’altro potrebbe far convivere in pace persone che professano fedi incompatibili?
Siamo esseri umani con interessi in competizione e questo ci porta a una scelta perpetua tra conversazione e violenza. Il problema con la religione è che è l’unico modo di pensiero che scoraggia sistematicamente la conversazione, perché attribuisce un valore positivo al fatto che una persona resti esclusa da nuove scoperte sul mondo e nuovi argomenti (questa chiusura viene chiamata eufemisticamente «fede», e generalmente è considerata al di là di qualsiasi critica). La religione dunque merita uno sforzo speciale di scomunica pubblica. La miglior strategia che abbiamo trovato per minimizzare i danni provocati da certezze religiose incompatibili è di negare loro l’accesso alle leve del potere statale. Questa è la laicità, ed è in pericolo dovunque.
Il dibattito attuale sul ruolo della religione nella vita pubblica è motivato inevitabilmente dalle conseguenze spaventose di certe credenze religiose. Bisogna però notare che è spesso difficile prevedere quale sarà il risultato di una dottrina religiosa. Per esempio, l’idea che l’anima abita lo zigote al momento della concezione poteva sembrare innocua fino a quando non abbiamo scoperto il potenziale terapeutico delle cellule staminali degli embrioni. Ora, il sospetto che un centinaio di anime umane possano vivere dentro una provetta impedisce una delle ricerche più importanti in medicina.
Se le conseguenze pubbliche di certe credenze sono difficili da prevedere, gli effetti di a
ltre sembrano una questione di necessità logica. Molti musulmani considerano l’adulterio, l’apostasia, l’omosessualità e la blasfemia delle offese che meritano la morte. Non è difficile predire che tali convinzioni siano incompatibili con una società civile. Molti cristiani pensano che il mondo stia per finire e che Gesù tornerà per dispensare giustizia con i suoi poteri magici. Vi sembra credibile che idee simili aiutino politiche economiche e ambientali intelligenti?
Per rinforzare la laicità abbiamo bisogno di nuove regole di conversazione, non di leggi. Per esempio, non c’è nessuna legge che impedisca di pensare che Elvis Presley sia ancora vivo. Cosa impedisce che questa credenza invada le università e i consigli di amministrazione? Il principio di immunità è semplice: chiunque dica in pubblico che Elvis Presley è ancora vivo – in una lezione, in un colloquio di lavoro, o a un primo appuntamento – pagherà subito il prezzo del sarcasmo e dell’esclusione sociale.
C’è un principio generale che funziona in questo caso: chiunque abbia l’abitudine di esprimere certezze infondate (su qualsiasi altro argomento eccetto la religione) avrà notevoli problemi a raggiungere qualche obiettivo nella vita. Non viene chiesto a queste persone di dirigere grandi aziende. Non vincono le elezioni. Sono quelli che possono aspettarsi di trovare il loro biglietto da visita depositato con discrezione nel cestino della carta straccia. Vale la pena di osservare che questo genere di rimproveri non ha bisogno di nessuna legge contro il credere o il diffondere credenze particolari. Per porre la laicità su basi solide, dobbiamo solo mantenere riguardo ai discorsi su Dio gli stessi standard di ragionevolezza che utilizziamo in qualsiasi altra sfera della nostra vita. A questo scopo, è essenziale comprendere che la differenza tra scienza e religione non è, come spesso viene dichiarato, una differenza di contenuto. La credenza che Gesù sia nato da una vergine può forse essere uno dei dogmi principali della cristianità, ma è anche una credenza sulla biologia. La religione e la scienza sono semplicemente modi diversi di formare opinioni sul mondo, che richiedono standard empirici e livelli di autocritica differenti. Quale che sia il soggetto in questione, ci sono buone e cattive ragioni per credere a una proposizione. E la religione ha fatto delle cattive ragioni una forma d’arte. Se c’è qualcosa nell’esperienza di un Gesù o di un Budda che vale la pena di esplorare (e io penso che ci sia), questo spettro di esperienze umane può essere discusso razionalmente e i contemplativi possono essere vincolati ai più alti standard di coerenza logica e rigore empirico. Non dovremmo avere più pazienza per la falsa certezza sulla «trascendenza» di quanta ne abbiamo per l’epidemiologia, la progettazione degli aerei o la pianificazione urbana.
Un altro mito che mantiene la religione immune da critiche è l’idea che la scienza non getta nessuna luce sulla moralità. Sono in molti a credere che un «essere» non può implicare un «dover essere» e che dunque ci troviamo davanti a una scelta obbligata tra la legge di Dio e il relativismo morale. In realtà, una volta capito che la moralità riguarda la felicità e la sofferenza delle creature, possiamo vedere facilmente che le questioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato possono essere oggetto di una ricerca empirica. Ci sono fatti oggettivi che possiamo imparare sulla felicità umana? Ce ne devono essere di sicuro. Non sembra troppo presto per dire che, come regola, l’amore è meglio dell’odio e la compassione è meglio della crudeltà. Può passare molto tempo prima di comprendere la felicità umana a livello cerebrale e prima di essere in grado di sviluppare una spiegazione dettagliata del ruolo dei geni, delle strutture sociali e di altre variabili nell’incoraggiare le forme più profonde di benessere psichico. Ma eravamo in grado di giudicare già un certo numero di secoli fa che l’«omicidio d’onore» era assolutamente sbagliato – oggettivamente, transculturalmente, senza la più piccola concessione morale al relativismo. L’omicidio d’onore è semplicemente una strategia terribile per massimizzare la felicità umana. Ammettere questo significa riconoscere che alcuni sistemi di credenze sono peggiori di altri (secondo ogni criterio che possiamo ragionevolmente prendere in considerazione). La sola strategia che sembra poter impedire alle credenze peggiori di avere influenza pubblica è un «coerente laicismo senza compromessi».
Distinguere i problemi
Marcel Gauchet
In cosa potrebbe consistere la «controffensiva» della laicità invocata come necessaria da Paolo Flores d’Arcais? Prima di tutto, in un esame accurato della congiuntura nella quale si situa questo intervento. Ci sono almeno tre scenari differenti dietro alla situazione evocata da Flores d’Arcais: gli Stati Uniti, l’Europa e il mondo musulmano. Le somiglianze tra esse fondate su delle apparenze non sono necessariamente convincenti. Le «illuminazioni» di Bush hanno davvero scalfito la libertà di pensiero dei suoi concittadini e il «muro di separazione» edificato dalla Costituzione? Non mi sembra proprio. Il papa può raccontare quello che vuole, l’impero del cattolicesimo in Europa non fa che declinare e non credo che i suoi propositi possano invertire la tendenza. Diverso è il problema che pone il fondamentalismo musulmano (compreso sul suolo europeo, attraverso le popolazioni immigrate). È l’unico problema serio, perché è il solo vero progetto, sostenuto da grandi masse, di ridare potere legale alla religione.
Mi sembra che parliamo di due cose che bisogna distinguere bene: il posto del discorso religioso nello spazio pubblico delle nostre società, e l’autorità normativa delle religioni nella vita effettiva delle società. È vero che c’è stato un grande spostamento nello spazio pubblico che ha ridato molta visibilità al discorso religioso. La causa è soprattutto il declino di due discorsi laici che hanno perduto l’essenziale della loro autorità: il discorso politico del marxismo sul superamento del capitalismo e il discorso sulla scienza che la presentava come destinata a prendere il posto delle religioni. Ora, la scienza non risponde in realtà alle stesse domande a cui rispondono le religioni: risponde ad altre e in altro modo. Io credo che Flores d’Arcais non prenda sul serio questa discordanza, divenuta flagrante. Ma il ritorno del discorso religioso in primo piano non significa assolutamente che le religioni si stiano riappropriando della loro antica capacità di «fare legge» nelle società occidentali. È perché il potere delle religioni non fa più paura che le si lascia parlare.
Resta la questione del fondamentalismo, che è specifica e che dipende da un altro tipo di analisi, in un altro contesto culturale e civile. Esso procede, in sintesi, da una reazione all’irruzione della modernità occidentale nelle società dove la legge religiosa restava il quadro di riferimento comunemente accettato. Bisogna trattarne a parte e non mettere insieme una serie di dati che sono eterogenei.
Religioni e degenerazioni
Roberta De Monticelli
Mi sembra che fino ad adesso questo dibattito – com’è inteso dalla maggior parte dei partecipanti – è in real
tà sul ruolo politico della religione nelle società e sui modi di affrontarla, di impedire che diventi troppo importante, e così via. Da questo punto di vista, Marcel Gauchet sottolinea giustamente la differenza tra il caso del fondamentalismo musulmano e il rinnovato spazio pubblico della religione negli Stati Uniti e in Europa. Gauchet poi distingue giustamente tra «il posto del discorso religioso nello spazio pubblico delle nostre società e l’autorità normativa delle religioni nella vita effettiva delle società» come due problemi e livelli diversi di discussione. Continuo a chiedermi nondimeno se sia così ovvio che si possa considerare il posto – possibile o reale – delle religioni nel dibattito pubblico, o anche la loro autorità normativa effettiva, senza nemmeno porsi la domanda se avere un posto nel dibattito pubblico o avere dell’autorità normativa sia la vera essenza della religione, o anche una parte essenziale di essa. Provo a porre di nuovo la mia domanda, questa volta in modo più provocatorio: perché non ascoltiamo quello che una persona realmente religiosa, un credente, un uomo o una donna che hanno avuto una vera esperienza religiosa, ha da dire sulla questione? Perché non ascoltiamo un monaco cristiano, o un sufi o un talmudista ebreo e vediamo se sarebbero soddisfatti della descrizione della loro vita interiore come «l’unico modo di pensiero che scoraggia sistematicamente la conversazione perché valuta positivamente l’esclusione delle persone dalla nuova ricerca e dai nuovi argomenti» come la descrive Sam Harris? Questa completa ignoranza della seria esperienza religiosa (contrapposta all’ideologia religiosa fanatica, infantile e immatura) può essere davvero una base legittima per una discussione equilibrata? Possiamo sul serio ignorare che nessuno dei Padri o dei Dottori della Chiesa concepirono mai la Bibbia come una sorta di cosmogonia e che anche Tommaso d’Aquino era completamente indifferente, dal punto di vista teologico, al problema se l’universo fosse sempre esistito (perché non è una questione di fede)? Possiamo davvero scambiare Avicenna, Averroè o Anselmo di Canterbury, o Florenskij, Bultmann, Bonhoeffer, con un predicatore americano di oggi o un testimone di Geova?
È vero che troppi eminenti rappresentanti della Chiesa cattolica hanno ridotto la teologia – che in un certo senso solleva le stesse questioni che si ritrovano nei capolavori della letteratura (la tragedia greca, Dante, Shakespeare, Dostoevskij) – a un insieme moralmente discutibile e filosoficamente miope di istruzioni sul sesso, sulla legge dell’inizio e della fine della vita umana, sul potere delle corporazioni mediche al di sopra e al di sotto della coscienza personale e così via; ma è questa una buona ragione per ignorare che il catechismo cattolico dice: «Un essere umano deve sempre obbedire al giudizio della sua coscienza» (art. 1800)? Certo questi eminenti rappresentanti che hanno ridotto la teologia e la vita spirituale a un insieme di discutibili direttive etiche non soddisfano gli standard di ciò che potrebbe essere la loro religione, ma è questa una buona ragione per decidere se questa religione, o qualsiasi religione, non può essere altro che ideologia fondamentalista e fanatismo, o strumentalizzazione del nome di Dio – ciò che il Vangelo di Matteo definisce come «peccato contro lo spirito» e non può essere perdonato? Per riassumere: ciò che la maggior parte dei partecipanti a questo dibattito considera la vera realtà delle religioni è, secondo le tradizioni puramente religiose esistenti, l’opposto della religione, ossia è ideologia o, peggio, idolatria. Dobbiamo considerare la questione risolta prendendo per buona la peggiore e più limitata rappresentazione della religione invece di discuterla sulla base di un’informazione migliore?
Avishai Margalit
L’invocazione-Dio e l’argomento-Dio
Paolo Flores d’Arcais si chiede: «Com’è possibile mantenere la neutralità dello Stato se nella decisione politica si ammette Dio come argomento?». Dovremmo distinguere tra l’invocazione-Dio e l’argomento-Dio. L’invocazione-Dio è un generico riferimento a Dio nelle discussioni pubbliche: In God we trust scritto su ogni dollaro è una manifestazione di un’invocazione a Dio, non di un’argomento. Fare ricorso all’argomento-Dio significa appellarsi alla sua autorità in un dibattito politico specialmente in un argomento pratico che porta a una decisione politica.
L’invocazione-Dio può essere tiepida e senza potere evocativo. Dio salvi la regina è oggi niente di più che un’espressione di cerimonia che non ha potere evocativo. Mentre «Allah Akbar» (Dio è grande) com’è usata nelle dimostrazioni politiche islamiche correnti ha un potere terribile di sfida – anche se tutte le religioni sono d’accordo con il fatto che Dio sia grande. L’invocazione-Dio non è di per sé un buon indicatore di mancanza di sostanziale neutralità religiosa. Usare l’argomento-Dio, ossia appellarsi all’autorità di Dio per la giustificazione di una politica, è un indicatore più sicuro, e credo che ciò che Flores d’Arcais avesse in mente nel suo «ammettere Dio come argomento» fosse in questo secondo senso.
Ma anche l’uso dell’argomento-Dio può essere un indicatore fuorviante per certe religioni. Ci sono molte interpretazioni della parola di Dio nella legge islamica della sharia e nella legge ebraica della halakhà. C’è ovviamente in questi due codici legali l’assunzione a priori che la loro autorità venga da Dio, ma nel giustificare il loro funzionamento non c’è riferimento a Dio, ma a studiosi autorevoli del passato. Nominare Dio in questi contesti è quasi come nominare il suo nome invano… I riferimenti a Dio sia come invocazione sia come argomento sono più comuni nella tradizione cristiana, che è più centrata sulle credenze, rispetto alle tradizioni ebraiche e musulmane, più centrate sui comportamenti. Credo che il riferimento a Dio, sia come invocazione sia come argomento, sia un indicatore poco affidabile per misurare la neutralità degli Stati induisti o buddisti.
Vorrei proporre un indicatore differente per la frattura attuale tra laicità, fondamentalismo religioso e neutralità dello Stato. Ha più a che fare con le donne che con Dio. La divisione più grande è la moralità sessuale: dal matrimonio gay, all’aborto, al velo, per citare alcuni temi. La maggiore pressione del fondamentalismo religioso in tutte le sue forme è quella di regolare il comportamento femminile. Per i laici non esiste uno spazio autonomo di moralità che coincida con la morale sessuale. Il comportamento sessuale, in senso ampio è un dominio particolarmente vulnerabile delle relazioni umane, vulnerabile allo sfruttamento e alla dominazione. La morale sessuale per i laici significa un’attenzione particolare nell’applicare gli standard morali al comportamento sessuale, ma niente di più. Dal punto di vista religioso, il comportamento sessuale è un caso paradigmatico di morale religiosa e il soggetto principale da domare («siate modeste») sono le donne.
Anche se mi sbaglio nell’identificare nella morale sessuale e nella regolazione del comportamento delle donne la divisione principale, sono ragionevolmente certo che sia almeno un buon indicatore della situazione.
La laicità è solo radical
e
Fernando Savater
Sto seguendo con vivo interesse il dibattito sulla laicità, aperto da Paolo Flores d’Arcais. Vorrei contribuire con un piccolo apporto a quanto è già stato detto da Nagel, Dennet e gli altri. A mio parere, ci sono almeno due aspetti distinti da prendere in considerazione. Il primo, di natura più personale: che ruolo devono svolgere le credenze e i simboli religiosi nella vita intellettuale di una persona assennata nel XX secolo? Alcuni pensano che debbano avere un valore molto limitato, anche qualora la persona in questione possieda una cultura carente: Goethe ha detto che chi possiede arte e scienza ha già una religione, ma chi non possiede né arte né scienza ha bisogno di una religione. In ogni caso non sembra minimamente onorevole né giustificabile adottare «soluzioni» religiose per risolvere perplessità fisiche, biologiche o cosmologiche. Se per Dio intendiamo una qualsiasi entità soprannaturale, un suo intervento appare di scarso aiuto informativo all’atto di risolvere questioni naturali: solo un Deus sive natura come quello di Spinoza – che non è «Dio» nel senso religioso abituale del termine – potrebbe compiere tale funzione.
Ma ciò non impedisce che idee e simboli religiosi tradizionali possano tornare utili per stilizzare ideali morali o sociali quali la compassione, la solidarietà, la giustizia, la fraternità umana eccetera. Credo che l’abbia espresso molto bene George Santayana: «Le dottrine religiose farebbero bene a ritirare le loro pretese di intervento in questioni materiali. Questa pretesa non solo si pone all’origine dei conflitti fra religione e scienza e delle vane e aspre controversie fra sette; ma è anche la causa dell’impunità e dell’incoerenza della religione nell’anima, quando cerca sanzioni nella sfera del reale e dimentica che la funzione che le è propria è quella di esprimere l’ideale» (Interpretazioni di poesia e religione).
A volte persino noi, meno pii, proviamo il desiderio di ricorrere a qualche riferimento simbolico religioso: per esempio, a me è capitato proprio di recente, sentendo alcune dichiarazioni del premio Nobel James Watson, il quale assicurava che gli aiuti per lo sviluppo dell’Africa potrebbero fallire perché non tengono conto del fatto che gli africani sono geneticamente meno intelligenti dei bianchi. In questi casi, come ha detto quel libertino francese, mi piacerebbe esistesse l’inferno… mio malgrado.
Ma tutt’altra questione è l’influenza istituzionale delle Chiese, o meglio, dei sacerdoti nella politica delle nostre democrazie. In quest’ambito credo si debba essere radicali, non nel difendere il secolarismo, bensì la laicità. La separazione fra Stato e Chiesa dev’essere netta, soprattutto nel campo dell’educazione. Di certo non si deve permettere che l’influenza clericale vieti certe leggi o abbia la pretesa di orientare il curriculum scolastico degli alunni. In Spagna esiste oggi una polemica particolarmente sentita al riguardo: molti padri appartenenti a diverse confessioni religiose – sebbene la maggior parte cattolici, incoraggiati dalla conferenza episcopale del mio paese, disgraziatamente attivissima in questioni politiche fin dai tempi, piuttosto recenti, del suo appoggio alla dittatura franchista – sostengono di avere il diritto che i loro figli a scuola non ricevano altra formazione morale se non quella corrispondente alle loro rispettive credenze. È proprio l’esatto contrario della funzione pubblica che ritengo spetti ai centri di insegnamento. La mia opinione si avvicina molto di più a quella esposta da Bruce Ackerman: «L’intero sistema educativo, se si vuole, somiglia a una grande sfera. I bambini entrano in contatto con questa sfera in differenti punti, in base alla loro cultura primaria; la sfida consiste nell’aiutarli a esplorare il globo in modo tale da permettere loro di intravedere i significati più profondi dei drammi che li circondano. Alla fine del viaggio, il cittadino maturo ha senz’altro tutto il diritto di ritornare nel punto esatto da dove è partito, o può anche dirigersi risolutamente a scoprire una zona disabitata della sfera» (Social Justice in Liberal State).
Concludendo, credo sia importante sottolineare che in una società democratica laica – scusate la ridondanza – coloro che criticano le credenze religiose debbano avere tutto il diritto di formulare il proprio pensiero, non in nome della libertà d’espressione ma per rispetto nei riguardi della libertà religiosa. Perché nella storia universale delle religioni rientrano san Paolo, Maometto o Dante, ma anche Voltaire, Nietzsche e Freud. Ho trattato queste problematiche in maniera più approfondita nel mio libro La vita eterna (Laterza, 2007).
Il partito della ragione?
Thomas Nagel
Forse mi sbaglio, ma scommetto che tutti i partecipanti alla discussione sono atei – una situazione abbastanza comica, come giustamente fa notare Roberta De Monticelli. Ma alcuni di essi sono più critici delle credenze religiose di altri. Per quanto mi riguarda, penso che il teismo non sia meno ragionevole dell’ateismo, anche se non sono mai stato tentato dal primo. Parlo di teismo come credenza su ciò che esiste, non come une dominio di ideali normativi del tipo di quelli che secondo Fernando Savater – che cita a questo proposito Santayana – dovrebbero essere esclusi dall’influenza religiosa. La credenza in Dio è diffusa: prende molte forme differenti ed è oggetto di grandi discordie. Per molte persone, ciò che credono della loro relazione con Dio è una parte importante delle loro vite. La questione è come questo possa entrare nelle nostre vite collettive.
L’Europa e i suoi eredi riuscirono a venir fuori dalle guerre di religione grazie a tradizioni che evitassero il conflitto politico peggiore sulla religione. Non c’è un modo migliore per farlo, ma, per rispondere a Daniel Dennett, la ragione principale per evitare il conflitto è semplice: date tre scelte – 1) evitare il conflitto, 2) combattere e vincere, 3) combattere e perdere – la seconda è solo leggermente meglio della prima, mentre la terza è molto peggio delle altre due. Questo è vero ancora oggi, anche se la posta in gioco per noi non è la stessa di quella in gioco nel XVI secolo. La proposta di Dennett di un programma nazionale obbligatorio sulla religione mi sembra precisamente il tipo di escalation da evitare. D’altro canto, sono a favore di una libertà molto maggiore nell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche di quello che si ha oggi (negli Stati Uniti ci sono specifici ostacoli istituzionali).
Società diverse hanno equilibri diversi. Per rispondere alla domanda di Dan Sperber, le deduzioni fiscali per le istituzioni religiose negli Stati Uniti, e soprattutto la deducibilità dalle tasse per coloro che contribuiscono a queste istituzioni, sono parte di un regime generale che permette agli individui di provvedere alle loro istituzioni di carità favorite a spese del governo. L’ingiustizia principale di questo è che i ricchi, che hanno imposizioni fiscali più alte, ottengono deduzioni fiscali maggiori di coloro che hanno meno, un’ineguaglianza a beneficio dei musei, dei teatri d’opera e delle università molto di più che delle Chiese. Ma includere le istituzioni religiose nel progetto più ampio di sostenere la filantropia privata attraverso il sistema di tassazione ha senso come strategia politica, data l’importanza molto maggiore delle donazioni
private rispetto al finanziamento statale per molte istituzioni negli Stati Uniti. È un altro caso dove la decentralizzazione ha i suoi vantaggi in una società altamente pluralistica.
Dennett, Flores d’Arcais e Sam Harris, se capisco bene, credono che dovremmo costituire un partito della ragione per cogliere l’alto fondamento della nostra cultura comune. Sono d’accordo con Marcel Gauchet che tutto ciò non ha nulla a che fare con i problemi posti dal fondamentalismo musulmano. Come lui dice giustamente, il rinnovamento dei conflitti sulla religione in Occidente ha sicuramente a che fare con la scienza e con le sue affermazioni imperialiste; la connessione con il collasso del marxismo sembra più specifica dell’Europa. Penso, però, che, al di là dello scientismo e del marxismo, ci sia un ampio spazio intellettuale e che nei nostri dibattiti sulle alternative è un errore identificare la difesa della ragione con la resistenza alla religione. C’è molto che non sappiamo della realtà, e il teismo dovrebbe essere riconosciuto dall’ateo come una posizione sostenibile.
Non tutte le credenze sono legittime
Sam Harris
Spero di non fare ingiustizia a Nagel citando l’inizio e la fine del suo intervento: «Io stesso penso che il teismo non sia meno ragionevole dell’ateismo, anche se non sono mai stato tentato dal primo. […] È un errore identificare la difesa della ragione con la resistenza alla religione. C’è molto che nono sappiamo della realtà, e il teismo dovrebbe essere riconosciuto dall’ateo come una posizione sostenibile». Devo dire che faccio fatica a trovare un’interpretazione di queste frasi che non mi faccia sentire male. È possibile che Nagel voglia dire semplicemente quello che ha scritto, o forse ha in mente qualche versione esoterica o apologetica del teismo? Il termine «teismo» solitamente non denota il Dio di Spinoza – o il Dio di Jefferson – e tutte le versioni principali del teismo comportano l’accettazione dal parte dei loro aderenti di un mucchio di affermazioni incredibili sulla realtà. Se Nagel vuole dire che le principali versioni del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam non sono meno ragionevoli dell’ateismo, allora sta dicendo che credere che Gesù sia nato da una vergine, che la Bibbia sia stata dettata da un essere onnisciente, che Maometto volò in cielo su un cavallo alato, non sia meno ragionevole che ritenere che queste affermazioni siano false. È possibile che Nagel dica una cosa simile? Rifiuto di crederlo fino a prova contraria. Va da sé che se Nagel ha in mente qualcosa di più simile al deismo – ossia stia semplicemente tendendo amichevolmente la mano a quelli che mettono Dio laddove non riescono a spiegare questioni cosmologiche – dovrebbe dirlo esplicitamente. E anche ammettere che la sua concessione non ha nessun impatto su ciò che crede la maggior parte della gente religiosa la maggior parte del tempo: sull’origine divina di certi libri, sulla verginità di certe persone, sulla fine del mondo, sul potere della preghiera eccetera.
Risposta a Sam Harris
Thomas Nagel
No, non sto parlando semplicemente di deismo. Non credo ai miracoli perché non credo in Dio. Ma penso che qualcuno che crede in Dio possa credere ragionevolmente che Dio si rivela agli esseri umani agendo nel mondo. Il problema è che il semplice riconoscimento di questa possibilità sembra insufficiente per sostenere la credenza negli specifici miracoli citati da Sam Harris, per mancanza di dati. Alcuni credono che Hume abbia già stabilito che è impossibile avere dati adeguati per confermare un miracolo; ma si va avanti a discutere ancora oggi di questo nella teoria del ragionamento probabilistico. La domanda è: cos’è ragionevole credere per un teista – se il teismo non è di per sé una posizione assurda – alla luce di quello che già sappiamo sul mondo. E non è una domanda facile.
Risposta a Thomas Nagel
Sam Harris
Mi sembra che Nagel pensi a questi problemi al contrario: la maggior parte della gente religiosa non acquisisce la sua religione stabilendo in primo luogo la probabilità a priori che ci sia un creatore privo di qualsiasi attributo denominativo, e poi decide di guardarsi in giro per trovare una fede specifica e una serie di miracoli associati. Piuttosto, si imparano generalmente credenze e miracoli specifici dal papà e dalla mamma – credenze quasi tutte incompatibili con la razionalità scientifica – e solo allora, a volte, ciascuno sviluppa una propria nozione di Dio in un senso più ecumenico, astratto, direi «nageliano». Non si arriva quasi mai al punto da quale parte Nagel, ovviamente. In realtà, quando grattate la vernice della maggior parte della gente che parla di Dio in astratto e che parla dell’armonia delle costanti della Natura, essa crede anche che Gesù fosse figlio di Dio, che risorse dalla tomba eccetera. Francis Collins può essere considerato un esponente di queste credenze.
In ogni caso, non c’è bisogno di invocare Hume o la teoria della probabilità. Non ho nessun problema a immaginarmi una circostanza in cui potrei essere convinto che c’è stato veramente un miracolo. Per esempio, ho 30 cifre sul mio tavolo in questo momento. Se Dio dice a Nagel che numero è, ritiro il mio ateismo (Chiedete a Dio: è pari o dispari 556892134700265875112305648978?).
Il diritto alla bestemmia
Dan Sperber
Suppongo che tutti i partecipanti a questa discussione siano per la libertà di pensiero, di espressione, di assemblea e di associazione (anche se possiamo avere intuizioni diverse sul contenuto e sui limiti di queste libertà). In generale, le Costituzioni, le convenzioni o le dichiarazioni di diritti aggiungono anche la «libertà di religione». Ma non vi sembra pleonastico? La libertà di religione non segue forse da quelle altre libertà? Ovviamente, data l’importanza della religione nella nostra società, è comprensibile che sia menzionata esplicitamente: non sto facendo semplicemente un’osservazione terminologica o stilistica. Quello che chiedo è: dobbiamo pensare che le libertà religiose meritino non solo una menzione speciale, ma anche una protezione e dei diritti speciali? Chiaramente molte persone, inclusi molti atei, credono che la religione abbia diritto a un trattamento speciale e più generoso rispetto agli altri sistemi di credenze o di pratiche come il trotzkismo, il monarchismo, l’antroposofia, il nazionalismo corso, il vegetarismo, il naturismo, o, per quanto ci riguarda, l’ateismo militante. Farò due esempi, uno legato al vantaggio economico, l’altro alla blasfemia.
Ho parlato in un intervento precedente delle riduzioni di tasse di cui beneficiano le istituzioni religiose negli Stati Uniti, che è solo un esempio particolarmente palese, ma non certo il solo, dei privilegi di cui beneficia la religione a scapito di altri sistemi di idee. Thomas Nagel discute il carattere prettamente religioso di questi vantaggi. Scrive: «Per rispondere alla domanda di Dan Sperber, la deduzione fiscale per le istituzioni religiose negli Stati Uniti, e soprattutto la deducibilità dalle tasse per coloro che contribuiscono a queste istituzioni, sono parte di un regime generale che permette agli individui di provvedere alle loro istituzioni di carità favorite a spese del governo». In realtà, i benefici fiscali per le organizzazioni religiose negli Stati Uniti sono di scala
e di natura ben differente di quella suggerita da Nagel. Cito a questo proposito un articolo del New York Times (10-10-2006): «L’esenzione dalla tassa di proprietà è una delle più vecchie riduzioni fiscali garantite alle organizzazioni religiose, ma non è la sola. I giudici e i legislatori hanno anche approvato dei trattamenti speciali di imposte per le organizzazioni e per i loro impiegati, come l’esenzione dalle tasse sui redditi personali, e hanno reso più facile l’esenzione dalle tasse sulla costruzione per progetti puramente religiosi. Come le esenzioni dai regolamenti federali e statali che hanno proliferato negli anni recenti, questi tagli fiscali sono difesi sia come un riconoscimento del ruolo del contributo religioso alla società sia come barriera alla ingiustificata limitazione da parte del governo della libertà di cui le organizzazioni religiose godono grazie al Primo emendamento».
Queste esenzioni fiscali sono concesse perché le Chiese e le organizzazioni religiose sono considerate automaticamente caritatevoli o filantropiche. Ed effettivamente possono pensare di agire per il bene comune, come pensano i trotzkisti, i vegetariani, i militanti atei e così via. Né discuto il fatto che alcune attività di alcune Chiese potrebbero davvero essere definite filantropiche in un senso pertinente per le tasse. Quello che non sembra garantito è l’idea (alla quale Nagel allude senza esprimere riserve) che tutte le attività religiose siano intrinsecamente filantropiche o caritatevoli e che automaticamente meritino il tipo di benefici che sono garantiti alle istituzioni regolarmente filantropiche solo dopo una seria verifica.
La blasfemia è un’altra area in cui si ha la sensazione che le religioni meritino, se non dei diritti speciali (che esistono formalmente ancora in molti Stati occidentali, ma che nessuno applica), almeno una protezione speciale. Durante la crisi recente provocata dalla pubblicazione delle vignette su Maometto sul giornale danese Jyllands-Posten nel 2005, c’era molta gente, come per esempio Ralf Dahrendorf, che notava che «difendere il diritto di tutti di parlare anche se si detestano i punti di vista degli altri è uno dei primi princìpi della libertà» (The Guardian, 13-10-2006), ma molti altri, e a volte gli stessi, sostenevano che fosse meglio l’autocensura: non bisogna urtare i sentimenti delle persone religiose, e quelli che lo fanno lo stesso meritano di essere criticati pubblicamente.
Ora, è vero che ferire i sentimenti altrui deliberatamente e senza una ragione non è una buona idea (anche se lo si fa protetti dalla libertà di espressione). D’altro canto, sviluppare in se stessi e nei propri figli dei sentimenti e delle attitudini che ci rendono facilmente vulnerabili al comportamento degli altri non è altrettanto una buona idea. Così come la suscettibilità di una persona è un’imposizione agli altri, le manifestazioni pubbliche di suscettibilità collettiva sono una forma di intimidazione che non dovrebbe essere accettata. Una buona ragione per proferire una bestemmia è di mantenere il diritto di poterlo fare (un diritto che non sono incline a far valere altrimenti). In realtà, le vignette sul giornale danese erano state disegnate e pubblicate per resistere a intimidazioni che avevano preso la forma non solo di espressioni violente di indignazione, ma anche di minacce di morte (rese credibili dall’omicidio di Theo Van Gogh in Olanda l’anno prima). Ancora Dahrendorf: «L’autocensura è peggio della censura perché sacrifica la libertà volontariamente».
Quello che bisogna sottolineare qui è la differenza di trattamento tra la religione e altri sistemi di pensiero. Ovviamente molti vegetariani sono profondamente scossi dal vedere la carne venduta nelle macellerie e pubblicizzata. Nondimeno noi ci aspettiamo di vederli difendere i diritti degli animali a non essere maltrattati e non i loro inesistenti diritti di imporre i loro sentimenti come limite al comportamento degli altri. È vero che molte persone religiose sono insofferenti nei confronti della bestemmia non solo perché ferisce i loro sentimenti, ma perché pensano che è un dovere sacro opporsi a essa, a volte a qualsiasi prezzo. Questo non fa del loro dovere un dovere sacro.
Forse la religione dovrebbe godere di qualche diritto speciale perché è speciale. Roberta De Monticelli è stata l’unica fino ad ora a parlare della natura della religione. Scrive: «Bisognerebbe prima chiedersi se esiste o no un insieme coerente di caratteristiche comuni a tutte le religioni – un’essenza della religione, per così dire». La sua risposta è che «ci sono alcune proprietà comuni condivise dalla maggior parte delle religioni che hanno sopravvissuto alla modernità», come la trascendenza da un lato e un approccio decostruttivo alle radici del male (non sono sicuro che voglia dire che altre «religioni» non hanno in comune questa essenza; mi sembra che l’implicazione del suo discorso è che non ci sia un’essenza comune a tutte le religioni, cosa che, come antropologo, condivido pienamente).
Quando Sam Harris propone una caratterizzazione molto più mondana delle proprietà delle religioni rilevanti per il nostro dibattito sulla laicità, la De Monticelli obietta: «Questa completa ignoranza della seria esperienza religiosa (contrapposta all’ideologia religiosa fanatica, infantile e immatura) può essere davvero una base legittima per una discussione equilibrata? Possiamo davvero ignorare che nessuno dei Padri o dei Dottori della Chiesa concepirono mai la Bibbia come una sorta di cosmogonia e che anche Tommaso d’Aquino era completamente indifferente, dal punto di vista teologico, al problema se l’universo fosse sempre esistito (perché non è una questione di fede)? Possiamo davvero scambiare Avicenna, Averroè, Anselmo di Canterbury, Florenskij, Bultmann, Bonhoeffer, con un predicatore americano di oggi o un testimone di Geova?». E conclude: «Ciò che la maggior parte dei partecipanti a questo dibattito considera la vera realtà delle religioni è, secondo le tradizioni puramente religiose esistenti, l’opposto della religione, ossia è ideologia o, peggio, idolatria».
Ho paura che la maggior parte della gente nella storia, prima durante e dopo la modernità, non potrebbero essere definite religiose nel senso che Roberta De Monticelli sta cercando di cogliere. Se ha ragione sulla religione, allora il problema che la laicità cerca di risolvere non è stato mai creato dalla religione nella sua essenza, ma dal suo opposto, ossia l’ideologia fatta passare per religione. Ma non è questa una versione filosofica moderata e sofisticata di un atteggiamento che si trova in molte religioni secondo cui le altre religioni, o le diverse interpretazioni della stessa religione, sono opera del diavolo? In termini meno polemici, non c’è dietro a questa difesa della vera religione, un contributo al pensiero religioso stesso invece che un ragionamento sociologico e politico sulla religione?
Leggendo Roberta De Monticelli, sembra che la vera religione e la laicità siano mutualmente irrilevanti. Ma rimane aperta la questione politica sollevata in forme differenti e in luoghi e tempi differenti dalla richiesta contemporanea delle (pseudo)religioni nelle società pluralistiche (o in questo mondo sempre più interconnesso) di non essere trattate solo come sistemi di credenze qualunque, ma di vedersi riconosciuta un’autorità morale particolare e dei diritti particolari. È abbastanza facile comprendere storicamente e
sociologicamente perché esistono queste richieste. Dopotutto, non così tanto tempo fa, l’autorità e i diritti delle religioni erano incomparabilmente maggiori. Capire perché le richieste vengano fatte non vuol dire però giustificarle neanche lontanamente. A questo punto, mi sembra che l’onere della prova, o più modestamente, di un argomento serio, pesi sui difensori dell’autorità e dei diritti speciali della religione.
Thomas Nagel critica l’idea di un «partito della ragione» in difesa della laicità. Beh, sì. La laicità dovrebbe essere difesa in nome della libertà di espressione, di assemblea e di associazione. È la difesa dell’ateismo – un problema completamente differente – che dovrebbe essere perseguita in nome della ragione, ma non di un «partito della ragione». La ragione, spero siamo tutti d’accordo, è un bene comune troppo prezioso per essere affidato a un partito.
Fondamentalismi soft
Paolo Flores d’Arcais
Forse ha ragione Marcel Gauchet: «È perché il potere delle religioni non fa più paura che le si lascia parlare». Io sarei più cauto, però (magari è solo pessimismo). Quando negli Stati Uniti un’altissima percentuale dei cittadini crede che la Bibbia sia vera alla lettera, e una ancora più grande che Darwin sia accettabile solo in chiave di Intelligent Design, e un presidente che parla direttamente con Gesù rovescia in chiave teocon i rapporti di forza nella Corte suprema (radicalmente, se potrà nominare un altro giudice, come sembra probabile, e dunque con effetti che si prolungheranno per parecchie presidenze), forse avere un po’ di paura non è così irragionevole. Comunque, molti grandi costituzionalisti americani qualche paura l’hanno manifestata.
E anche in Europa l’offensiva contro la laicità non scherza. Certo, il fondamentalismo dei gemelli Kaczynski è stato sconfitto, e anche il tentativo di piazza dei vescovi spagnoli contro Zapatero, e magari le promesse di Sarkozy di rivedere la laicità francese resteranno lettera morta, e dunque i miei timori sono solo espressione di una sindrome «italiana» (l’Italia, dove l’offensiva clericale pesa quotidianamente sulle scelte politiche, costituirebbe in Europa l’eccezione unica). Ma queste sconfitte segnalano una volontà di rivincita impensabile ai tempi del Vaticano II, e i verdetti della storia si possono rovesciare (come temeva Mao).
L’analisi di Gauchet (e di Clastres) della religione come forma originaria e onnipervasiva del vincolo politico fra gli uomini, e dunque del cristianesimo come religione della (possibile) «uscita dalla religione», ha per me avuto troppa importanza perché io possa replicare sbrigativamente alle sue obiezioni. Ma credere che il potere delle religioni non possa avere più nessun futuro in Europa mi sembrerebbe un residuo di finalismo hegeliano, incompatibile con il ruolo che Gauchet stesso nella sua filosofia della storia affida alla contingenza. Domani, altri gemelli Kaczynski potrebbero vincere. Ai tempi di Giovanni XXIII sembrava che il cattolicesimo non ci volesse neppure più provare.
Del resto, il potere della religione si esercita ancora su una questione che per i cittadini è «di vita e di morte», alla lettera: il diritto di ciascuno a non essere torturato, se questa è la sua scelta. Oggi, invece, in tutto il «laico» Occidente, tranne eccezioni geograficamente irrilevanti, per un tabù esclusivamente religioso, il condannato a morte senza delitto (il malato terminale condannato dal caso) non può sottrarsi alla tortura. E chi per amore lo aiuti rischia anni e anni di carcere. Insomma, alla domanda cruciale «a chi appartiene la tua vita», la risposta delle società occidentali, sanzionata nelle leggi, è ancora un «appartiene a Dio», di scarsissima caratura laica.
Roberta De Monticelli ci invita a ricordarci di essere filosofi, e a occuparci dunque di Dio come teologia e non solo come politica. Per me è un invito a nozze: tra il 2000 e il 2005 l’ho fatto col cardinal Ratzinger, e il cardinal Tettamanzi, e il cardinal Caffarra, e il cardinal Scola, e col teologo Bruno Forte, di cui l’altro teologo che De Monticelli cita (Vito Mancuso) è l’allievo più noto. In tutti questi casi ho tentato quella «difesa dell’ateismo […] in nome della ragione, ma non di “un partito della ragione”» che però, come giustamente ha rilevato Dan Sperber, «è un problema completamente differente» rispetto al nostro tema, che è il conflitto (o la compatibilità) non tra fede e ragione ma tra democrazia e religione.
Perché, come è venuto in chiaro in tutte le controversie cui ho fatto riferimento, se l’«essenza» della religione, il loro tratto comune, fosse davvero che «senza eccezioni, il divino è caratterizzato come trascendente le categorie del nostro linguaggio» e che una «transcendenza assoluta è affermata da […] e comune alle tre “religioni del Libro”», se insomma l’esperienza di Dio fosse radicalmente verticale, e come tale riconosciuta dalle religioni, la fede non sarebbe mai comunicabile verbalmente, e tutta la teologia si esaurirebbe con Wittgenstein: di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Ma le religioni non sono questo. Quando (eccezionalmente) sono questo, non nasce alcun problema fra laici e credenti (e non a caso, la credente De Monticelli ha scritto pagine bellissime in difesa del diritto all’eutanasia). Non nascono certo problemi se la fede è quella di Karl Barth (che mi sembra De Monticelli riprenda) e che contrappone la grazia alla religione, senza mediazioni possibili, al punto che «la religione ci costringe a renderci conto che non si può trovare Dio nella religione». Il cardinal Martini non ha mai rischiato di diventare papa, purtroppo, ed evidentemente lo Spirito Santo condivide l’antilluminismo ossessivo di Wojtyla e Ratzinger.
I rilievi di Roberta De Monticelli hanno dunque senso solo come programma di lotta filosofico-teologica (apprezzabilissima) all’interno del cristianesimo e delle religioni, non come critica a una presunta insensibilità atea verso ciò che è «spirituale».
A molte delle tesi di Nagel mi sembra abbiano già risposto in modo convincente Savater, Sperber, Harris e Dennett. Non ripeto perciò i loro argomenti. Vorrei solo sottolineare due cose:
– non è affatto vero, purtroppo, che «date tre scelte – 1) evitare il conflitto; 2) combattere e vincere; 3) combattere e perdere – la seconda è solo leggermente meglio della prima, mentre la terza è molto peggio delle altre due». Questo potrebbe essere vero, almeno in parte, se le persone religiose fossero soprattutto dei convinti utilitaristi. Per molti credenti, invece, «combattere e vincere» non è affatto «leggermente meglio» di «evitare il conflitto». Quest’ultima scelta significa per molti credenti – non solo musulmani, anche ebrei e cristiani – una resa a Satana, e dunque la peggiore delle scelte possibili;
– la libertà di cui si fa araldo Nagel è la libertà degli individui o delle famiglie? La seconda, si direbbe. Ma se il soggetto (titolare dei diritti di libertà) non è il singolo cittadino, perché l’entità collettiva famiglia, e non magari il clan, l’etnia, la religione, od ogni altra «appartenenza»? La libert&agra
ve; della famiglia è la libertà dei genitori, e anzi spesso del pater familias, del «padre padrone», e dunque la non-libertà di tutti gli altri individui. E il bambino è un adulto in formazione, dunque ha diritto – anche contro la volontà del «padre padrone» o di due genitori «amorosi» – a una scuola che gli fornisca tutti i saperi critici oggi disponibili. Perché, per essere domani sovrano (titolare del suo frammento inalienabile di sovranità), dovrà oggi crescere con tutti gli strumenti che gli consentano le future scelte autonome. Senza strumenti critici, l’autos nomos si annulla in flatus vocis.
Infine: siamo sicuri che il pericolo per la separazione tra religione e Stato venga solo dall’islamismo? Siamo sicuri che le pulsioni integraliste e fondamentaliste delle diverse religioni in più di un caso non possano fare «sinergia», mettendo a repentaglio libertà fondamentali? Non mi riferisco solo ai casi di omicidio e persecuzione (che pure mi sembrano molto sottovalutati) o alla censura e autocensura (troppo frequenti, con rischio di mitridatizzazione delle coscienze), ma ai recentissimi casi inglesi che vedono persone che hanno un dovere pubblico verso i diritti di tutti (come medici, farmacisti) rifiutare di vendere una pillola del giorno dopo o di visitare un paziente di sesso opposto, perché azioni contrarie alla propria religione. E in queste pretese sostenuti da settori molto larghi di establishment e opinion makers. Un giornalaio e un libraio potranno allora rifiutarsi di vendere opere «immorali», e un poliziotto e un giudice di perseguire la «famiglia» che abbia costretto la figlia bambina alla mutilazione sessuale?
Non facciamo il gioco degli integralisti
Roberta De Monticelli
Vorrei ringraziare Flores d’Arcais e Sperber per aver preso in considerazione le mie obiezioni, anche se entrambi sembrano piuttosto sicuri – come, implicitamente, gli altri partecipanti – che si tratti di una questione completamente differente dal tema del dibattito, che «è quello del conflitto (o della compatibilità) non tra fede e ragione, ma tra democrazia e religione».
Beh, non sono sicura che la questione che sollevo sia davvero differente, e per mostrare che non lo è cercherò in primo luogo di rispondere a un’altra obiezione di Dan Sperber: «Non è questa una versione filosofica moderata e sofisticata della tendenza comune a molte religioni di considerare che le altre religioni, o le interpretazioni differenti della stessa religione sono opera del diavolo? In termini meno polemici, non c’è dietro a questa difesa della vera religione un contributo al pensiero religioso stesso invece che a un ragionamento sociologico e politico sulla religione?». No, non lo penso. Infatti ho cercato di individuare in due punti principali – la trascendenza di Dio e la ricerca delle radici del male in se stessi più che al di fuori – l’essenza della maggior parte delle religioni (che hanno sopravvissuto alla modernità, ho aggiunto) o, dovrei dire più esattamente, due caratteristiche comuni del nucleo mistico delle religioni, che una accurata fenomenologia delle religioni identifica come la fonte di esse. Non intendo solo la fonte «storica» di esse, ma il punto originario sempre presente del loro rinnovamento e della loro riforma possibile, così come della loro «interiorizzazione».
Ora, è chiaro che c’è normalmente un’enorme differenza tra le parole e le azioni dei fondatori (e delle prime comunità) e quello che diventa religione istituzionale, mescolata al potere mondano, politico e così via. In realtà, se anche quello che ha detto Gesù sull’amare il proprio nemico non ha impedito alla cristianità crociate e massacri per tutta Europa, non c’è ragione di pensare che altre religioni abbiano una relazione più radicata dentro se stesse con la violenza e l’aggressione e che ciò che è imputato alle religioni non debba essere imputato al loro sfruttamento politico e ideologico.
Si può obiettare che questa sia semplicemente una questione terminologica. Chiamateli «religioni» o «sfruttamenti ideologici della religione», i fatti restano gli stessi. Ossia una minaccia costantemente crescente alle società libere, alla distinzione tra legge e morale, alla libertà di scienza e di ricerca.
Però il mio argomento è basato sulla seguente osservazione. L’identità politica o ideologica ha un solo modo potente e infallibile di riaffermarsi e rinforzarsi: essere aggredita, essere confrontata a un nemico che si oppone rigidamente e frontalmente. Possiamo osservare questo fenomeno ben conosciuto giorno dopo giorno in Italia. Questo rinforzo della componente politica e ideologica della Chiesa cattolica è semplicemente fatale a ogni vita spirituale e un ostacolo formidabile a ogni rinnovamento radicale. Rinnovamento che sarebbe possibile, ed è stato possibile in brevi momenti della storia di questa istituzione. Paolo VI disse che la perdita del potere temporale era la più grande fortuna e opportunità per un rinnovamento spirituale della Chiesa cattolica. Non stiamo così contribuendo al rinforzo politico e ideologico dell’istituzione invece di favorire un’opportunità – per così dire – di rinnovamento spirituale, come potremmo fare lasciando che l’istituzione si perda nel mare della modernità (riporto qui una frase del cardinal Martini) e tornando a parlare di filosofia, di poesia, di Florenskij e Bonhoeffer, dei dipinti di Giotto, magari anche con i preti?
Se quel che dico sul rinforzo dell’ideologia religiosa è anche solo parzialmente fondato, allora quel che propongo non è una questione differente, ma un modo differente di affrontare la stessa questione. E un’ultima osservazione per Paolo Flores d’Arcais. Ringraziandolo per le parole gentili sul mio libro, rispondo: se per «credente» intende qualcuno che ha una qualche fede proposizionale, allora non sono una credente, dato che penso che «quand on parle de Dieu, ce n’est presque jamais de Dieu qu’on parle».
In cosa credono i credenti?
Fernando Savater
Da un punto di vista gnoseologico, è bene ricordare che il concetto stesso di «Dio» – come lo si ritrova nelle dottrine monoteiste – è completamente inintelligibile. Anche se comprendiamo ciò che vogliono dire gli interlocutori – semanticamente e culturalmente – quando usano la parola «Dio» perché abbiamo tradizioni culturali e linguistiche simili, l’entità a cui la parole si riferisce è contraddittoria, indefinibile e irriducibile a qualsiasi cosa di conosciuto (o anche a qualcosa di sconosciuto ma almeno di concepibile). Non è solo che non sappiamo se Dio esiste: il problema serio è che non sappiamo il significato delle espressioni: «Dio esiste» e «Dio non esiste». Conosciamo le emozioni che possono essere provocate dalla parola «Dio» (paura, speranza, salvezza…) ma non il suo significato fuori dalla mitologia. Alcuni anni fa, fu pubblicato un dialogo tra Umberto Eco e il vescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini con il nome: In cosa credono i credenti? Questa è davvero la domanda di fondo, perché tutti vogliamo sapere in cosa coloro che sostengono di credere credono. Per questa ragione, considero assurdo definire le persone come «credenti in Dio» o «atee». Essere ateo significa semplicemente non capire
cosa vuol dire la parola «Dio».
La parola uccide
Roberta De Monticelli
Il mio terzo commento sarà un tentativo di rispondere a Savater. Consiglio a tutti di leggere un libro di P.L. Berger Questions of Faith. A Skeptical Affirmation of Christianity (Blackwell, Oxford 2004), che contiene un’analisi dettagliata dei simboli di Nicea (il Credo cristiano) che sembra davvero compatibile con i più alti standard di ragionevolezza. Quello che posso aggiungere lo prendo dai maestri cristiani, Agostino, Eckhart e Nicola Cusano. «Dio» è una parola che si riferisce a qualcosa che è totalmente trascendente le categorie del linguaggio «maius quam cogitari potest». «Credere» in Dio è «cum assensione cogitare», ma dato che non è possibile esprimere questo in concetti, tranne come «il fondamento non pensabile di tutto ciò che è pensabile», l’assenso e il pensiero non hanno lo stesso oggetto. L’assenso è un libero «sì» (più nuziale che assertorio) a ciò che è sentito (per coloro che lo sentono) come il valore supremo, «dare la vita», o «il dono della vita». Questo pensiero non è su Dio ma sul mondo come appare nella luce di questo valore supremo. La dottrina del significato spirituale della Bibbia (e di ogni testo che sia un po’ ispirato o ispirante) ha lo scopo di descrivere l’esperienza del mondo in questa luce, chiamiamola «spiritualità», ed è estremamente simile alla poesia o alla ricerca esistenziale. La si può trovare nelle Confessioni di Agostino, libro XIII. Ancora una volta, non penso che questo sia irrilevante per il dibattito. Se accettate il detto di san Paolo che «la parola uccide», allora non potete imputare il fondamentalismo, la superstizione e gli orrori che ne conseguono a questo tipo di religione, ma solo alla sua corruzione mondana.
I diritti dei bambini
Dan Sperber
Immagino che Dennett stia scherzano quando dice che «finché i genitori non insegnano ai loro figli niente che potrebbe chiudere la loro mente 1) attraverso paure o avversioni o 2) rendendoli incapaci di interrogare le cose (negando loro un’istruzione, per esempio, o tenendoli completamente isolati dal mondo), essi potranno insegnare ai loro figli tutte le dottrine religiose che vorranno», perché sa bene che, con poche eccezioni – come il tipo di religiosità evocata da Roberta De Monticelli – le religioni proibiscono alla gente comune e in particolare ai bambini di accedere a letture o a incontri che possono essere blasfemi o comportare peccati o essere abominevoli sotto qualche aspetto.
La «proposta modesta» di Dennett di un programma obbligatorio sulla religione mondiale è esattamente qualcosa che la maggior parte delle parti non accetterebbe e, nel proporlo, immagino che il suo scopo sia più dimostrativo che genuinamente pratico. Pensare alla fattibilità della proposta fa venire in mente immediatamente al lettore che i più cocciuti oppositori di una religione sono i difensori di un’altra religione e che l’alleanza corrente delle autorità religiose negli Stati democratici in difesa di una visione inflazionata della libertà religiosa è una convergenza tattica, faute de mieux. In quasi tutte le circostanze storiche in cui le religioni istituite hanno avuto la possibilità di lavorare all’eliminazione delle altre religioni o almeno di diminuire la libertà delle altre religioni, lo hanno fatto senza sosta (ad eccezione di culti che non si considerano come l’espressione dell’intera religiosità e che quindi possono coesistere in una specie di mercato competitivo come nell’antica Roma o nel Giappone moderno).
Il che ci porta alla questione fondamentale, posta da Thomas Nagel: quella della protezione della libertà individuale dei bambini all’interno della famiglia. Vorrei guardare alla questione da un punto di vista che neghi che ci siano libertà religiose speciali al di sopra e al di là di quelle che le religioni già sperimentano in nome della libertà di pensiero, di espressione, di riunione e di associazione.
Bisogna distinguere chiaramente tra le questioni morali e quelle di diritto. Come ha giustamente sottolineato Richard Dawkins, se dei genitori marxisti o capitalisti parlassero dei loro figli come di bambini marxisti o capitalisti troveremmo questo un abuso; mentre anche i laici definiscono i loro figli cattolici, ebrei o musulmani. Dawkins propone che dovremmo obbiettare allo stesso modo, e io sono d’accordo, in particolare perché queste categorizzazioni vanno insieme a forme di educazione che le rendono appropriate retroattivamente. L’obiezione però sembra essere più una questione di etica che una questione di diritti. Inoltre, l’errore dei credenti che ha conseguenze morali dubbie è di ordine cognitivo, non morale. Essi credono tipicamente che è loro dovere morale imporre il prima possibile la loro religione ai loro figli in modo da assicurarne la salvezza, mentre è più facile per un genitore marxista, e ancor di più per un genitore capitalista, mostrare un maggior rispetto per la libertà di opinione dei bambini dato che non vedono le loro credenze come un modo di contribuire alla salvezza spirituale individuale.
Dato il tipo di strutture familiari nelle nostre società (che possono ovviamente essere riconsiderate, ma questa è un’altra questione), il grado di coinvolgimento e di responsabilità a lungo termine dei genitori con ognuno dei loro figli è globalmente molto maggiore di quello delle scuole, dei servizi sociali e di altre istituzioni pubbliche. Lasciare ai genitori un grande margine di manovra nelle decisioni sull’educazione dei figli non è forse perfetto, ma, eccetto casi di abusi evidenti, non si può pensare che gli individui e le istituzioni esterne alla famiglia esercitino un’influenza migliore, e ancor meno che possano guidare i bambini con il loro giudizio più equilibrato. Si può biasimare i genitori che inculcano ai figli stupidate, visioni immorali, offensive o stolte, ma non li si può punire né forzarli a fare meglio. Da questo segue che l’educazione religiosa nella famiglia dev’essere tollerata anche se, in molti modo, in particolare per la sua insistenza nell’influenzare i bambini dalla più giovane età, è una forma di abuso particolarmente criticabile.
D’altro canto, siamo tutti d’accordo, e penso giustamente, nel pensare che è una questione di diritto insegnare ai bambini un programma comune grazie a maestri la cui competenza sia pubblicamente riconosciuta, anche se i genitori non sono d’accordo con il contenuto del programma o con i metodi di verifica degli insegnanti. Quando si manda un bambino a scuola, i genitori cedono parte della loro autorità e responsabilità alla scuola, non solo in materia di educazione, ma anche riguardo al comportamento, al codice di abbigliamento, e così via. Chiunque sarebbe d’accordo che genitori nudisti che tengono nudi i figli a casa non possano chiedere che i loro figli vadano a scuola nudi, né che i bambini possano pubblicizzare a scuola i modi di pensare della loro famiglia (per esempio indossando una maglietta con su scritto: «Heil Hitler»), e che debbano obbedire a regole comuni decise per il bene comune. Naturalmente, il regolamento delle scuole è oggetto di discussione. Si può fare uno sforzo per venire incontro a preferenze particolari, ma le preferenze non danno diritti. In queste discussioni, i genitori hanno
qualcosa da dire in quanto cittadini e in quanto parte direttamente interessata e ognuno può difendere il punto di vista che vuole. Però, il fatto che questi punti di vista siano religiosi non dà loro nessun peso speciale.
Per tornare alla famosa questione dei simboli ostensivi religiosi nelle scuole pubbliche francesi, è possibile essere in disaccordo con la decisione di vietarli. È possibile anche non essere colpiti dal fatto che questa decisione abbia fondamentalmente risolto quello che era diventato un problema sociale importante in Francia senza creare risentimento tra i gruppi in questione, i musulmani in particolare. D’altro canto, faccio fatica a non essere d’accordo con la decisione anche in principio come se fosse una semplice questione di libertà di espressione, a meno che non siamo disposti a difendere anche il diritto dei membri di tutti i gruppi di opinione, religiosi o no, a pubblicizzare i loro punti di vista, per esempio indossando una maglietta con la svastica o portando una bandiera da confederati. Una critica possibile a questi esempi è la seguente: ok, eliminiamo i simboli religiosi che sono associati all’idea che un gruppo è superiore agli altri e può avere diritti speciali a scapito dei diritti degli altri gruppi, ma molti gruppi religiosi sono molto espliciti nel definirsi così. I simboli appartenenti a queste religioni dovrebbero essere banditi? Oppure dovrebbero essere accettati perché sono religiosi? Ritorniamo alla questione fondamentale di cui parlavo nel secondo intervento: dobbiamo pensare che la libertà di religione meriti una protezione speciale e diritti speciali? Non lo penso e non ho visto che argomenti circolari a sostegno di questa posizione.
Una sfida per i religiosi
Daniel Dennett
Non penso che la mia proposta di programma sia più dimostrativa che pratica e che le parti in causa non l’accetterebbero mai. La mia proposta è una sorta di sfida, come dice Dan Sperber, che tende a tenere in guardia i rappresentanti della religione, ma la mia esperienza fino ad oggi mi dice che molti di loro vedono la difficoltà di non riconoscere che si tratta di una buona idea, e di prenderla almeno in considerazione (ovviamente contano sui dettagli per non farla mai passare, ma potrebbero avere delle sorprese). Una versione dell’idea è già applicata in Inghilterra con risultati incoraggianti. Voglio costringere i religiosi ad articolare le loro obiezioni, o, se possono, la loro approvazione, ma non mi basta l’argomento della fattibilità.
Qualche osservazione sparsa
Marcel Gauchet
1) Non sarebbe inutile chiarificare i termini nella nostra discussione. A che cosa si riferisce precisamente il concetto di «laicità»? Si confonde con quello di «ateismo»? Non lo credo. La «laicità» dice solo come dobbiamo comportarci o vivere in società, mettendo tra parentesi le convinzioni metafisiche di ciascuno. L’ateismo è invece una convinzione filosofica di fondo. È il solo modo di abitare intellettualmente la «laicità»? Non lo penso neanche. Io mi definisco piuttosto «agnostico» che «ateo» – e ritornerò su questa sfumatura. In ogni caso, credo che non possiamo affrontare questa discussione con le religioni se vogliamo essere efficaci come cittadini, facendo come se tollerassimo, certo, le religioni, ma mostrandoci convinti della loro falsità innata e assegnando come ruolo alle istituzioni pubbliche d’accelerare la loro scomparsa. Non bisogna a questo proposito farsi spaventare dalle reazioni dei loro rappresentanti. A questo proposito sono totalmente d’accordo con Thomas Nagel: la nostra ignoranza è abbastanza grande perché riconosciamo il teismo come una posizione difendibile. È infatti per me il solo atteggiamento giusto dal punto di vista della ragione (per questo preferisco l’agnosticismo all’ateismo). E non ci impedisce di pensare che la ragione ci offra gli strumenti per colmare poco a poco la nostra ignoranza. Tutto ciò che dobbiamo domandare alle religioni è di lasciare ognuno libero nel suo percorso e nelle sue scelte davanti a questa ignoranza.
2) Roberta De Monticelli circoscrive bene la questione essenziale dal punto di vista filosofico. Dobbiamo affrontare questa disputa tenendo conto del fatto che l’opzione religiosa ha tutte le probabilità di restare viva e che avremo sempre a che fare con essa. Sarà sempre presente, anche se solo potenzialmente, e il nostro lavoro di filosofi è di cercare di comprenderne il senso, anche dal punto di vista del nostro «ateismo» o del nostro «agnosticismo». Perché nello spazio umano si ritrova sempre una religione, al di là delle Chiese o delle istituzioni? Prendere il problema in questi termini cambia molto il modo in cui lo si affronta in pratica. Quando difendiamo, come sono convinto si debba fare, la libertà d’aborto, di matrimonio gay, dell’eutanasia o della procreazione assistita, difendiamo una libertà di scelta. Ma non ci pronunciamo sul fondo. Nessuno è obbligato a ricorrere all’aborto o all’eutanasia, e meno ancora di approvarlo nel fondo della sua coscienza. Al contrario, è perfettamente legittimo che ci sia un dibattito su queste scelte, che sono altamente problematiche per loro natura. Non mi dispiace infatti che se ne discuta, né che si cerchi di convincere i propri simili a non utilizzarle. Quello che mi è insopportabile è che si voglia proibirle. Ma, ancora una volta, la libertà pratica non implica di pronunciarsi sul piano metafisico, ed è questa la sua forza. E bisogna sapersi fermare entro i suoi limiti.
Mi sembra che Avishai Margalit abbia ragione nel fare dello statuto delle donne dal punto di vista della morale sessuale la linea frontale contro il fondamentalismo religioso. Come reagire su questo terreno, al di là della difesa concreta dei diversi diritti che sono in causa? Cercando di chiarire le ragioni che fanno del regolamento della sessualità, e in particolare della sessualità femminile, una sfida tale agli occhi di un certo tipo di credenza religiosa. Gli atei e gli agnostici pensano troppo facilmente di avere a che fare con degli imbecilli oscurantisti e basta. Non si possono combattere le pretese del fondamentalismo se non sforzandosi di comprenderle. Lo spazio pubblico democratico, come spazio di sapere e di intelligenza collettiva è alla fine la nostra arma migliore.
3) Thomas Nagel solleva un problema fondamentale e spinoso, quello dei diritti dei genitori in materia di educazione, soprattutto religiosa, e della difesa della libertà dei bambini. È un problema che i fondatori della Repubblica in Francia hanno ben conosciuto verso il 1880, e al quale hanno cercato di rispondere con la scuola obbligatoria. Daniel Dennett formula una proposta che va in fondo nello stesso senso, e anche un po’ più lontano, con il suo «programma». Esiste d’altronde in Francia oggi qualcosa del genere, ossia un insegnamento laico, non confessionale, del «fatto religioso», così come lo aveva definito Régis Debray in un rapporto che avrebbe meritato di essere incluso nel nostro dibattito. Ma la pratica ha mostrato la difficoltà di mettere in atto tale insegnamento. Sarei curioso di sapere quel che pensa Dennett sulle reali possibilità di attuazione del suo progetto nella politica mondiale attuale. Negli Stati Uniti penso che sarebbe difficile. È ancora in Europa che la cosa avrebbe di gran lunga più possibilità di realizzarsi. Altrove, preferisco non pensarci. Per ritornare al problema di fondo: per quanto attaccati al
principio di libertà di coscienza dei bambini, com’è possibile nei fatti non lasciare liberi i genitori di desiderare un certo genere di educazione per i loro figli? Sono d’accordo con Dan Sperber, per esempio, ad ammettere che la libertà religiosa è una libertà come le altre che non ha alcuno motivo di chiedere diritti speciali. Ma non mi stupisco che nei fatti non sia così. Perché le religioni giocano un ruolo davvero speciale nell’orientamento globale della vita privata della gente e nella loro visione della vita pubblica. È fatale che si ripercuota nelle espressioni sociali della credenza religiosa. Anche qui si tratta di capire perché, per poter tenerne conto e agire con cognizione di causa.
4) Bisogna evidentemente rispondere a Flores d’Arcais che non possiamo essere sicuri di preservare le libertà di base contro un assalto concertato delle differenti forze religiose che lavorano mano nella mano. Abbiamo visto un’alleanza simile delinearsi al momento delle caricature di Maometto. A questo proposito, ha ragione di attirare l’attenzione sul rosicchiamento delle libertà, pezzetto per pezzetto, che si può insinuare con discrezione. Il buon atteggiamento è di non cedere in nulla, soprattutto nel dominio della sessualità e dei diritti delle donne, riconoscendo nondimeno il ruolo della scelta religiosa, e rispondendo, in filosofia, al perché nel nostro mondo la religione ha ritrovato questo ruolo in uno spazio pubblico che non le obbedisce più.
Conclusioni (non conclusive) delle moderatrici
Gloria Origgi e Noga Arikha
È venuto il nostro turno di intervenire, dopo aver osservato e moderato il dibattito sia in quanto moderatrici di questo evento sia in quanto filosofe.
La discussione ha sollevato molte questioni interessanti, che sono state ben riassunte nell’ultimo intervento di Gauchet. Possiamo dire di aver raggiunto qualche conclusione, almeno provvisoria. Certo, molte domande ne hanno poste altre, e hanno aperto nuovi terreni di discussione. La nostra idea è dunque quella di riassumere i punti chiave del dibattito nella forma di una lista di domande aperte, che andrebbero discusse a loro volta:
1) Che cos’è la laicità (secularism)? È solo un vincolo contro l’uso del potere dello Stato per sostenere un credo particolare o è una posizione più forte, che implica un intervento attivo dello Stato contro l’influenza della religione sui cittadini?
2) Quali sono i rischi di una laicità «forte», diciamo à la francese? Non rischiamo di difendere i cittadini dall’identità religiosa in nome di un’identità nazionale o repubblicana che rischia di essere un concetto altrettanto pericoloso? In Francia sicuramente è così: il Panthéon, quel «tempio sacro del laicismo», come lo definiva Saul Bellow, dove sono sepolti i grandi uomini della nazione, è un simbolo di rafforzamento di un’identità nazionale francese che dev’essere più importante per i cittadini della loro identità religiosa privata. Ma è un modello esportabile? L’identità francese è basata sui valori universalistici della Rivoluzione del 1789, valori come libertà, fraternità e uguaglianza considerati razionalmente validi ovunque. Ma l’eredità della sua storia è la forza della Francia, mentre è dubbio che rinforzare l’identità nazionale di altri Stati sia una buona idea per favorire la democrazia. Sappiamo tutti il costo nei secoli, e non solo in Europa, del prendere troppo sul serio le identità nazionali…
3) Dobbiamo prendere in considerazione il «nucleo» dell’esperienza religiosa in queste discussioni? Questa esperienza intima è rilevante in una discussione sul laicismo nella società?
4) L’opposizione tra laicismo e assolutismo religioso – derivata dall’Illuminismo – è sempre valida? O l’analisi dell’assolutismo religioso deve andare insieme all’analisi di altri sistemi totalitari, come il fascismo, il comunismo eccetera? Forzare la discussione nei termini di una battaglia tra assolutismo e libertà non è cambiare i termini del dibattito? Non è proprio il fulcro del problema oggi? Come possiamo dare un calcio d’inizio al dibattito sulla laicità che superi questa opposizione e che tenga conto delle molte versioni ed espressioni di fede e del bisogno umano di queste espressioni?
5) Una soluzione ideale per una società libera e tollerante delle varie religioni sarebbe una sorta di «ecumenismo», ma non è una caratteristica almeno delle religioni monoteistiche basate su un corpus testuale di definirsi come «vere» religioni in contrapposizione alle altre? Nel suo bel libro, Il prezzo del monoteismo, Jan Assmann sostiene che è proprio dei monoteismi definirsi come «contro-religioni», ossia religioni individuate attraverso un’opposizione tra vero e falso, invece che tra sacro e profano o puro e impuro, com’è tipico di molte religioni politeiste. I nomi degli dei erano traducibili da una lingua all’altra e da una cultura all’altra nei politeismi antichi: anzi, lo scambio di divinità faceva parte dei trattati di pace e di alleanza politica; il nome di Dio diventa intraducibile con la religione di Mosè. Ci si può chiedere dunque se l’intolleranza verso le altre religioni non sia un tratto costitutivo, una caratteristica intrinseca e non negoziabile dei monoteismi, essenziale alla loro identità.
6) Fino a che punto lo Stato deve proteggere i nostri figli dall’«infezione religiosa»? E questa protezione consiste nel difendere un programma che non insegni la religione come una forma di verità rivelata e insista sui fatti empirici, come propone Dennett, o deve anche vegliare sull’insegnamento di valori religiosi? Quale «infezione» vogliamo evitare? Un’infezione morale – in cui ai nostri figli si insegna cosa devono e non devono fare – o un’infezione epistemica – in cui si dice loro cosa devono prendere per vero e cosa no? Ed è possibile distinguere la dimensione normativa e quella fattuale dell’insegnamento religioso? Per dirlo in modo semplice, in un mondo dennettiano, una famiglia cattolica può predicare ancora contro l’aborto e per la pietà e la solidarietà senza più raccontare storie sulla verginità della Madonna?
7) Dobbiamo un rispetto speciale ai valori religiosi? Dan Sperber si lamenta dell’eccessivo rispetto per la suscettibilità religiosa come di una forma di autocensura. Dice che non faremmo lo stesso con i vegetariani, per esempio. Ma è davvero così? Sarebbe davvero accettabile moralmente forzare un vegetariano a mangiare carne senza considerare la loro differenza morale? La maggior parte dei ristoranti oggi offre almeno un piatto vegetariano e molte linee aeree offrono pasti vegetariani, e questo ci sembra piuttosto un segno di sviluppo civile. I bisogni dei vegetariani sono anch’essi rispettati, come quelli dei religiosi, forse perché in entrambi i casi i loro valori rimandano a una qualche sorta di «salvezza», a un’alternativa moralmente differente a questo mondo che, almeno in alcuni aspetti, ci risulta credibile, e che facciamo fatica a calpestare senza riflettere. Ci sono in effetti credenze e valori che, pur diversi dai nostri, suscitano in noi maggior rispetto. Potremmo forse pensare a una regola morale generale, ossia di rispettare quei valori che puntano verso un’alternativa morale credibile e che non è in conflitto con le acqui
sizioni morali del nostro mondo che non siamo disposti più a mettere in discussione (come l’uguaglianza tra gli esseri umani, la parità tra i sessi eccetera). In questo senso, non rispetteremmo un sistema di valori che implica una violenza sulle donne, ma ci è più facile rispettare dei valori alternativi che si presentano come antidoto alla volgarità. Ci si può chiedere dunque: è accettabile come atteggiamento morale rispettare quei valori – che i credenti ci chiedono di rispettare anche se non li condividiamo – che sono compatibili con un’alternativa moralmente credibile al nostro mondo attuale, così come lo è l’alternativa vegetariana?
Se la società che vogliamo realizzare è una società di tolleranza reciproca, allora la prima conversazione che dobbiamo incoraggiare è quella su ciò che è accettabile e ciò che non è accettabile nelle visioni del mondo che non condividiamo. Si può essere atei, ma ben comprendere le inquietudini sull’aborto, o essere religiosi e non accettare affermazioni razziste su differenze di essenza tra esseri umani. Una laicità forte è difendibile solo se il laico è capace di mantenere una conversazione tollerante con i credenti e viceversa, all’interno di uno spazio morale comune.*
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