L’amico dei giornali
di Ezio Mauro, da Repubblica
Era innamorato della vita, Carlo Caracciolo, probabilmente perché era riuscito a vivere come avrebbe davvero voluto. Per questo la malattia era stata sconfitta tante volte, fino a ieri.
Carlo tornava a casa dalle cliniche e riprendeva in mano ogni volta le sue passioni. Il giornale nella poltrona d’angolo col caffè al mattino, in via della Lungarina, i ritagli degli articoli più importanti allineati sul tavolo quadrato dell’ufficio, i pranzi trasformati in discussioni, ricordi, progetti, pur di non rimanere solo: infine il rito dei week-end a Torrecchia con gli amici.
Così ogni volta rifioriva nelle passioni ordinarie, che erano la sua vita. "Sei tornato bellissimo", gli ha detto un amico pochi giorni fa, mentre progettava come sempre nuove avventure editoriali. E invece stava cominciando a morire, a modo suo, continuando a guardare avanti come se il tempo non fosse un problema, perché il lamento, il dolore, persino la malattia e addirittura la tristezza erano per lui una debolezza da non mostrare mai.
Al centro del suo mondo, i giornali. Un’avventura editoriale, perché li ha creati dal nulla insieme con Eugenio Scalfari e li ha trasformati in impresa. Ma ancor più un’avventura culturale e politica nel senso più alto e più libero del termine. Carlo era infatti un amico dei giornali, tutto gli piaceva, dalla grafica alle idee, ai titoli, alle fotografie. Grandi o piccoli, non importa. Mentre li leggeva, era l’unico momento in cui perdeva il suo disincanto, li penetrava, ne cercava l’anima, l’essenza autentica, tutto ciò che c’è dietro un articolo o una firma. In una formula, si può dire che capiva, perché sapeva, quanto un giornale faccia parte della vita di un Paese, non della sua rappresentazione.
Sfogliandolo, sembrava capace di intravvedere e raggiungere il mondo misterioso e potente che i quotidiani muovono facendosi, ogni giorno. È per questo sentimento profondo di comprensione, non per il rispetto astratto di qualche regola, che non ha mai detto a un direttore cosa doveva scrivere. Perché conosceva – fino ad esserne sedotto – quella chimica arcana con cui il giornale dà quotidianamente forma a se stesso, dal primo abbozzo del mattino all’urto pieno e aperto con i fatti, infine al momento in cui gli avvenimenti esterni e la cultura interna si fondono in una selezione, creano una gerarchia, diventano un disegno, formano un’idea: e danno vita non a un fascio di notizie stampate, ma ad una ricostruzione organizzata e a una reinterpretazione appassionata della giornata che abbiamo attraversato, della fase che stiamo vivendo.
Questo spiega perché Carlo è sempre stato parsimonioso di presenza pubblica, di dichiarazioni e di interviste. Perché se un giornale è un mondo, l’editore è in qualche modo il costruttore e il primo cittadino di quel mondo, e parla attraverso i suoi giornali. Di più. Nella concezione spontanea e naturale di Caracciolo i giornali erano lo strumento per prendere parte al discorso pubblico, risolvendo così il contrasto tra la sua timidezza e la forza della sua passione politica. Perché la politica e la sinistra sono state un’altra passione della sua vita. Aveva un modo lontano e insieme partecipe di seguire le vicende dei partiti, una conoscenza continuamente alimentata, un sistema di relazioni vasto e quasi senza selezione. Ma aveva un modo naturale e spontaneo di essere di sinistra, qualcosa di profondo e di genetico, probabilmente per l’impronta partigiana, così come accade a Giorgio Bocca. Talmente sicuro, e autentico, da consentirgli il libertinaggio di amicizie eterogenee, distanti, diverse, purché divertenti e intriganti, coltivate con la volagerie curiosa del principe.
Proprio questa concezione del giornale come mezzo per intervenire nel discorso pubblico, strumento culturale di cittadinanza, libero e autonomo dai partiti ma portatore – come dicevamo spesso citando Gobetti – di "una certa idea dell’Italia", ha posto naturalmente Carlo al centro di quell’asse che collega la scuola giornalistica dell’"Espresso" e la tradizione del "Mondo" al progetto di "Repubblica". E qui sta il senso più profondo del sodalizio di una vita con Eugenio Scalfari, e dell’incontro e dell’intesa con Carlo De Benedetti, così come sta qui il significato e la ragione della formula con cui "Repubblica" ha selezionato nei trent’anni generazioni diverse di giornalisti e di lettori.
Davanti ad ogni nuovo progetto, davanti ad ogni difficoltà, magari a un dubbio, veniva spontaneo cercare Carlo, sedersi davanti a lui, vederlo prendere le cose alla lontana per poi venire al sodo, senza tirarsi mai indietro. Sapeva cosa pensare, anche se sembrava distratto aveva sicuramente letto, magari aveva sentito, in ogni caso aveva capito. Lui c’era, con quel modo svagato e sorridente di custodire il segreto degli inizi, di testimoniare le ragioni di un’avventura, di attraversare le generazioni tenendo tutto insieme, ieri e oggi, i giovani e i vecchi, mentre lui progettava nuovi sbarchi editoriali e ritagliava giornali, chino sulla luce del suo tavolo quadrato.
Ieri mi sono arrivati due ritagli, uno su Obama, uno su un piccolo fatto di cronaca ad Udine, con un foglio e quella grafia grande e un po’ sconnessa: "Che dici? Chiamami". Non lo chiamerò più, l’ho accarezzato in clinica mentre dormiva e sapevo che non gli avrei più parlato. L’amico dei giornali se n’è andato, a noi manca qualcosa di insostituibile.
(16 dicembre 2008)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.