Landini, Marx e la cultura economica della CGIL
Luca Michelini
Un bel convegno organizzato dall’Università di Pisa sul pensiero di Marx (dal titolo Marx 201. Ripensare l’alternativa) ha avuto tra gli ospiti Maurizio Landini, neo-segretario della CGIL. Ero molto curioso di ascoltare Landini, perché mi aspettavo che parlasse appunto di Marx e del marxismo, cioè del ruolo che il pensiero marxiano e marxista poteva avere, o non avere, oggi, all’interno della più grande organizzazione del cosiddetto movimento operaio italiano. Il titolo della relazione, del resto, prometteva bene: Il lavoro nel capitalismo globalizzato. Per una nuova internazionale.
I presupposti culturali perché il tema fosse rilevante sono numerosi. Il marxismo è stato per lungo tempo l’ideologia portante del sindacato italiano “rosso”, fin dalle sue origini. Ciò non significa affatto che Marx fosse una sorta di profeta da cui trarre dottrina e pratica del sindacalismo: fin dalle sue origini, la fortuna di Marx in Italia si è intrecciata con continue riletture e re-interpretazioni del suo pensiero, fino ad arrivare a vere e proprie critiche, talune anche radicali, tanto da decretarne l’accantonamento come punto di riferimento teorico e politico. Particolarmente rilevante fu in Italia il cosiddetto “revisionismo”, che ebbe notevole impatto sul pensiero economico socialista, grazie ad Achille Loria; ma ebbe rilievo anche in ambito filosofico e storiografico grazie agli scritti di Benedetto Croce di Giovanni Gentile.
Marx, tuttavia, rimaneva un pensatore con il quale il confronto era ineludibile, se non altro perché la storia del capitalismo italiano e la storia mondiale riproponevano continuamente la sua attualità: ora analitica, con lo svilupparsi degli imperialismi occidentali, lo scoppio del primo conflitto mondiale, la Grande Crisi, lo svilupparsi si sistemi economici socialisti; ora politica, con la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del fascismo e del nazismo, l’instaurarsi di regimi socialisti di ispirazioni marxiana, come la Cina ecc. La tradizione di pensiero che, opponendosi al revisionismo, principia con il filosofo Antonio Labriola ed arriva fino ad Antonio Gramsci, costituirà una delle colonne portanti della cultura del Partito Comunista Italiano, cioè di quel partito che con la CGIL aveva un rapporto privilegiato e di continua osmosi culturale e politica. Non meno rilevante fu l’impatto di Marx sulla cultura socialista, che, grazie alle elaborazioni di autori come Rodolfo Moranti e Lelio Basso, daranno un forte impulso alla caratterizzazione in senso socialista sia della Costituzione repubblicana, sia della politica economica dei governi di centro-sinistra.
Anche oggi, uno dei motivi per i quali si ritorna sulle pagine di Marx è non solo l’articolarsi interno di una tradizione teorica ed esegetica in diversi campi del sapere, ben rappresentata dal convegno pisano. Marx ritorna d’attualità a causa della profonda crisi economica che ha avuto come epicentro gli Stati Uniti d’America e a causa della rinascita prepotente dei nazionalismi economici. Il neo-liberismo ha dovuto lasciare campo alla rinascita del pensiero keynesiano e il passo da Keynes a Marx è breve. Dibattuto e controverso, ma in ogni caso il passo è breve per quella tradizione di pensiero che non si nasconde affatto le contraddizioni del capitalismo e che nella storicità del capitalismo cerca di trovare le ragioni e le forme della sua caducità per lasciar spazio ad un nuovo modo di produrre ricchezza.
Tra i segretari della CGIL del secondo dopoguerra si deve ricordare la figura di Bruno Trentin. Nella raccolta di saggi dal titolo Da Sfruttati a produttori (Bari, De Donato, 1977) spicca il testo Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana (1962) che raccoglie e pone una serie di questioni allora di attualità e destinate a costituire il baricentro del dibattito teorico e politico italiano. I temi affrontati erano e rimangono centrali per la cultura e la prassi politica italiana: superate, grazie alle pagine dei Quaderni di Gramsci, le interpretazioni del capitalismo italiano come sistema economico “putrescente”, cioè incapace di stare al passo con i capitalismi più evoluti, il movimento operaio doveva confrontarsi con forme crescenti di pianificazione dell’economia capitalistica, con uno “Stato industriale” che, nato durante il fascismo, si dimostrava sempre più pervasivo e dinamico, con politiche economiche ispirate anche al pensiero di Keynes. La cornice sociale, politica e geopolitica in cui questi fenomeni si sviluppavano vedeva l’egemonia di forze tutt’altro che socialiste. Come andava interpretato, insomma, in ottica comunista o socialista il crescente intervento pubblico in economia e le cicliche fasi di rivoluzione e di razionalizzazione della produzione? È in questa temperie culturale, che si inserisce in un boom economico senza precedenti e si sovrappone alla nascita di un impetuoso movimento operaio, che in Italia nascono le teorie “operaiste”, con Raniero Panzieri. Intervenendo su questioni come il macchinismo, la nascita dell’informatica, la pianificazione, la natura del socialismo reale, questo pagine offrono interpretazioni innovative e originali di Marx, che, dopo Panzieri, contribuiranno a mettere radicalmente in crisi l’idea togliattiana della via italiana e riformistica al socialismo, offrendo sul piano politico alternative radicali e talvolta eversive alla crisi italiana. Antonio Pesenti ed Emilio Sereni, invece, sul fronte opposto e dunque rimanendo ancorati alla strategia del PCI, cercavano in Marx la grammatica per definire i contorni di una nuova “formazione economico-sociale” capace di fare della Costituzione italiana il perno di una trasformazione radicale della realtà italiana.
Protagonista dell’idea di considerare il salario come una “variabile indipendente” sulla quale strutturare la politica economica e la contrattazione, la parabola di Trentin è molto significativa, soprattutto per una riconsiderazione della stagione che comprende la storia della cosiddetta Seconda Repubblica. Trentin, infatti, fu anche protagonista, negli ultimi anni, dell’inizio di una stagione sindacale che faceva del mondo del lavoro il protagonista indiscusso del salvataggio economico della Repubblica. Il dibattito culturale che accompagnò quella stagione è vivo ancor oggi: perché data dai primi anni ’90 l’idea che lo Stato sociale italiano, nelle sue multiformi espressioni, era stato protagonista dell’affossamento economico del Paese, così come le eccessive richieste contrattuali del mondo del lavoro. Dapprima si invocò una stagione neo-corporativa, dove la politica dei redditi doveva far perno sulla intermediazione di sindacati ligi alle compatibilità di sistema. In seguito, quando la forza sindacale si era esaurita per perdita di rappresentatività e di forza propria, l’attacco fu frontale e il “liberismo di sinistra”, ben radicato nella forza politica erede del PCI, puntò tutto sulla deregolamentazione del mercato del lavoro all’insegna, incredibile a dirsi, delle ragioni dell’eguaglianza. Era cioè ingiusto ed antieconomico che esistessero lavoratori “protetti” e lavoratori “non protetti” ed era dunque giusto ed economico che tutti i lavoratori… finissero per non avere protezione alcuna, naturalmente nella prospettiva, del tutto irrealistica, che l’Italia divenisse in breve tempo come
la felice Danimarca, dove imperava il regime della flexsecurity. Mentre a gran voce gli ideologi del capitalismo italiano dimostravano come la classe operaia non esistesse più e che qualsivoglia analisi classista della società era superata dalla “complessità sociale” (che manicheo il vecchio Marx!… di cui ovviamente non si leggeva un solo rigo), gran parte delle politiche economiche dei governi che si alternano alla guida del paese erano incentrate sulla distruzione dei diritti dei lavoratori, il cui simbolo era l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, approvato al culmine delle lotte operaie degli anni ‘60. La stagione del neo-liberismo trionfava, auspice in prima fila la classe dirigente ex-comunista: lo smantellamento sistematico dello “Stato industriale”, l’attacco centellinato ma ben studiato e di lungo periodo allo Stato sociale (in primis alla scuola pubblica), le privatizzazioni e l’aziendalizzazione della produzione di servizi, l’indifferenza per la nascita di oligopoli nel settore privato, anche in ruoli strategici come le televisioni e le banche, la fine di qualsivoglia politica industriale, la subordinazione a politiche di austerità volute da altri paesi europei, si traducevano in un meccanismo di accumulazione tutto incentrato sul mercato del lavoro e su processi di concentrazione della ricchezza. Quanto basta, oggi, per ritenere le pagine del Primo Libro del Capitale di Marx, dove è analizzato sul piano teorico e storico “l’olocausto” della classe operaia inglese di primo Ottocento, del tutto attuali.
Trentin fu consapevole della tragedia del movimento operaio italiano. Impossibile che il sindacato, da solo, diventi il perno di una trasformazione radicale della società. E lo storico può opportunamente inquadrare questa consapevolezza: che era quella di una generazione che tentò in tutti i modi di realizzare quella “rivoluzione promessa” dalla nostra Costituzione, cercando di rimanere nei limiti disegnati dalla Costituzione stessa, quelli della democrazia rappresentativa e dunque cercando mille compromessi politici, sociali, economici, e facendosi spazio in un quadro internazionale difficilissimo e per nulla favorevole, come il caso Moro dimostrerà. È però dalla consapevolezza storica, circostanziata, delle poste in gioco del passato, che non può che ripartire una classe dirigente degna del nome, cioè capace di vedere le poste in gioco del presente e del futuro.
Ascoltando Landini la sensazione è che di tutto questa tradizione non vi sia nella CGIL di oggi traccia alcuna. Il segretario ha sottolineato che il suo percorso è quello di un lavoratore dell’industria e i cenni a Marx sono sostanzialmente inesistenti nel suo discorso. Eppure la fortuna di Marx nel nostro Paese non è affatto solo legata al lavoro di studiosi di professione. Furono proprio gli operai, i lavoratori, a cercare nelle pagine di Marx gli strumenti per comprendere la propria condizione. Colpisce la ricchezza di iniziative editoriali operaie del socialismo di fine Ottocento, rispetto alla povertà del panorama culturale di oggi. Proprio quando oggi i mezzi tecnici consentono di abbattere una serie di costi notevoli (la carta, la distribuzione), le capacità intellettuali sono non solo svilite (quante forme di lavoro gratuito intellettuale oggi esistono!), ma inesistenti. Perché le organizzazioni del cd. movimento operaio, che pure esistono, nemmeno si pongo il problema di creale e di organizzarle. Si pensa all’unità sindacale, così si esprime Landini sui quotidiani, ma non si pensa a rendere il sindacato territoriale un baluardo del mondo del lavoro: superando i pur blandissimi scopi corporativi (ci fossero almeno quelli) per ricostruire una reale, autonoma, cultura dei lavoratori. L’unità del sindacato presuppone quella dei lavoratori, non viceversa. La storia stessa della CGIL è frutto di un moto dal basso verso l’alto: prima i sindacati di mestiere, poi la loro confederazione, in seguito la Camera del lavoro, poi il sindacato come organo unitario. Oggi, chiedo, dove e come si costruisce quella che Marx chiamava la “coscienza di classe”? Non è detto che debba essere una coscienza di classe marxista. Ma una cultura capace di leggere la realtà e di proporre come governarla è indispensabile. Se si accetta di intervenire ad un convegno su Marx, qualche cosa in proposito andrebbe almeno accennato.
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