L’auto non inquinante non è un’illusione: Ponti e Ramella replicano a Caserini

Marco Ponti e Francesco Ramella

Continua il botta e risposta sul "mondo nuovo post-covid". Nel saggio "L’auto non inquinante è un’illusione" presente nel di MicroMega in edicola Stefano Caserini critica le posizioni di Marco Ponti e Francesco Ramella contenute ne "La mobilità dopo la pandemia: meglio su gomma?" []. Questa la loro "controreplica".

Nel suo articolo pubblicato su Stefano Caserini argomenta contro alcune affermazioni contenute nell’articolo a nostra firma pubblicato nel numero 4 della Rivista. Le sue argomentazioni non sono convincenti. Vediamole una per una.

1. Auto poco inquinanti

Partiamo dalla prima “confutazione” secondo la quale non sarebbe vero che “le che le automobili di più re­cente produzione «inquinano molto poco»”. Ironicamente, a confutare la confutazione è lo stesso Caserini che nel suo testo scrive: “è indubbio che ci siano stati miglioramenti nelle emissioni degli autoveicoli nell’ultimo secolo (come ci sono stati in tutte le tecno­logie, da quelle agricole a quelle mediche): le simpatiche auto guidate da Stanlio e Ollio emettevano molti più ossidi di azoto, polveri sottili, composti organici volatili e monossido di carbonio” e aggiunge: “il progresso tecnologico ha permesso riduzioni significa­tive delle emissioni di molti inquinanti”.

Più avanti nel testo c’è un ulteriore giravolta laddove Caserini sostiene che: “affermazioni secondo cui le auto di nuova generazione inquinano «molto poco» oppure «un veicolo attuale inquina mediamente un decimo di uno di 20 anni fa» sono sbagliate, fuor­vianti anche se considerate in termini relativi” per poi evidenziare in una nota che “rispetto a vent’anni fa un veicolo medio attuale emette un decimo solo di alcuni inquinanti.” Secondo Caserini però “la «media» fra più inquinanti ha poco senso, in quanto si tratta di sostanze con effetti molto diversi sulla salute.”

Quindi, ci sembra di capire, Caserini è d’accordo con gli scriventi in merito al fatto che le auto di oggi inquinano un decimo rispetto a quelle di 20 anni ma limitatamente ad alcuni inquinanti.

É vero che i vari inquinanti hanno effetti molto diversi sulla salute ma è possibile fornire una stima complessiva del miglioramento sulla base dei valori di costo esterno contenuti nell’«Handbook on the external costs of transport» della UE. Ora, il costo dell’inquinamento atmosferico – ossia la sommatoria di tutti i danni arrecati – di un’auto a benzina a standard Euro 0 (di cilindrata compresa tra 1,4 e 2,0 l) che percorre una strada urbana in ambito metropolitano risulta pari a 3,04 centesimi di € e quello di un’auto Euro 6 a 0,14 centesimi €; la riduzione del danno è dunque pari al 95%: una auto Euro 6 a benzina provoca danni pari a 1/20 rispetto a una Euro 0; per le auto diesel il costo esterno passa da 7,05 a 0,86 centesimi di € con una riduzione dell’88% (e del 73% nelle aree urbane più piccole).

Questo straordinario miglioramento fa sì che oggi i benefici per la qualità dell’aria conseguenti alla riduzione del trasporto individuale siano di gran lunga inferiori a quelli che si potevano ottenere nel passato: è oggi necessario togliere dalle strade dieci auto per avere lo stesso effetto che nel 1980 si sarebbe conseguito eliminandone una sola.

2. Il ruolo marginale di trasporti collettivi e biciclette per la riduzione delle emissioni climalteranti.

Stefano Caserini ha ragione quando scrive che: “si tratta indubbiamente di un’affermazione stra-ordinaria, perché la promozione del trasporto collettivo e dei mezzi non motorizzati è un ingrediente di tutte le politiche di mitigazione dei cambia­menti climatici, a livello europeo e internazionale.” Ma ha torto nel sostenere che “le prove por­tate a supporto della marginalità di queste azioni sono però piut­tosto esili”.

La prova “regina” dell’affermazione straordinaria è riportata in apertura del nostro articolo dove si ricorda che “i passeggeri in Italia, come in Europa, si muovono essenzialmente in automobile (80% circa) nonostante questa modalità di trasporto sia soggetta a una tassazione tra le più alte del mondo e i mezzi collettivi siano tra i più sussidiati del mondo.

L’obiettivo del “riequilibrio modale” dall’auto ai trasporti collettivi è perseguito dalla UE da un ventennio o forse più, perlomeno dalla pubblicazione del “Libro Bianco sui Trasporti” nel 2001. In questo periodo alle sole ferrovie sono state trasferite ingentissime risorse per un ammontare di circa 1.000 miliardi di €. Ora, secondo gli ultimi dati pubblicati dalla Commissione Europea, la quota di spostamenti soddisfatta dagli autobus è scesa tra il 1995 e il 2017 dal 9,7% al 7,4%, quella del treno è cresciuta di pochissimo, dal 6,4 al 6,8% e quella di tram e metro dall’1.4% all’1,6%. Complessivamente la quota modale dei trasporti collettivi terrestri è quindi diminuita dell’1,7%. In Svizzera dopo oltre mezzo secolo di (efficaci) politiche a favore delle ferrovie e dei trasporti pubblici urbani, l’auto soddisfa il 77% delle percorrenze a livello nazionale e le emissioni pro-capite di CO2 sono nettamente superiori a quelle del nostro Paese. Non vi è ragione alcuna per ritenere che nei prossimi 20 o 30 anni l’evoluzione possa essere significativamente diversa. O, quanto meno, l’onere della prova di un ruolo non marginale dei trasporti collettivi ai fini della riduzione delle emissioni climalteranti è a carico di chi lo ritiene possibile non certo di chi lo esclude sulla base di un’evidenza empirica amplissima sia in termini spaziali che temporali.

3. Dove si giocherà la partita del clima?

Scrive Caserini che “l’argomento secondo cui «la partita del clima, per la quota deter­minata dalla mobilità, non si giocherà in Europa» perché le sue emissioni sono solo un decimo di quelle globali, e perché molti paesi poveri oggi stanno seguendo lo stesso percorso di rapida motorizzazione che ha caratterizzato i paesi occidentali a partire dal secondo dopoguerra, è molto vecchio.” Se sia vecchio non sapremmo dire, ma è un dato di fatto. La quota di emissioni della UE è stata dimezzata negli ultimi 30 anni. Se domani la UE scomparisse, le emissioni mondiali si ridurrebbero del 10%. Non è in discussione il fatto che l’Europa debba, anche in considerazione delle emissioni passate, fare la propria parte: quello che si evidenzia è la rilevanza e l’efficacia delle politiche. L’Europa può e deve a nostro avviso giocare un ruolo importante nella promozione della innovaz
ione tecnologica, unica politica che può essere efficace in un quadro di aumento significativo della domanda di mobilità individuale nel mondo. Spendere decine o centinaia di miliardi per sussidiare treni e metropolitane è sostanzialmente inutile, spenderli in ricerca e innovazione no. Come scrivono J. Eliasson e Stef Proost, due tra i maggiori economisti dei trasporti europei, in un paper significativamete intitolato “Is sustainable transport policy sustainable?”: “A country interested in carbon emission reduction in the world can achieve a larger total emission reduction by shifting the emphasizing from activity reduction (high car taxes, car use restrictions) to technology improvements. The reason is that the technology improvements can spill over to the rest of the world while the activity reduction is per definition local[i]”.

4. Il Premio Nobel William Nordhaus sottostima degli impatti dei cambiamenti climatici?

Secondo Stefano Caserini il Premio Nobel per l’economia sarebbe responsabile di una “clamorosa, gigantesca sottostima degli impatti economici dei cambiamenti climatici” se paragonati a quelli delineati nello “Special Report on 1.5°C global warming” dell’IPCC. Si tratta di un’affermazione priva di fondamento. Nel suo più recente paper pubblicato sull’American Economic Review, Nordhaus stima che i costi del cambiamento climatico per un aumento della temperatura di 3°C siano pari al 2,1% del PIL mondiale (“Including all factors, the damage equation in the model assumes that damages are 2.1 percent of global income at 3°C warming[ii]”). Nello Special Report dell’IPCC si legge (p. 256) che: “Under the no-policy baseline scenario, temperature rises by 3.66°C by 2100, resulting in a global gross domestic product (GDP) loss of 2.6% (5–95% percentile range 0.5– 8.2%)[iii]”.

Le due stime sono dunque molto simili: 2,1% di riduzione del PIL tendenziale (che sarà un multiplo di quello attuale) per un aumento di 3°C per Nordhaus e 2,6% per un riscaldamento di 3,66 °C per l’IPCC.

5. 100 € per tonnellata di CO2. Il prezzo è giusto?

Si chiede Caserini: “Chi ha deciso che 100 euro sia il costo «ottimale» da pagare per ogni tonnellata di CO2 scaricata nell’atmosfera? Non certo gli scienziati, che hanno proposto un intervallo di valori molto gran­de, che varia da poche decine a migliaia di euro… La scelta del valore «ottimale» non può che essere politica”.

Sembra sfuggire a Caserini che quel valore è precisamente determinato da una scelta politica, ossia quella di limitare l’incremento di temperatura a 1,5 °C. Essendoci molte incertezze sulla stima del “vero” costo esterno correlato alla emissione di una tonnellata di CO2 si adotta quello delle misure meno costose per raggiungere l’obiettivo prefissato come si può leggere nell’Handbook on the external costs of transport della UE: “There are two major ways that the climate change costs can be monetised: either using a damage cost approach or an avoidance cost approach. Like in the previous versions of this Handbook, we use the avoidance cost approach. Damage costs have serious limitations because potentially catastrophic effects, such as the melting of the polar ice caps in Greenland or West Antarctica or changes in climate subsystems such as El Niño Southern Oscillation cannot be well incorporated. The GHG emission reductions agreed in the Paris Agreement are based on preventing temperature rises above 1.5-2 degrees Celsius. Exceeding this level is considered to be too risky for future generations. Therefore, it makes sense to formulate climate change costs as avoidance costs, based on the target agreed in the Paris Agreement. Limiting temperature rise to 1.5-2 degrees Celsius roughly equates to no more than 450 ppm (parts per million) CO2 in the atmosphere. A wide range of literature on avoidance costs is available. The avoidance costs used in this Handbook are based on an analysis of recent literature which revealed that the central value for the short-and-medium-run costs (up to 2030) is € 100/tCO2 equivalent (€2016)[iv]”.

Quel valore potrebbe peraltro davvero non essere ottimale. Lo è solo se i costi da sostenere per non superare il target prefissato sono inferiori ai benefici conseguiti. E non è affatto certo che sia così.

Secondo S. Dietz, autore di un’analisi costi-benefici delle politiche volte a mantenere l’incremento di temperatura entro gli 1,5 °C: “The economic case for limiting warming to 1.5◦C is unclear, due to manifold uncertainties. However, it cannot be ruled out that the 1.5◦C target passes a cost-benefit test. Costs are almost certainly high. Benefits estimates range from much lower than this to much higher[v]”. Dunque, quello che possiamo dire è che “non si può escludere che” quella politica sia efficiente ma potrebbe benissimo non esserlo. In quel caso il valore di 100 € sarebbe troppo elevato.

6. La (non) convenienza della riduzione delle emissioni dei trasporti

Secondo Caserini è “cosa incomprensibile perché mai per finanziare le riduzioni di gas serra negli altri settori non potremmo applicare una tassa­zione in quegli specifici settori, anziché prendere le risorse da chi consuma benzina e gasolio inquinando le città e aggiungendo altra CO2 in atmosfera. O perché le risorse per aiutare i paesi a minor reddito a diventare carbon neutral non potrebbero derivare da tassazioni sui grandi patrimoni, giusto per fare un esempio”.

Quello che per Caserini è incomprensibile è scontato per gli economisti. I quali sostengono, ad esempio in questa dichiarazione sottoscritta da 27 Premi Nobel, che la politica più efficiente ed efficace per ridurre le emissioni di CO2 è l’applicazione a tutti i settori di un’identica carbon tax con contemporanea rimozione di tutte le altre forme di regolazione e incentivazione (con la eccezione di quelle volte a finanziare l’innovazione). Ogni altra opzione è meno efficiente perché si deve spendere di più per ridurre di una tonnellata le emissioni di CO2 e quindi meno efficace: a parità di risorse impegnate, la riduzione totale delle emissioni è più piccola oppure occorrono più risorse per ridurre la stessa quantità di emissioni.

Cioè occorre ricordare una banalità evidente: che il benessere collettivo si massimizza quando è minima la somma tra costi esterni e costi di abbattimento (cioè ovviamente non minimizzando i soli costi ambientali, altrimenti si proibirebbero quasi tutte le attività, trasporti compresi). Questo si ottiene solo se ogni attore (o settore) minimizza i costi di abbattimento per ogni unità di inquinante abbattuto, che
si ottiene solo con una tassazione uguale per tutti gli attori. È la motivazione alla base dell’ottimalità dei “prezzi pigouviani”, tradotti in linguaggio più corrente nel principio “polluters pay” (“paghino gli inquinatori”, che ha anche un forte contenuto di equità, oltre che di efficienza). È questo da sempre il principio-base dell’economia ambientale in tutto il mondo (si rimanda alla letteratura per la sua dimostrazione formale).

Il problema attuale è che negli altri settori (e anche in quello dei trasporti all’infuori dell’Europa) la tassazione è di molto inferiore a 100 € e alcuni di essi – l’agricoltura ad esempio – sono addirittura sussidiati.

Quanto alla patrimoniale come alternativa alle accise su benzina e gasolio, si tratta di un’evidente fallacia logica, in quanto riguarda la distribuzione del reddito, scelta strettamente politica che nessuno, per chiarezza, mescola con argomenti relativi all’efficienza. A valle della definizione di politiche ambientali efficienti, è certamente possibile, o auspicabile, modificare la progressività del prelievo fiscale, o ridurre la pressione per alcune categorie sociali deboli che risultassero troppo penalizzate da politiche del tipo descritto. Ma non esistono motivazioni logiche per servirsi di strumenti distributivi rinunciando o diminuendo l’efficienza ambientale. Non sono politiche alternative, e possono essere perseguite entrambe. Per ognuna delle due sono necessarie analisi e strumenti diversi: se una tassa del tipo “polluters pay” colpisse in particolare categorie a basso reddito, è ovviamente meglio mantenere la tassa per minimizzare in modo efficiente i costi esterni, e modificare la progressività fiscale per non diminuire il benessere complessivo delle categorie svantaggiate.

Ipotizzando di aver introdotto la patrimoniale e aver finanziato con questa una serie di misure di riduzione delle emissioni, se un automobilista rinuncia ad andare in auto e sceglie la bicicletta, per ogni litro di benzina non consumato lo Stato si priva di 300 euro con i quali potrebbe ridurre un multiplo della CO2 non emessa. E se deve investire in una nuova linea di metropolitana o aumentare i sussidi al trasporto pubblico, le risorse impegnate sono ancora maggiori. Perché dovrebbe essere etico usare queste risorse per migliorare la qualità della vita invece di impiegarle per ridurre un quantitativo molto maggiore di emissioni?

Questo soprattutto all’interno di una logica disciplinare che assegna una forte priorità ai temi ambientali su altri: politiche non efficienti allontanano il conseguimento dell’obbiettivo a parità di risorse sociali disponibili.

Adottarle vorrebbe dire preferire, per usare le parole conclusive di Caserini, ridurre le emissioni “meno alla svelta” rispetto a quanto sarebbe possibile fare. Posizione davvero incomprensibile tanto più quanto più si considera urgente la necessità di agire.
(28 luglio 2020)
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[i] “Un paese interessato alla riduzione delle emissioni di CO2 nel mondo può raggiungere una più ampia riduzione totale spostando l’obiettivo dalla riduzione di attività da conseguire con un aumento della pressione fiscale o con restrizioni all’uso dell’auto ai miglioramenti tecnologici. La ragione è che i miglioramenti tecnologici si riversano su tutta la mobilità nel mondo, mentre la riduzione di attività è per definizione locale”

[ii] “Considerati tutti i fattori, l’equazione del danno nel modello presuppone che i danni siano pari al 2,1% del reddito globale per un riscaldamento pari a 3 ° C”

[iii] “Nello scenario di base in assenza di politiche di intervento, la temperatura aumenta di 3,66 °C entro il 2100, con una perdita globale del prodotto interno lordo (PIL) del 2,6% (intervallo di confidenza al 95%: 0,5–8,2%)”

[iv] “Esistono due modi principali per monetizzare i costi del cambiamento climatico: utilizzare l’approccio che tiene costo del danno oppure quello del costo per evitarlo. Come nelle versioni precedenti di questo manuale, utilizziamo l’approccio del costo per evitarlo. L’approccio del costo del danno ha serie limitazioni perché effetti potenzialmente catastrofici, come lo scioglimento delle calotte polari nella Groenlandia o nell’Antartide occidentale o i cambiamenti nei sottosistemi climatici come El Niño-oscillazione meridionale non possono essere ben incorporati. Le riduzioni delle emissioni di gas a effetto serra concordate nell’accordo di Parigi si basano sulla prevenzione di aumenti di temperatura superiori a 1,5-2 gradi Celsius. Il superamento di questo livello è considerato troppo rischioso per le generazioni future. Pertanto, ha senso formulare i costi del cambiamento climatico come quelli da sostenere per rispettare tale obiettivo. Limitare l’aumento della temperatura a 1,5-2 gradi Celsius equivale approssimativamente a non più di 450 ppm (parti per milione) di CO2 nell’atmosfera. È disponibile una vasta gamma di pubblicazioni sui costi; quelli utilizzati in questo manuale si basano su un’analisi della letteratura recente che ha rivelato che il valore centrale dei costi di breve e medio periodo (fino al 2030) è pari a € 100 / tCO2 equivalente (€ 2016).

[v] “La motivazione economica per limitare il riscaldamento a 1,5 ° C non è chiara, a causa delle molteplici incertezze. Tuttavia, non si può escludere che l’obiettivo da 1,5 ° C superi un test costi-benefici. I costi sono quasi certamente elevati. Le stime dei benefici vanno da molto più in basso a molto più alte”
(28 luglio 2020)



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