Le bugie come metodo (a fin di bene) al tempo della pandemia

Edoardo LombarVallauri



Durante questa emergenza epidemiologica ci si è buttati ad analizzare linguisticamente la comunicazione sul coronavirus per scoprirne le peculiarità. Diversi commentatori hanno sostenuto che per parlare della malattia si sia fatto ricorso a metafore belliche con lo scopo di amplificare la paura e l’allarme. Il virus, cioè, è stato dipinto come un nemico da combattere, con tutto il lessico che ne consegue, per farlo apparire più minaccioso. Nei casi in cui la comunicazione era particolarmente allarmista è stato senza dubbio così, e le metafore hanno fatto la loro parte insieme ai numeri, al racconto degli episodi più tragici, e così via. Ma il fatto in sé di adottare il lessico della guerra non dimostra che ci sia il desiderio di creare allarmismo. Questo perché il lessico della guerra è quello più naturale per parlare della lotta a una malattia.

La lingua non crea lessici apposta per tutte le possibili situazioni. Non c’è un verbo diverso per ‘mangiare’ a seconda di quello che si mangia, e non c’è un verbo diverso per ‘camminare’ a seconda di dove si cammina. Così, non c’è un verbo diverso per ‘lottare’ o ‘combattere’ a seconda di ciò contro cui si lotta o si combatte. L’intero linguaggio si regge sulle metafore. Le gambe dei tavoli e delle sedie si chiamano così per metafora: non per insinuare che quei mobili siano esseri animati, ma solo per non dover creare altre parole apposta. E se andare significa ‘spostarsi’, poi per metafora lo si usa anche in espressioni come andare meglio o andare a male, senza che ci sia l’ombra dell’intenzione di esprimere uno spostamento nello spazio. Quando diciamo di avere letto nella mente di qualcuno non stiamo insinuando che costui abbia una mente libresca, ma stiamo solo usando un verbo già disponibile per esprimere il passaggio dal non conoscere un contenuto al conoscerlo. Le malattie, e le epidemie, anche senza intenzioni allarmistiche si sono sempre affrontate, combattute, e sperabilmente sconfitte o appunto debellate, verbo che etimologicamente contiene la parola latina bellum, ‘guerra’. Certamente usare il lessico della guerra non è rassicurante, ma nel caso di un’epidemia il fattore di allarme è molto più nella cosa che nel linguaggio bellico, in quanto questo è il linguaggio normale per parlarne, a cui la lingua non offre delle alternative se non artificiose. La verità è che si usano metafore belliche per parlare delle malattie proprio perché le malattie oggettivamente somigliano a delle guerre, e non viceversa per far credere al corpo sociale che gli somiglino. Insomma, nella situazione attuale l’importanza di questo linguaggio è stata esagerata, fino a insinuare che usare metafore di guerra per parlare dell’epidemia sia un comportamento doloso, mentre invece è quasi l’unico possibile.

Solo per citare un esempio non sospetto, non a metà marzo scorso, ma nell’aprile del 1828, uno degli uomini intellettualmente più onesti che il paese abbia mai avuto scriveva, sicuramente non con lo scopo di creare allarme sociale:

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella.

E a parte l’allarme sociale, qui il fatto che la terminologia di origine bellica non serva a Giacomo Leopardi per evocare scenari veramente guerreschi lo attesta oltre ogni ragionevole dubbio l’epiteto tenerella, che configura Silvia come quanto di meno simile a un militare all’assalto. Ovviamente gli esempi, letterari e non, in cui le metafore belliche per parlare di malattie non sono dovute a tentativi di strumentalizzazione allarmistica, si potrebbero moltiplicare a migliaia.

Tutta questa attenzione alle metafore di guerra ci ha forse distolti da una questione più importante che ha caratterizzato la comunicazione sull’epidemia. Il mio parere è che in tempi di coronavirus la nostra società dal punto linguistico abbia continuato a comunicare come prima, anche se su temi diversi, e che la vera novità sia stata invece l’intensificarsi della strategia dell’inganno a fin di bene, da parte sia del governo sia delle amministrazioni locali, di certo in maniera non del tutto indipendente, ma dovuta a un qualche grado di concertazione. Chi governa l’Italia ha scelto due modi per mentire: dire il falso, e non spiegare il vero.

Un esempio del primo modo di mentire, cioè dire il falso, in realtà adeguandosi a una bugia dell’OMS, è stato proclamare per settimane che le mascherine non servivano (qui solo un esempio, decisamente istituzionale). Naturalmente portare una mascherina, pure la più farlocca, è meglio che non portare niente, se nell’aria ci sono cose dannose, anche piccolissime. Ogni persona dotata di raziocinio lo sapeva, e quindi sapeva che il governo ci stava prendendo in giro. Io ad esempio ho iniziato a portare la mascherina il 6 marzo (possono testimoniarlo gli ultimi studenti che ho ricevuto all’università).

Il governo aveva buoni motivi: di mascherine non ce n’erano abbastanza (qui taciamo sull’immondo perché), e quindi era meglio se le persone qualsiasi non se le accaparravano, perché ne rimanessero per chi era in prima linea. Ecco, questo rispettabilissimo motivo è stato taciuto quanto più possibile, e si è preferito ingannare tutti dicendo che non servivano a difendersi dal virus. La ragione è chiara: non ci si poteva fidare che adottassero una condotta generosa e collettivamente virtuosa i membri di un popolo che – solo per fare un esempio – all’avvertimento che non bisognava allontanarsi da Milano perché c’è l’infezione mortale, partiva in massa per andare a contagiare il resto del paese.

Appena le mascherine sono arrivate, come era prevedibile si è "scoperto" che erano utili a tutti. Adesso in molti comuni addirittura multano chi non la porta.

Più spesso, il governo ha mentito con il sistema di non spiegare le ragioni delle cose, in modo da lasciar intendere il falso. Ad esempio, non ha spiegato perché vietava le corsette nei parchi e addirittura le passeggiate in campagna o in montagna. Oppure sport come il tennis, che non solo permette, ma impone il distanziamento. Naturalmente queste condotte (almeno la seconda e la terza al di là di ogni possibile dubbio) non propagano nessun virus. Sono state proibite non perché fossero pericolose (non parliamo di escursioni alpinistiche), ma perché, per bloccare tutti i cretini che sarebbero usciti a fare una grigliata o una bevuta con gli amici, era più facile bloccare tutti proprio, anziché avere per strada sia gente innocua che andava da sola in campagna o a giocare a tennis, sia gente pericolosa che andava a gozzovigliare in compagnia. Insomma, se si sono proibite anche le attività sane e sicure è stato per ragioni tecniche, di polizia: per poter intercettare meglio le attività malsane e pericolose. Non si è spiegato ai cittadini che era così, perché si è temuto che ammettendo la non pericolosità di alcune condotte si sarebbe aperta la strada a infinite polemiche sull’opportunità di vietarle.

Le polemiche ci sono state lo stesso, perché non tutti sono privi di discernimento. Ma proiben
do cose innocue si è indotta una grande quantità di persone dotate di poco discernimento a pensare che fossero comportamenti pericolosi. Ed ecco le aggressioni di ogni genere e il trattamento da untore riservati a chi dice che si potrebbe correre distanziati o andare in valloni non ripidi e deserti o scambiare due palleggi a tennis senza far male a nessuno. Anche se poi è una persona che rispetta il decreto, sta a casa ed esercita solo il diritto di esprimere opinioni.

Del resto, ad essere fuorviati sono stati anche molti membri delle cosiddette forze dell’ordine, che non capendo bene la differenza fra comportamenti pericolosi e comportamenti innocui (non capendola perché istituzionalmente nessuno gliel’ha spiegata), insieme a quelle giuste hanno emesso e stanno emettendo migliaia di sanzioni errate, basate su interpretazioni troppo letterali o troppo allarmistiche della norma, che poi i prefetti annullano solo a coloro che fanno ricorso, mentre purtroppo molti altri le subiscono ingiustamente. Lo documenta ad esempio questo articolo di Repubblica: Multe crudeli, casi limite ed errori: ecco lo Stato sceriffo.

Rientrano nel tacere per sicurezza anche una quantità di altre reticenze da parte della struttura di governo, che mentre diffondeva necessari decreti e autocertificazioni da viaggio avrebbe potuto benissimo diffondere (come si è fatto e si fa in molti altri paesi) informazioni documentate e spiegazioni chiare sulla natura del pericolo e sulle ragioni delle precauzioni; ma non lo ha fatto quasi per niente, lasciando campo completamente libero alla fioritura pirotecnica delle fonti e pseudofonti social. Nessuna istanza governativa ha comunicato ai cittadini italiani alcunché su questioni chiaramente utili per adottare condotte responsabili, quali, per fare qualche esempio:

– Che rapporto ci sia fra la quantità di virus presenti nell’aria, su un tavolo, su una maniglia, quindi poi sulle mani, e la capacità di infettare una persona. Informazione molto utile per capire che il virus non è un incantesimo con cui tutti i tipi di contatto sono uguali, e quindi per fare le scelte migliori e più adeguate in caso di vicinanze o contatti inevitabili.

– Per quali ragioni e anche col favore di quali altre condizioni (temperatura, umidità, aereazione, ecc.) il virus decada in tempi molto diversi a seconda della superficie su cui si trova. Informazione molto utile per comportarsi in modo efficace, ad esempio, con le cose comprate al supermercato e portate a casa.

– Per quali ragioni la durata delle mascherine sia unanimemente da considerare limitata. Informazione molto utile per sapere se lavandole, oppure anche solo lasciandole alcuni giorni da parte per far morire il virus, tornino utilizzabili, oppure no. In regime di grande penuria delle mascherine, era informazione addirittura indispensabile. Stessa cosa per i guanti di lattice.

Insomma, si è vista una preferenza per dare ai cittadini soltanto permessi o divieti assoluti; la deliberata intenzione di non aiutarli a capire, di non dargli elementi in base a cui regolarsi. Così ci si comporta con i bambini piccoli e discoli, che si considerano incapaci di ragionare. E a proposito di bambini, allo stesso genere di comunicazione appartiene anche il modo in cui a un certo punto è stato comunicato che si poteva uscire a fare due passi vicino a casa anche coi bambini, oltre che col cane. Ad esempio da parte di molti telegiornali, in assenza di una spiegazione ufficiale, lo si è comunicato in modo da generare in moltissime persone la convinzione che non si potesse più uscire da soli, ma solo coi bambini. Mentre il divieto non ha mai riguardato l’uscire da soli, bensì solo quello di uscire in due o più. Insomma, presentando l’uscire con un bambino in maniera ambigua non come l’eccezione all’uscire in due, ma come l’eccezione all’uscire in generale, si è ottenuto di ridurre ancora la mobilità di milioni di persone. Lo si è ottenuto, però, non con un decreto (che sarebbe stato insostenibile), e nemmeno con argomenti persuasivi, ma surrettiziamente, condizionando le persone a loro insaputa.

Tutto questo non è casuale. È il frutto di una strategia comunicativa costante e applicata con consapevole coerenza, fondata sulla convinzione che i cittadini siano o troppo stupidi per capire, o troppo indisciplinati per adottare i comportamenti più responsabili. Probabilmente è una convinzione giusta. Io credo che, se chi governa ha scelto questa linea, sia perché una percentuale troppo elevata della popolazione è così. E non è detto che abbiano più ragione le amministrazioni che, in altri paesi, si regolano nel modo opposto. Ad esempio, in Inghilterra i cittadini ricevono frequenti email dalle loro municipalità, con raccomandazioni e spiegazioni. Qui mostriamo l’inizio di un messaggio inviato ieri 9 aprile ai residenti dalla City of Westminster (Londra), lungo 16 schermate, che inizia parlando di come comportarsi nella frequentazione dei parchi pubblici. Vi si spiega sia quanto faccia bene alla salute stare all’aperto, sia quanto e perché sia sconsiderato avvicinare persone diverse da quelle con cui già si convive, e così via. È possibile che una simile fiducia nella capacità dei cittadini di capire e di agire di conseguenza sia mal riposta, e che sia destinata a provocare danni anche gravi. Certo è che in Italia questa fiducia proprio non c’è stata: si è preferito e si preferisce dirigere il popolo privandolo degli strumenti per ragionare.

Si fa lo stesso apponendo certi cartelli stradali: al bivio fra l’attraversamento di una città e un lungo giro esterno, il cartello che indica la destinazione successiva suggerisce il giro esterno, dando a intendere che sia la strada più breve; invece è la più lunga per chi è in viaggio, ma la migliore per gli abitanti della città che non gradiscono il traffico di passaggio. Se invece di ingannare il viaggiatore gli si dicesse "a sinistra ci metti di più, a destra ci metti di meno ma disturbi il traffico cittadino", tutti andrebbero a destra. Per fare un esempio macroscopico: in questo momento alle porte di Genova, per chi arrivi in autostrada da Savona, destinazioni come Pisa, Livorno e Firenze sono indicate dalla stessa parte di Milano; ma chi segue quei cartelli constata che il percorso comporta mediamente tre quarti d’ora di viaggio in più rispetto al passaggio attraverso la città. (Fonte: Google Maps).


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Insomma, lo stato tratta i cittadini da stupidi, come il proverbiale medico pigro che usa paroloni e non spiega al paziente la sua malattia e il funzionamento della cura, ma gli dà solo istruzioni da seguire pedissequamente. O come il genitore incapace che non fa capire al figlio le ragioni dei suoi editti. In certi casi è la cosa migliore per raggiungere un effetto immediato; in molti più casi si ottiene un malato che si cura male, e un figlio che diventa sempre più discolo. Credo che questa volta trattare gli italiani da stupidi fosse il male minore, perché c’era un’emergenza; e credo che sia interessante accorgersene per chi studia le problematiche della comunicazione. Ma stiamo attenti a non perpetuare questo modo di procedere, perché non è giusto, perché alla lunga logora la fiducia dei cittadini (soprattutto di quelli intelligenti) nello stato, e anche proprio perché produce dei cittadini stupidi, che è il male peggiore di tutti e foriero di infiniti altri mali.

Ormai, poi, si avvicina la fase 2, quella in cui meno cose saranno vietate e in cui tutto dipenderà da quanto bene ci comporteremo nell’uso della nuova, parziale libertà. Chi non avrà capito la differenza fra condotte innocue e condotte pericolose, che non coincide affatto con l’attuale, fuorviante distinzione fra cose permesse e cose proibite, farà molti danni. In questo momento, purtroppo, i divieti sono l’unica informazione che la stragrande maggioranza degli italiani ha ricevuto dalle fonti istituzionali. Per il resto, il vuoto è stato colmato dal bailamme dei social. Se da parte di chi governa non si inizieranno a spiegare bene cause ed effetti, milioni di persone che si sono regolate in base all’idea inesatta che tutto il vietato fosse pericoloso, ora si regoleranno in base alla (stessa) idea che tutto il permesso sia innocuo, comunque lo si attui. Quindi l’ora in cui si spiegherà ai cittadini, per bene, tutto quello che occorre per capire come comportarsi, non può più essere procrastinata.

(30 aprile 2020)



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