Le condizioni materiali della riscossa laica
Una visione del mondo disincantata e laica va di pari passo con il progresso sociale e civile. Un mondo che promette agli individui solo insicurezza e precarietà – a partire dalle condizioni di lavoro – spinge inevitabilmente moltitudini verso varie forme di irrazionalismo identitario e fondamentalista. Spetta alla sinistra recuperare il suo ruolo storico di promotrice del benessere collettivo.
di Pierfranco Pellizzetti
Anche per camminare sui trampoli ci servono le nostre gambe. E persino sul più alto trono del mondo rimaniamo pur sempre seduti sul nostro culo.
Montaigne, Saggi
Premesse
Prima premessa: direi che un buon punto di partenza per la fierezza (o – più semplicemente – la consapevolezza) laica può essere quello di non attribuire immotivato peso intellettuale agli antilaici nostrani, da Ratzinger a Giuliano Ferrara. Papi, papisti e papocchioni che immalinconiscono la nostra quotidiana esistenza con l’arroganza di un pensiero rozzo almeno quanto è aggressivo. Come insegnava mia nonna, la prima maestra di laicismo che ho avuto: «Potenza e santità/ metà della metà».
Di più: l’atteggiamento laico non si esaurisce nel contrastare un insieme di credenze infantili – sempre a mio avviso – e in rapido arretramento anche nel nostro paese, quali quelle dei seguaci delle tre religioni monoteiste mediterranee (o «del Libro»): l’idea della verità rivelata e del Dio-persona che nutre sentimenti umani, primo fra tutti l’interesse a contattarci tramite il medium religioso; per non parlare, nello specifico cristiano, dei retaggi neolitici evidenti già nella divinità che muore e rinasce, chiara metafora, secondo Arnold Toynbee, del ciclo delle graminacee. E altre puerilità superstiziose. Se non ci si fa depistare dalle miserie del dibattito pubblico italiota, un orientamento – quello laico – minacciato da fenomeni un po’ più strutturali, materiali, delle fisime retrò di Ratzinger o dalle perfidie strumentali di personaggi alla Ferrara; quel loro reiterato richiamarsi a un’ipotetica «naturalità» come legislatore supremo che già John Stuart Mill considerava «una delle fonti più copiose di cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e perfino di cattive leggi». E aggiungeva: «Se l’artificiale non è migliore del naturale, quale scopo hanno tutte le arti della vita?».
Tali fenomeni strutturali precedono e alimentano concettualizzazioni sovrastrutturali che ribaltano cause ed effetti (o – piuttosto – accantonano il principio di interdipendenza), come piace a qualche pesafumo weberiano. Per cui, elevando il rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo a idealtipo, varrebbe l’assunto che «i comportamenti degli uomini nelle diverse società sono intelligibili soltanto nel quadro della concezione generale che si sono fatti dell’esistenza». Mentre ben più utile, al fine della comprensione, appare la «primazia del concreto» accordata – nel caso specifico e in generale – ai bisogni e alle volontà, in cerca di sistematizzazione concettuale a posteriori, degli «uomini d’azione che sempre più numerosi e importanti si forgiavano a loro volta, in piena attività, una loro coscienza di gruppo». Inferendo di brutto: il laboratorio delle idee colto al lavoro nella carne e nel sangue delle esistenze quotidiane; che mette a punto i suoi prodotti nelle derive di lunga durata.
Seconda premessa: in questa sede vorrei ragionare sulle coorti di donne e uomini che negli ultimi decenni hanno modificato il proprio atteggiamento mentale veleggiando verso sponde – al tempo – apparentemente rassicuranti e sostanzialmente oscurantiste. Ancora a mio avviso, il vero centro del problema sta proprio qui.
Quando ero ragazzo i cosiddetti clericali erano in rotta: si mimetizzavano o facevano autocritica, esperivano modernizzazioni di facciata (dal Vaticano II alle chitarre in chiesa e all’abolizione del latino nella messa) per tentare di andare al passo coi tempi, Baget Bozzo era tutto fiero di scrivere su Repubblica. Ora non sono soltanto i leader politici sedicenti laici a comportarsi da baciapile (Walter Veltroni – tra i tantissimi – ha dovuto rinunciare a dedicare la stazione Termini a un papa polacco da anno Mille solo per le proteste di combattive associazioni laiche romane). È una parte consistente della pubblica opinione a mostrare insofferenza nei confronti di ragionamenti e atteggiamenti secolarizzati, disincantati. A cercare rifugio in nicchie diverse, ma sempre emotivamente difensive. Folle di miscredenti che si rassicurano adorando un qualche vitello d’oro: i simboli e i riti che celebrano la potenza (e la capacità di sopravvivenza) di un’istituzione bimillenaria (la Chiesa) o le appartenenze mistificate (dal branco generazionale al familismo, alla comunità che si riconosce in un dialetto; magari in un fiume personificato Eridano); l’identificazione in uno stile di vita che accomuna nell’iperconsumo, nei suoi marchi e prodotti che incorporerebbero surrogati di personalità omologanti. Qualcuno, arrivato di recente, elabora la frustrazione da mancata integrazione trovando ragioni nella scelta del martirio; facendosi esplodere come bomba umana nella metropolitana londinese, in un bar di Tel Aviv o nella stazione di Atocha. Ci ritorneremo.
Placebi di natura differente (e con diversi gradi di pericolosità) per un comune smarrimento; bisognoso di un purchessia in cui credere, un ancoraggio psicologico.
Chiamare tutto ciò riscoperta del sacro suona grottesco, incredibilmente fasullo. Semmai si dovrebbe parlare di irrazionalismo identitario e fondamentalista.
Comunque, la testimonianza che qualcosa deve essere successo nel profondo delle mentalità collettive, nelle viscere della società.
Terza e ultima premessa: l’accezione in cui qui viene usato il termine «laico».
Se si conviene che l’altro corno della diade antagonistica non è il clericalismo religioso e i suoi badilanti, bensì il dominio di un pensiero repressivo nelle sue pratiche e oscurantista nei suoi discorsi di verità, allora la definizione di «laico» parte dalla critica di una mentalità dogmatica che attiva modalità coercitive attraverso la produzione di superstizioni impaurenti, finalizzate a colonizzare il pensiero.
Probabilmente ha ragione Manuel Castells quando critica la visione paranoicamente cospirativa di una power élite alla Wright Mills, che trama utilizzando gerarchie intermedie supportate da bassi cleri. «Al contrario, il dominio sociale reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale in un grado tale che il possesso di tali codici apre l’accesso alla struttura del potere senza che sia necessaria una cospirazione dell’élite». Il problema – semmai – è capire come tali codici tornino a ricostituirsi, a imporsi. Secondo la felice formulazione foucaultiana, l’indagine su «la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità». Capire il riemergere di tradizioni vecchie e nuove che si sottraggono all’esame critico, di costruzioni logiche consolatorie quanto inattendibili.
Tirando le fila, «laico» come rifiuto di ogni narrazione mistificatoria, religiosa o pseudosecolare, semplicistica o arzigogolata, che manipola le coscienze inducendo comportamenti. Laicità come atteggiamento critico e antidogmatico, guidato dai valori del pluralismo, della libertà e della tolleranza, partendo
dal presupposto per cui non si può pretendere di possedere la verità in modo esclusivo. Quindi, il principio dell’autonomia reciproca fra tutte le attività umane (Nicola Abbagnano); non identificato in una filosofia particolare ma nel dialogo tra diversi modelli di rappresentazione, per una loro coesistenza (Guido Calogero).
La posizione laica, «indocilità ragionata» che problematizza la verità attraverso la critica scettica e grazie alla sana ermeneutica del sospetto, s’incardina soprattutto in due approcci metodologici: relativismo e progetto.
Il rifiuto relativistico di paradigmi immodificabili nel campo della conoscenza e di princìpi immutabili in sede morale («Tutte la valutazioni sono relative a qualche parametro») muove i suoi primi passi nella società urbana come strumentario concettuale dei ceti emergenti; nella loro contestazione degli equilibri favorevoli ai patriziati, propugnati dai diretti fruitori come «naturali». Quando, in un mondo ancora immerso nel magico e retroverso, inizia a essere discussa e osteggiata la sottomissione a precetti legittimati dal fatto che la tradizione li attribuisce alle divinità o agli antenati.
Karl Popper scorgeva tali dinamiche già nell’Atene periclea, Henri Pirenne nella città medievale; in particolare «nell’ostilità delle popolazioni urbane e rurali anzitutto verso i membri del clero, in quanto costoro oltre a essere i sostenitori e poi i rappresentanti dell’ordine feudale, ne sono anche i più sicuri garanti». Dunque, il rifiuto di assumere a priori modelli di rappresentazione vigenti e – conseguentemente – la ferma opposizione nei confronti degli agenti e dei guardiani dell’ordine naturale; le tutele che in passato erano prettamente religiose. Ora è un po’ più complicato.
Del resto – si ribadisce – possiamo circoscrivere questa vasta opera di demistificazione alla semplice polemica nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche e delle loro manovalanze; dimenticando le altre matrici di oscurantismo e i loro agenti? Alla banalità di ridurre una secolarizzazione antidogmatica, che nel Novecento si traduce nella cosiddetta «svolta comunicativa» (la confutazione dell’idea aristotelica della corrispondenza tra linguaggio e realtà, il superamento dell’idea platonica di Verità ancorata a una dimensione superumana), all’innocua formuletta del «libere Chiese in libero Stato» (per inciso, quello Stato nazione che perde pezzi ogni giorno di più) o alla distinzione lapalissiana tra religione come fenomeno collettivo e fede come atto personalizzato?
Qui si parla di un formidabile disgelo che prosegue da millenni liquefacendo apparati concettuali tribali di rivestimento/cammuffamento sacralizzato del dominio; della sua accelerazione nel corso del XX secolo. Certo, c’è il dio che sta nei cieli, ma c’è anche il dio denaro, il dio tradizione… il dio dominio (il potere che crea verità). Condorcet lo aveva appena scoperto sulla propria pelle quando esclamò: «Robespierre è un prete e non sarà altri che quello».
La laicizzazione della società – dunque – investe il fenomeno religioso solo come uno dei tanti aspetti della falsa coscienza coltivata da aggregazioni umane che Voltaire accorpava nella dizione «setta». Settarismo smascherato relativizzando assunti contrabbandati come oggettivi, evidenziando la funzione dei vari cleri (religiosi, ma non solo) al servizio dell’ordine dogmatico, criticando schemi argomentativi. Un lunghissimo processo di liberazione delle menti, grazie al quale ritenevamo di essere giunti a una società definitivamente liberata, che sperimenta progetti condivisi. Laica.
Tradotta in politica, la secolarizzazione «recita a livello progettuale quello che il cristianesimo recitava a livello profetico». E i suoi sostenitori diventarono la «pubblica opinione» delle società industriali come le abbiamo conosciute. Insomma, potremmo dire che la strutturazione pubblica della mentalità di cui si parla potrebbe essere formulata secondo le parole del Paracelso di Jorge Borges: «Il paradiso è la terra e l’inferno non rendersene conto». Ossia, il mondo tangibile come campo d’azione di umani riflessivi e orientati alla speranza ottimistica, capaci di pensare futuro in base alle coordinate di indirizzi che hanno come unico metro di misura gli umani stessi (Protagora, chi era costui?). Metro ovviamente relativo. Laico, in questo caso, come sinonimo di «moderno». Con tutti gli aggettivi che vi piacerà aggiungere: disincantato, antiautoritario, progressista, inclusivo… Quanto Richard Rorty denominava «progetto politico dell’Illuminismo» e di cui Tzvetan Todorov ora indica le direttrici: «Tre sono le idee base del progetto, arricchito anche dalle loro innumerevoli conseguenze: l’autonomia, la finalità umana delle nostre azioni e in ultimo l’universalità».
Passi indietro
Purtroppo, negli ultimi tempi questo percorso lineare si è arrestato. Ha collassato. E nel collasso della modernizzazione si aprono varchi amplissimi per il ritorno del dogmatismo settario. Dell’oscurantismo. In barba tanto a Clifford Gaertz («Questo parlare di cose che devono assolutamente essere in un certo modo non è più possibile. Se volevamo verità domestiche, avremmo dovuto restarcene a casa») come al vecchio caro Albert Otto Hirschman; al loro dare per impossibile il riapparire sulla scena di predicatori che terrorizzano gli astanti con la descrizione infernale della nostra condizione. I quali stigmatizzano come blasfemia la pretesa di migliorare tale condizione, se non di renderla paracelsianamente paradisiaca, permettendosi di demonizzare il benemerito progetto politico illuminista della Modernità. Quanto si diceva: la possibilità di un’azione sociale che abbia significato e una strategia di trasformazione che non precipiti nell’utopia assoluta.
Nel non lontano 1991 Hirschman riteneva che tale mood epocale fosse irreversibile («Il carattere ostinatamente progressista dell’epoca moderna fa sì che i «reazionari» vivano in un mondo ostile»); il pluridecennale lavoro di Ronald Inglehart sullo spostamento dei valori guida nelle nostre società, grazie alla crescita di benessere e sicurezza a ogni nuova entrata generazionale, si traduceva nella teorizzazione del passaggio nello spirito del tempo dall’«enfasi sul potere supremo e dalle regole assolute alla diminuzione dell’autorità e all’enfasi sullo scopo della vita». Dunque, ancora pochi anni fa grandi diagnostici del cambiamento non avevano il minimo sentore di regressioni in atto nei sistemi di rappresentazione collettiva indotti dalla modernizzazione. Poi qualcosa è cambiato, il ventre delle nostre società ha incominciato a rigurgitare umori che si ritenevano scomparsi. Perché? La risposta potrebbe essere molto semplice; e possiamo trarla dalla cassetta di Inglehart, che più di altri ha lavorato sul campo: i processi di emancipazione producono visioni del mondo disincantate perché hanno alla base condizioni materiali che diffondono un generale clima di ottimismo. L’idea che possiamo farcela, se il futuro è costruzione alla nostra portata. La speranza fiduciosa nell’emancipazione, in quanto certificata da risultati acquisiti.
Le crescenti rotture di tali condizioni determinano stati psicologici disorientati che spingono alla ricerca di protezione rispetto a un ignoto percepito come minaccia.
Ecco il punto: la riscossa laica come tendenza collettiva è pensa
bile e perseguibile solo ripristinando condizioni concrete che rendano plausibile e condivisibile l’idea stessa di azione sociale orientata. La strategia grazie alla quale la nostra autonomia individuale è messa in condizione di realizzarsi.
Nell’età del moderno illuministico due erano gli ambiti in cui gli umani potevano redimere la propria condizione in vita activa: la politica e il lavoro. Gli ambiti che ci assicuravano un qualche controllo sul nostro destino, individuale e collettivo. Meglio: ci liberavano come individui grazie alla sistematica relazione interpersonale (il lavoro e la politica organizzati). Secondo la formula di Amartya Sen: «La libertà individuale come impegno sociale». Condizione che sembra ormai appartenere al passato mentre, al suo posto, si diffonde la solitudine collettiva tradotta in ricerca di appartenenze (le Piccole Patrie, le adunate religiose, i riti omologanti del consumo; i fondamentalismi di vario tipo, per cui crociati redivivi combattono alla morte gli infedeli).
Un mondo che si rovescia rispetto al pur recente passato, quando politica e lavoro erano tutt’altra cosa. Quel mondo rovesciato che regala praterie ai nostri papi, papisti e papocchioni. Ma che non può essere rimesso nel verso giusto senza ripristinare le concrete condizioni riequilibranti di cui si diceva (e che ne evidenzino i diretti vantaggi generali derivati; svolgano la necessaria opera di proselitismo, in concorrenza con ogni possibile alternativa nel mercato dei modelli sociali di vita). Ossia le modalità integrative proprie di una società liberaldemocratica. In un’almeno duplice traduzione:
come inclusione deliberativa nei processi decisionali, locali e nazionali;
come valore d’uso; ossia i diritti, le protezioni e le opportunità che migliorano la qualità generale della vita (salute, accesso ai canali formativi e informativi, mercato del lavoro, beni pubblici in genere…).
Diciamolo chiaramente: a scopo di promozione politica servono ben poco le razionalizzazioni intellettuali a prescindere; in questa fase, necessariamente difensive. Le voci che si oppongono alle predicazioni oscurantiste sussurrando princìpi alternativi. Perché un modello sociale è apprezzato a livello collettivo – «di massa» – solo se offre (o almeno lascia intravedere) prospettive tali da suscitare concreto interesse, convinta adesione. Più e meglio di altri, eccheddiavolo (altrimenti ci riduciamo a snocciolare «paternostri laici». Machiavelli se la riderebbe). In altre parole, quel calcolo di efficienza che si impone già agli albori della modernizzazione borghese nella contrapposizione tra interessi e passioni, che accompagnerà l’ascesa del capitalismo; trasformando in acquisizione interiorizzata l’affermazione di Helvetius: «Se l’universo fisico è sottoposto alle leggi del movimento, l’universo morale è altrettanto soggetto a quelle dell’interesse».
Dunque, occorre intervenire direttamente sui processi di svendita delle condizioni acquisite che, diffondendo cittadinanza, avevano promosso a livello quantitativamente crescente l’apprezzabilità dell’impegno razionale e della difesa dei meccanismi integrativi; bloccare la tendenza che, anemizzando le conquiste sociali del XX secolo, ora spinge le donne e gli uomini concreti a rincorrere comunità perimetrate (di sangue e contiguità) o simulate (le tradizioni inventate); invertire la marcia a ritroso in atto, dalle identità progettuali alle appartenenze difensive. Se la ricerca della felicità – o, meno pomposamente (visto che non tutti sono Jefferson o Muccino), del benessere – appare preclusa, allora è comprensibile il riflusso di moltitudini verso un sogno di salvezza. L’inversione di priorità tra miglioramento terreno e redenzione ultraterrena, di cui Karol Wojtyla è stato il più che efficace propagandista.
Sicché la prima azione critica va esercitata sul nostro campo, il campo di quelli che dichiarano di propugnare la razionalizzazione progressista della società.
Ritorno al materialismo
Ecco il punto: analizzare la crescente disaffezione nei confronti di una proposta/progetto – «fare società» – cogliendo le relazioni tra psicologie collettive e aspetti strutturali dei cambiamenti, avvenuti e in corso. Brutalmente (e con buona pace degli amici intellettuali sovrastrutturali): come si può realisticamente prescindere, in materia di rapporto tra valori e condizioni materiali, da considerazioni come quella avanzata da Eric Hobsbawm sul fondamento del consenso di massa nei confronti del capitalismo riformato alla Keynes (l’Età dell’oro welfariana), strettamente dipendente dalla quotazione del greggio? Dice lo storico inglese: «Una delle ragioni che rese aurea l’Età dell’oro fu che il prezzo di un barile di petrolio saudita ammontò in media a meno di due dollari per tutto il periodo che va dal 1950 al 1973, rendendo così ridicolmente basso il costo dell’energia». Ossia, le ragioni di scambio internazionali che finanziarono il crescente livello di vita nelle società occidentali (seppure a scapito di buona parte del resto del pianeta) durante quel trentennio in cui tacquero i sussurri e i gridi contro uno stile di vita improntato a valori laici; consolidato dal suo alto rendimento in termini di benessere e opportunità.
Allo stesso modo, ci sarà una qualche connessione tra il tramonto di questo atteggiamento collettivo di fiduciosa speranza e il fatto che, dal 1980 al 2005, il rapporto tra prodotto industriale e flussi finanziari si è triplicato a vantaggio di questi ultimi, o no? Lo scollegamento tra riproduzione della ricchezza e l’allargamento dell’area dei beneficiari, incide o meno sugli orientamenti generalizzati?
Perché la realtà è questa: ora siamo innanzi a un progetto andato in frantumi. Il progetto keynesiano-fordista, che può essere interpretato e descritto come traduzione dei princìpi illuministici in ingegneria economico-sociale (la microregolazione nella fabbrica integrata e la macroregolazione della politica economica).
Sicché «lo svuotamento del contratto sociale tra capitale, lavoro e Stato rimanda tutti a casa, a combattere per i propri interessi individuali sulla base esclusiva delle rispettive forze». Con due conseguenze immediate:
il discredito delle istituzioni e delle organizzazioni «propositive» di rappresentanza sociale (partiti e sindacati), il prevalere dell’autoriconoscimento individuale e di gruppo sul progetto collettivo.
Come si diceva, l’epicentro della crisi va individuato nel lavoro, nella mutazione dei paradigmi produttivi: l’impresa a rete che lo precarizza nelle società avanzate e decentra dove è possibile fruirne in forme servili, come nuove schiavitù. Un modo di produrre che azzera il peso contrattuale del fattore lavoro, da risorsa a puro costo.
À rebours: il capitalismo manifatturiero, concentrando entro perimetri di fabbrica moltitudini, rese possibile l’opera di socializzazione in «classe operaia» e l’emergere di un potere rivendicativo che si traduceva nelle lotte per la dignità, la responsabilità o – comunque – i risarcimenti; il successivo capitalismo regolato aveva consentito importanti allargamenti della cittadinanza grazie al compromesso tra borghesie produttive e lavoratori sindacalmente rappresentati; il rinascente capitalismo de-regolato (o turbocapitalismo) inverte le tendenze inclusive delle fasi precedenti. Quindi – per dirla ancora una volta con Castells – «la forma fondamentale di dominio nella nostra societ
à si basa sulla capacità organizzativa dell’élite dominante che va di pari passo con la sua capacità di disorganizzare quei gruppi nella società che, pur costituendo una maggioranza numerica, vedono i propri interessi rappresentati […] solo all’interno del soddisfacimento degli interessi dominanti. L’articolazione delle élite e la segmentazione e la disorganizzazione delle masse sembrano essere i meccanismi gemelli di dominazione sociale nelle nostre società». Quando – al contrario – l’articolazione delle masse, grazie alla quale acquisivano soggettività, fu il principale motore del progresso sociale nelle fasi storiche precedenti.
Come nelle precedenti fasi, la politica continua a svolgere una funzione accompagnatoria delle tendenze. Solo che, dalla promozione e dal consolidamento delle dinamiche inclusive, ora devia nel facilitare l’incontrastato dispiegarsi dei trend all’esclusione. Un mutamento di ruolo che per la componente tradizionalmente schierata a difesa dei più deboli e degli «ultimi» – la sinistra organizzata – comporta un vero e proprio cambio di schieramento. Secondo Ralf Dahrendorf, «venendo meno le ideologie distintive, i partiti somigliano sempre di più a gruppi tribali, in cui l’appartenenza conta più del credo. Questa evoluzione ha allontanato i partiti dagli elettori». Parola del (pur ormai moderatissimo) lord anglo-tedesco. Sicché – così facendo – il ceto politico finisce per diventare un’unica corporazione indifferenziata.
Antesignana del vergognoso giro di valzer, che trasforma l’intera politica in una pura e semplice funzione guardiana degli equilibri vigenti e degli interessi dei presunti vincitori odierni, è la blairiana Terza Via.
Quale impatto il cosiddetto New Labour abbia avuto sulla società inglese, in quanto a creazione di ineguaglianza, ce lo riassume – tra gli altri – un recente reportage giornalistico: «L’era Blair è stata la migliore della storia inglese per i nababbi. Nel 1997 i primi mille sedevano sopra un tesoro di 98,99 milioni di sterline. Oggi la montagna di dobloni dei Paperoni è di 360 miliardi. Un incremento del 263 per cento negli ultimi dieci anni. Per il Fondo monetario internazionale, la Gran Bretagna è diventata uno dei più attraenti paradisi fiscali del mondo». Ciò nonostante, Tony Blair (come il suo gemello nordamericano, lo scaltro Bill Clinton) è stato un modello per vaste schiere di politici «realisti» che, da bravi imprenditori di se stessi, barattano il controllo posizionale esercitato sul popolo di sinistra con la personale cooptazione nell’area del privilegio; l’ascensione ai piani alti della piramide sociale. Sicché merce di scambio per la carriera è stata la certificazione «pelosa» della naturalità ineluttabile di ricette per la riproduzione della ricchezza liquidatrici dei sistemi di garanzie che assicuravano valore d’uso collettivo agli assetti vigenti. In primo luogo, spezzando le reni al lavoro formalizzato, ai diritti e alle tutele.
Con un effetto immediato quanto prevedibile: convincere chi ha perso la speranza ad aggrapparsi alla fede (della carità inutile parlarne, dopo che Bush jr. ha pensato bene di fregiarsi del titolo di «conservatore compassionevole»!).
Così svanisce il sogno del Novecento, insieme alla sua capacità di «tenere assieme» attraverso il consenso. Si è smarrita (o meglio, deliberatamente abbandonata) la via.
L’infelicità araba
Lo si vede bene – se ci scrolliamo di dosso le stupidaggini sullo «scontro di civiltà – in quello spazio mentale dove il contagio fondamentalistico acquista connotati parossistici: il mondo islamico in eruzione antioccidentale.
C’è un piccolo libro pubblicato l’altr’anno da Einaudi, scritto da un intellettuale libanese morto il 2 giugno 2005 in un attentato terroristico, che testimonia chiaramente il rapporto che lega l’interruzione della speranza e il riflusso nella fede più fanatica. Si tratta del saggio L’infelicità araba di Samir Kassir.
Anche questa realtà, che oggi ci appare avvolta nell’oscurantismo più terrificante e indisponibile alla pacifica convivenza, aveva conosciuto stagioni di apertura laica. Ancora quarant’anni fa irradiava i suoi effetti una rinascita culturale iniziata nel XIX secolo (nahda) che – scrive Kassir – «mise molte società arabe al passo con la modernità… Nel XX secolo, una di queste società, quella egiziana, è stata la culla della terza cinematografia mondiale, mentre dal Cairo a Bagdad e da Beirut a Casablanca, pittori, poeti, musicisti, drammaturghi e romanzieri contribuivano a riformulare una cultura araba nuova e vitale». Ecco dunque: l’infelicità araba come percezione che ora «il futuro è una strada ostruita», sicché l’impossibilità di modernizzare l’islam si ribalta nell’ossessione di islamizzare la modernità. Magari come identità risentita che giunge alla follia, apparentemente incomprensibile, della jihad suicida. Con le ben note conseguenze. Che tendono a nasconderci quanto un altro intellettuale dell’area, l’iraniano Amir Modini, dichiara esplicitamente; in barba agli «esportatori di democrazia» degli Stati Uniti e dintorni: «Non esiste una guerra di religione. Il problema reale risiede nella vita e nella sua materialità». Per questo si può convenire con Gilles Kepel quando afferma che i movimenti fondamentalistici sono «per eccellenza figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione». Insomma, frutti avvelenati di un malgoverno irresponsabile dei processi sociali. Restando ancora nell’incendio orientale come punto di osservazione del ritorno al passato, sembra del tutto rimosso (ma non per Kassir) che c’è stato un tempo non lontano in cui anche nel mondo islamico «i costumi sociali registravano indiscutibili mutamenti, il più spettacolare dei quali è stata la rivoluzionaria azione di togliersi il velo, oggi rimessa in discussione». E discutendo di velo giungiamo subito alla questione femminile, nodo rovente nel revival del dogmatismo settario.
A tale riguardo, l’aspetto che qui preme sottolineare è semplicemente quello della moltiplicazione dei cleri nella restaurazioni antilaica. In questo caso, il chi si fa carico di opprimere le donne in nome della verità. Nel mondo islamico della clausura femminile non ci sono ordini religiosi organizzati all’occidentale, sicché la funzione clerical-repressiva viene esercitata direttamente dalle famiglie (spesso le madri sono le aguzzine più spietate, perché solo opprimendo le proprie figlie possono occultare a se stesse l’oppressione di cui sono state vittime per tutta l’esistenza). Ma – allo stesso modo – è diventato un clero pure il ceto politico delle società occidentale che officia la religione della paura chiamata «scontro di civiltà». Sono tali anche i chierici e i conversi del dilagante feticismo delle merci che azzera la funzione identitaria del «ruolo sociale coperto» nel processo produttivo; la nuova religione celebrata nelle cattedrali del consumo che, sul modello americano, ora fioriscono come ipermercati e outlet ai margini delle nostre città.
Oscurantismo, paura, mercificazione della vita. Saldati tra loro nelle alleanze apparentemente più innaturali
. Come quella tra l’integralismo del cardinale Ruini e il berlusconismo, massimo agente propagandistico italiano del neopaganesimo.
Coalizioni contro un solo nemico: la società criticamente riflessiva, dunque laica.
Tradimenti
Ma dove stanno i paladini della riscossa, i progettisti e i costruttori di società aperte che smascherino coi fatti le logiche intrinseche della reazione: contrabbandare come naturali l’ingiustizia, il dominio, l’umiliazione?
A questa domanda c’è solo una risposta: hanno tradito. Questo il succo del discorso.
Hanno tradito il compito che si erano assunti (elevare i cittadini a «moderno Principe»; assicurare un futuro di sicurezza agli uomini e alle donne) facendo dell’altro. E che cosa significhi «quell’altro» dalle nostre parti – ad esempio – stanno lì a raccontarlo le intercettazioni che, dopo due anni, ci svelano quale fosse il contesto in cui montava l’epopea dei «furbetti del quartierino».
Non ha senso prendersela con papi, papisti e papocchioni che fanno solo il loro mestiere. Ce la si prenda con chi avrebbe dovuto contrastarli. Con la loro colpa infinitamente più grave di aver contribuito a creare un contesto in cui la politica è soltanto il moltiplicatore di cinismo e apatia. La loro diserzione dal compito-missione di assicurare valore d’uso alla società laico-democratica e promuoverne le dinamiche inclusive. Una diserzione che ha aperto voragini. E per che cosa? Magari per tentare l’aggancio con le reti residuali di consenso controllate dai Ratzinger e dai Ruini (qualche percentuale infinitesimale del cosiddetto popolo cattolico).
Insomma, chi è il vero colpevole della regressione dogmatico-oscurantista in atto? Lo è la corporazione di sinistra fattasi clero, che si è perduta nell’omologazione totale con il clero politico tout court. E con lei l’intendenza intellettuale al lavoro per giustificare l’ignobile metamorfosi; che ha la faccia tosta, in uno Stato la cui Costituzione include un certo articolo 7, di avallare la denuncia di un’ipotetica dittatura laicista.
«La discussione in corso – e talvolta il conflitto – tra religiosi e Stato liberale, tra militanti di fedi diverse e militanti della cultura democratica e pluralistica illumina il mondo contemporaneo… Bisogna ammettere – magari a malincuore – che anche il secolarismo militante ed estremo, che va sotto il nome di laicismo, non contribuisce a fare luce», scrive il direttore di un bimestrale sedicente «riformista» che considera up to date qualsivoglia tesi di provenienza estera. Come quella della «svolta post-secolare in atto», pura acquiescenza abbastanza codarda nei confronti della Chiesa ringalluzzita dalle difficoltà dello Stato liberaldemocratico alle prese con la sfida multietnica, segnatamente islamica, cui offre una nuova alleanza trono-altare cementata dal riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa. Tutto «fa brodo» per questi falsi paciosi del volemose bbene con l’irriducibile nemico della democrazia liberale, che ci riporterebbe a un clima da Malleus maleficarum (la Polonia antieuropea, omofobica e antisemita dei gemelli Kaczynski, di Radio Maryja, docet sufficientemente). Quindi funzionano benissimo allo scopo i giochi delle tre tavolette hegeliane per cui «tutto il reale è razionale in quanto pensato», sicché la religione viene accreditata portatrice di irrinunciabili risorse fondative di senso. Anche in materia di come dobbiamo amare, concepire o trapassare? Servono pure gli obnubilamenti del vecchio Habermas, per cui le religioni possono partecipare a pieno titolo al processo democratico se rinunciano al monopolio della verità. Una vera baggianata: senza tale pretesa della religione non resta più niente. Come sapeva benissimo Hans Kelsen – apparentemente ben poco up to date – per il quale la vita democratica rimane incompatibile con credenze assolute.
Michele Salvati ha recentemente fornito un esempio eccellente del retropensiero-guida di questo pompierismo manipolatorio durante la commemorazione di una persona tanto diversa da lui: Paolo Sylos Labini.
Chiamando in soccorso nientepopodimeno che Dino Cofrancesco (e attribuendo a Max Weber un’antitesi tra etica della responsabilità ed etica della convinzione che non ha mai formulato), Salvati teorizzava l’impossibilità di «distinguere il bene dal male, il vero dal falso, criticare le posizioni mediane e ingiungere di stare «o di qua o di là»». Perfetto: l’apoteosi dell’ubiquo; la negazione del rigore intellettuale per praticare ogni possibile mediazione al ribasso. Sono questi signori, queste mentalità, che hanno svenduto un patrimonio di valori al migliore offerente. Allo stesso tempo, hanno spinto verso posizioni rinunciatarie e difensive moltitudini di persone che scoprivano di essere state ingannate. In Italia, come in tutto l’Occidente della politica in disarmo e del lavoro liquidato. I signori e le loro mentalità «accomodanti» che hanno reso gli scontri di civiltà un’ipotesi senza alternativa. Mentre gli integralisti cristiani e i fondamentalisti islamici si puntellano reciprocamente per riportarci a un mondo e a un tempo a loro misura. Per il loro proselitismo di morte.
Riscossa laica? Sì, ma non con questi compagni di strada. Sì, ricostituendo le ragioni che rendono la società laica il più civile modello storico di convivenza.
E cosa dire a questi signori che preparano sconfitte portando acqua ai Ratzinger, ai Berlusconi? Ripetiamogli le parole di «Gastone» Petrolini rivolte allo spettatore seduto a fianco di chi lo stava fischiando rumorosamente: «Io no ce l’ho con lui. Ce l’ho con te che non lo cacci giù dal loggione».
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