Le cose ci parlano (a saperle ascoltare)

Pierfranco Pellizzetti

«Poiché la realtà che interessa l’individuo
è al momento imperscrutabile, bisogna che
egli faccia affidamento sulle apparenze»[1]
Erving Goffman

«Il tipo ideale del gentleman è stato inventato
dall’aristocrazia per tenere sotto controllo
le classi medie»[2]
Bertrand Russell

Mary Douglas e Baron Isherwood, Il mondo delle cose, il Mulino, Bologna 2013
Pierre Bourdieu, La distinzione, critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001

Il ritorno della critica del costume

Ebbene sì, aveva ragione Goffman: l’abito “fa” il monaco!

Era il 1979 quando, in singolare sintonia, apparvero due analisi fuori tendenza; e che ora possiamo meglio comprendere nel loro significato complessivo: il breve saggio dell’antropologa Mary Douglas, scritto in collaborazione con l’economista atipico Baron Isherwood, e il ben più ponderoso tomo di Bourdieu. Pubblicati in Italia entrambi dalla casa editrice bolognese il Mulino, che ha recentemente (e meritoriamente) ristampato il primo dei due testi.

Attenzione alle date: nel 1967 il situazionista proto-sessantottardo Guy Debord, teorico della fase capitalistica in cui s’impone lo spettacolare sul produttivo, avverte la mutazione mercificata dell’operaio in consumatore («mentre il consumo del tempo ciclico delle società antiche era in accordo con il lavoro reale di queste società, il consumo pseudo-ciclico della società si trova in contraddizione con il tempo irreversibile astratto della produzione»[3]). Dodici anni dopo la Douglas fornisce la chiave di un’ulteriore riflessione sulla merce: «abbiamo utilizzato l’antropologia per giustificare il nostro rifiuto dell’approccio materialistico al consumo, dato che crea più problemi di quanti ne risolve. Ora vediamo i beni come un mezzo, più come i fili di un velo che maschera le relazioni sociali sottostanti che come oggetti del desiderio. L’attenzione si rivolge al flusso degli scambi, di cui i beni marcano soltanto la trama» (MD e BI pag. 222), in quanto esplorazione di «un sistema di classe definito dal consumo» (ivi pag. 208); dove le cose fungono da «contrassegni visibili» (ivi pag. 6).

Una costruzione in cui i gusti (e i relativi disgusti) rappresentano l’affermazione pratica di una differenza necessaria. Di cui Pierre Bourdieu offre una sistemazione a più elevato livello teorico, attraverso le categorie di “habitus” e “capitale relazionale”: «le prese di posizione oggettivamente e soggettivamente estetiche, ad esempio la cosmesi del corpo, l’abbigliamento o l’arredamento della casa, costituiscono altrettante occasioni di provare o affermare la posizione che si occupa nello spazio sociale come rango da conservare o distanza da mantenere» (PB pag. 57). Dunque un’attitudine in cui tutte le classi sociali sono coinvolte come strategia per la conversione degli aspetti salienti di uno stile di vita in principi estetici. Ossia pratiche simboliche, in cui tutti i nostri autori riconoscono la stretta correlazione tra rango e consumo; laddove spicca per intensità e livello di consapevolezza l’azione degli appartenenti allo strato sociale dominante.

British country, milieu parisien

Potrebbe essere interessante approfondire i differenti livelli di sistematizzazione teorica di tale rapporto tra rango e frequenze, estrinsecate nei processi di consumo, che distinguono l’antropologa britannica dal sociologo francese. A titolo congetturale qui si propone di riflettere sui rispettivi laboratori di riferimento: mentre l’Inghilterra, patria della prima rivoluzione borghese del lungo Settecento (la Gloriosa Rivoluzione del 1689), si premura per tempo di anestetizzare le dinamiche ascensionali dei ceti emergenti attraverso processi di cooptazione nell’upper class e il controllo da parte dell’aristocrazia dei metri estetici di apprezzabilità sociale, la Francia rivoluzionaria abbatte l’Ancien Régime e installa al suo posto la noblesse de robe, la nuova aristocrazia del denaro; così puntualmente descritta dalla grande narrativa ottocentesca, da Balzac a Proust.

Il primo caso – quello insulare – caratterizzato da un naturale orientamento mimetico, in cui s’impone a regola l’understatement dei mezzi toni; per cui la massima icona del dandysmo– George Beau Brummell – teorizzerà l’eleganza come l’arte del passare inosservati. Quello dell’Esagono risulta esattamente l’opposto: i nuovi arrivati al vertice della piramide sociale decapitando i re e costringendo all’esilio la noblesse epée, come “classe generale” alla testa del Quarto Stato, dopo la restaurazione orleanista e il relativo compromesso di stabilizzazione hanno maturato la necessità di proporre un’immagine di sé circonfusa di eccezionalità, suffragata dalla capacità di imporre uno stile materiale. Dato strutturale, che vede una netta separazione tra l’appartato britannico e l’esibito francese come tratti connotativi di due mentalità collettive divergenti (e relativo agire comunicativo in ambito semiologico). Non a caso l’haute couture è parigina da un secolo e mezzo, mentre la tradizione della flanella grigia è tuttora officiata dai sarti della londinese Savile Row.

Ma perché – come si diceva – diventa importante la data contemporanea di pubblicazione delle due analisi, il 1979? Perché proprio in quegli anni è in corso una mutazione nel corpo delle società occidentali, configurabile da vera e propria apocalisse, che i principali sensori dell’epoca non hanno neppure percepito. O se lo hanno fatto, è stato per accompagnarla (come la corporazione degli economisti mainstream, definita dalla Douglas “con i paraocchi”). Mentre ne sono rivelatrici – se non altro in termini di sensibilità e in senso critico – le opere in controtendenza tanto del duo Douglas-Isherwood quanto del sempre provocatorio Bourdieu. E questa tempesta sociale si scatena a seguito dell’avvento di un nuovo corso politico radicalmente sovversivo, che stravolge irrimediabilmente gli equilibri occidentali del secondo dopoguerra.

Nel 1981 viene eletto presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, che resterà in carica fino al 1989; ma già il 4 maggio del fatidico 1979 era stata nominata primo ministro del Regno Unito Margaret Thatcher, che rimarrà in carica fino al 1990.

Il tandem di devastatori destinati a scatenare l’onda restaurativa NeoCon-NeoLib; che dalle coste atlantiche del mondo anglosassone andrà presto a investire come un maremoto l’intera società occidentale.

L’egemonia neo-borghese
Il thatcher-reganismo è innanzi tutto la cornice politico-ideologica di riferimento, offerta alle riconquistate mani libere del Capitalismo, nel suo passaggio da “amministrato” (durante la cosiddetta età dell’oro post-bellica: 1945-1973”) a “turbo” (nei due momenti topici: 1973, migrazione della riproduzione capitalistica dalla sfera materiale a quella virtuale e prove generali cilene di restaurazione a mezzo putsch; 1989, caduta dell’impero sovietico e definitiva sconfitta del lavoro organizzato, con la conseguente scomparsa di ogni contrappeso all’egemonia del Capitale).

A fronte del ribaltamento dei rapporti di forza sistemici, si assiste alla rivincita di un ceto medio che fornisce la base di consenso ai nuovi protagonisti politici (sinergici o sottomessi ai nuovi potentati economici, che dir si voglia) e tende a farsi dominante cavalcando i processi di individualizzazione innescati dalla parola d’ordine del tempo: “arricchitevi!”. Quel ceto medio ora corazzato in neo-borghesia, che andava armandosi per soppiantare quella vecchia, d’impresa e delle professioni. Una gestazione intuita, a proposito del caso italiano, già da Paolo Sylos Labini: «fra gli strati di formazione intermedia, specialmente se provengono da famiglie miserabili, si ritrovano più di frequente gli individui peggiori, disposti a intraprendere l’ascesa sociale e la scalata al benessere con ogni mezzo. Questi individui […] sono spesso indotti, dall’ansia di differenziarsi dalle classi di provenienza, a prendere anche politicamente le posizioni più reazionarie»[4]. Poco prima il celebre economista aveva definito tale tipologia sociale «i topi del formaggio», descrivendola famelica e culturalmente rozza, servile con i potenti e tracotante con gli inermi.

Si scatena – così – un moto ascendente di parvenu, che rivelano quelle caratteristiche accaparrative a scopo dimostrativo su cui la critica sociologica radicale nordamericana aveva da tempo fornito importanti contributi. Anche perché – già all’epoca delle Tredici Colonie – era “tra le maestose sequoie del New England” che veniva formandosi il primo incubatore di una plutocrazia coloniale; la quale giustificava il privilegio teorizzando quella mobilità verticale refrattaria alle regolazioni nella quale avrebbero continuato a riproporsi profili di “robber barons”, gli individui affaristi di estrazione sociale mediana ascesi all’empireo dl denaro.

Un ambiente intellettuale da cui provengono importanti analisi di questa “nuova classe”, a partire dal grande economista irregolare Thorstein Veblen, che nel suo saggio più significativo (La teoria della classe agiata del 1899) analizzava il fenomeno del “consumo vistoso”, per arrivare allo psico-sociologo di Columbia University Charles Wright Mills e al suo fulminante «i gruppi installati più in alto sono orgogliosi, quelli non ancora arrivati sono soltanto vanitosi»[5].

Sicché la fenomenologia della vanità possessiva, con annesso culto del lusso, ora diventa ancora una volta la chiave interpretativa della ricomposizione degli equilibri tra le classi, a seguito dei ciclopici trasferimenti di ricchezza e della crescita delle nuove disuguaglianze conseguenti allo sbaraccamento dello Stato sociale. Di cui i testi di Douglas-Insherwood e Bourdieu ci forniscono chiavi di lettura a dir poco pionieristiche. Strumenti preziosi per una nuova teoria della società, dopo l’urto devastante della restaurazione di matrice anglosassone, che resta ancora in attesa di essere elaborata.

NOTE

[1] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969 pag. 285

[2] B. Russell, Sunday Times 1 agosto 1971

[3] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008 pag. 144,.

[4] P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Bari/Roma 1974 pag. 54

[5] C. W. Mills, La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966 pag. 61

(10 settembre 2016)



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