Le macerie di un giornalismo senza notizie
Conversazione con l’ex direttore de “L’Unità”, parlamentare del Pd presso la Camera dei deputati, tra gli ultimi reduci di un giornalismo italiano che fu professionista e d’autore, e in cui la “qualità della testa” contò molto più di ogni “precaria” e “intercambiabile” “agilità delle dita” (sue espressioni, da Post giornalismo. Notizie sulla fine delle notizie, Editori Riuniti 2007). La maestria di un nobile genere letterario, quello che fu nell’Italia antecedente la barbarie postmoderna il genere giornalistico, si scioglie e rivela passo dopo passo, risposta dopo risposta. Proprio come in un poema, il dato storico e geografico si innesta e fonde, nelle risposte del mio interlocutore, con il dato cronachistico, finanche a rendersi metafora geologica di un sisma epocale.
di Davide Nota, da lagru.org
Davide Nota: “Il dramma delle notizie ostacolate…”. Pare un verso poetico, impuro, tendenzialmente endecasillabico, di Pasolini o Dario Bellezza. Si tratta invece dell’ouverture del capitolo “Il fattore verità”, dal suo Post giornalismo. La prima domanda che vorrei dunque porle, ad apertura di questa nostra conversazione, potrebbe forse apparirle inattesa o fuori luogo, ma sappiamo bene come le forme e le lingue della comunicazione siano sempre rivelatrici di una determinata cultura o sensibilità agite sul corpo del mondo e della storia. Il suo stile ci parla di un pensiero amplio, complessivo, poematico, che lega cioè a sé un tragitto individuale e collettivo, in atto. Quanto e come l’ordito musicale, la prosodia e la metrica, gli strumenti insomma della poesia, si muovono ed agiscono all’interno della comunicazione giornalistica e del pensiero? È forse un errore pensare che una delle principali differenze, inconsce, che separa seccamente l’epoca del giornalismo moderno dal supermarket postmoderno delle news, risieda proprio in questa abiura del nuovo giornalismo da un respiro musicale, umanistico, “sentimentale, e perciò filosofico” (Leopardi)?
Furio Colombo: La tua domanda è molto bella e poetica. No, non è un errore. La risposta è sepolta sotto il controllo aziendale dell’editoria. È come se sulle notizie si fossero abbattute le macerie di un sisma lento e inesorabile che è avvenuto nel giro degli ultimi tre decenni. Il sisma ha portato ad uno smottamento continuo nella rilevanza del giornalista come reporter, come commentatore, come editorialista, come contributore di idee, e ha provocato la tendenza ad aggirarsi con l’elmetto della disciplina aziendale, del “qui si fa così”, del “questo si dice e questo non si dice”. Purtroppo, come si vede, e a parte il riferimento fatale all’imagerie catastrofica dell’Abruzzo, ciò che è accaduto è molto al di sotto di uno scontro culturale, o di un’evoluzione culturale, o di un confronto fra culture che a volte può essere anche un confronto sgradevole ma che è pur sempre un confronto fra culture. A suo modo fascismo e antifascismo negli anni ’20 sono stati un fior di confronto, nel senso che ognuna delle due parti aveva in mente una visione del mondo. Una visione del mondo, non un aggiustamento del potere. Ecco, non è più il caso. Qui il caso è, sul territorio limitato della singola esperienza del fare il giornalista, l’assestarsi degli interessi dell’editore-imprenditore in modo da prevalere. Sul piano più vasto del paesaggio circostante, il potere dell’editore-imprenditore ha cominciato a dipendere a sua volta, e sempre più drammaticamente, o da un altro editore-imprenditore, o da interessi più forti e troppo forti che comunque impedivano dialettiche e discussioni. Quindi le strade si accostano, si assomigliano, si ingrigiscono, si appiattiscono e fatalmente il desiderio mattutino del cittadino normale di mettere le mani sulla copia fresca del giornale appena uscito è diventato sempre e dovunque molto più debole.
DN: "Il fattore verità". L’approfondimento mutato in intrattenimento, l’indagine in varietà, la riflessione politica in spettacolo reiterato delle opinioni ufficiali: lo stato del giornalismo televisivo italiano ci narra di una guerra già vinta dalla Società italiana dello Spettacolo e dalle sue esigenze di alleggerimento dei palinsesti pubblici. Scriveva Guy Debord nel 1979 (Prefazione alla quarta edizione italiana de La società dello Spettacolo) che "se Marx pubblicasse oggi Il Capitale, andrebbe una sera a spiegare le sue intenzioni in una trasmissione letteraria della televisione, e l’indomani non se ne parlerebbe più. […] Evidentemente, se qualcuno pubblica ai giorni nostri un vero libro di critica sociale, si asterrà certamente dall’andare in televisione, o di partecipare ad altri colloqui dello stesso genere; di modo che, dieci o vent’anni dopo, se ne parlerà ancora.". Lei stesso ha invitato gli esponenti del centrosinistra italiano a "non andare a Porta a porta", a disertare lo "show gladiatorio" delle trasmissioni "tagliate su misura" (Bruno Vespa). La neutralizzazione dello Spettacolo da parte della Verità passa necessariamente attraverso la scelta di un distacco? Non è forse necessario, come invece ha più volte sostenuto l’ex direttore di “Liberazione” Piero Sansonetti, sporcarsi gramscianamente le mani nel magma delle comunicazioni di massa e dei suoi linguaggi popolari e pop?
FC: Attenzione, Sansonetti non si è mai sporcato le mani. Gramsci non ha mai partecipato ad un amabile convegno con i fascisti. Sansonetti si è presentato in periodo elettorale di fronte a Berlusconi, ha preso il buffetto sulla guancia e si è sentito lodare per la somiglianza con Garibaldi. Ne è nata una conversazione quasi affettuosa, certo molto amichevole, che rende i rapporti fra Berlusconi e Minzolini molto più reggimentali. Sansonetti è l’uomo di sinistra che ha saputo giocare molto bene l’occasione di non praticare, lo ha detto lui stesso in questi giorni parlando del suo nuovo giornale, l’antiberlusconismo spinto. Se ci fermassimo su questo punto avremmo nient’altro che un ritorno alle polemiche su Berlusconi che col tempo, quando qualcuno anni da adesso rileggerà queste righe, potrebbe trovare completamente superate o del tutto incomprensibili. In realtà antiberlusconismo spinto, negli anni, nei mesi e nei giorni in cui ne stiamo parlando, significa sapere che se non si rimuovono certe circostanze liberticide, che non dipendono dalla bontà o cattiveria del titolare ma che sono determinate in modo fatale dal conflitto di interessi, a non essere rimossi sono dei macigni sulla strada libera dell’informazione, perché il conflitto di interessi consente il controllo totale dell’informazione pubblica e privata, alta e bassa, locale e generale. C’è stato un periodo, per fortuna finito, in cui molte destre erano al potere, dalla Spagna agli Stati Uniti, con la volenterosa collaborazione di Blair che pur essendo laburista faceva da colonia americana in Europa, in cui il modo di governare le notizie di Berlusconi era diventato una sorta di modello internazionale. Celebri, infatti, gli scontri di Blair con la libera stampa inglese. Un esempio tipico di questo leader della sinistra è quello di avere obbligato alle dimissioni il capo della Bbc, reo di avere messo in dubbio l’esistenza delle inesistenti armi di distruzione di massa. Ecco, questo non è più vero in gran parte del mondo, però continua ad esserlo in Italia. Allora dicesi an
tiberlusconismo spinto la posizione di coloro che non intendono discutere la condizione delle informazioni, delle notizie, del giornalismo, della televisione, dei media e persino della rete in Italia senza discutere del conflitto di interessi. Dicesi della rinuncia all’antiberlusconismo spinto la decisione di non discutere mai più il conflitto di interessi. E questa è la sola condizione alla quale i dominatori dell’Impero delle notizie ti accettano, e tu diventi di colpo il loro beniamino. Naturalmente ognuno ha un ruolo. C’è chi pur appartenendo a formazioni incredibilmente esposte del paleofascismo viene nominato semplicemente come un interlocutore di “destra”. C’è chi, come Sansonetti, viene nominato e invitato invece come “la sinistra”: “anche la sinistra dice…”, “finalmente la sinistra ammette…”, “una voce della sinistra ci ha fatto sapere che…”. E naturalmente è una sinistra che si pente, che ammette, è una sinistra che mantiene alcune posizioni legate al lavoro, perché altrimenti perderebbe il trucco in modo completo, e poi perché un po’ di populismo sul lavoro non dà fastidio neppure a questi padroni delle notizie, e per il resto ha preso l’impegno di non parlare mai più del conflitto di interessi. Il conflitto di interessi è quello che consente di nominare tutte le cariche della Rai al Capo del Governo dalla propria abitazione privata mentre è concessionario dello Stato in quanto proprietario di tutte le altre televisioni private del paese. In altre parole: ignorate lo scandalo immenso e sarete ammessi all’Ordine dei giornalisti. Non ignoratelo e entrerete a far parte di una nuova categoria che chiamerei sottordine dei giornalisti. Caratteristica dell’Ordine è di essere citati, intervistati e trasportati come madonne pellegrine in televisione. Caratteristica del sottordine dei giornalisti è di non essere mai citati, persino se siete deputati alla Camera e se fate discorsi che è un po’ difficile non citare, non perché siano bellissimi ma perché dicono alcune cose che provocano per esempio grande risentimento e reazione nel piccolo pubblico della Camera o del Senato. Ma se appartenete al sottordine questo non fa notizia. Il collega addetto a seguire il pomeriggio o la mattina della Camera o del Senato non lo noterà e non lo scriverà. Per esempio, i due punti fondamentali del mio intervento contro le ronde del 7 aprile alla Camera hanno riguardato la meraviglia di vedere il Ministro dell’Interno, dunque capo di tutta l’organizzazione della Protezione civile nel paese, presente ininterrottamente in aula nella giornata più critica dei soccorsi in Abruzzo, pur di vegliare sul provvedimento “ronde padane”, che è un vero scandalo non citato e non nominato da nessun giornale. Il Ministro dell’Interno è stato tutto il giorno alla Camera, seduto al banco del governo, per non perdere di vista il suo decreto che invece di Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Guardia forestale ed Esercito, avrebbe dovuto istituire le ronde padane, cioè la Milizia volontaria di sicurezza nazionale del Partito leghista. Questo è il primo scandalo. Il secondo argomento che è stato rinfacciato al Ministro è stato di essere un ministro padano invece di un ministro italiano, e quindi di continuare con altri mezzi, e cioè attraverso l’infiltrazione del governo italiano, il progetto di secessione del governo padano. Anche questa che è, se vogliamo, un’accusa politica non di poco conto, perché o è vera o non è vera ma determinerebbe in qualunque parlamento una reazione drammatica, è stata deliberatamente ascoltata e tralasciata perché pronunciata sì da un deputato, ma che in quanto giornalista, intervistato ed ex protagonista di programmi, di trasmissioni e di dibattiti, fa parte ora del sottordine dei giornalisti, quelli che non devono essere citati perché il potere istituito da una sola persona non li tollera. Quindi le mani si sporcano appartenendo al sottordine dei giornalisti, mentre diventano smaglianti e visibilissime quando si appartiene all’Ordine e si viene nominati rappresentanti della sinistra da questo nuovo Ordine dei giornalisti in cui si stabilisce chi è di destra, chi è di centro e chi è di sinistra. Ma non lo stabilisci tu con la tua vita e il tuo militantismo, lo stabilisce il centro di potere a cui hai deciso di partecipare perché è più divertente che non partecipare.
DN: Credo che vi sia anche una valutazione politica e strategica dietro alcune scelte di apparizione o di partecipazione…
FC: Attenzione, non sto dicendo alla vecchia maniera paleocomunista, con cui non ho mai avuto nulla a che fare, che Piero Sansonetti è un traditore. Sto dicendo che è stato molto attento alla professione e si è accorto che se si vuole apparire si deve rinunciare all’antiberlusconismo spinto, che vuol dire, ripeto, non nominare mai il conflitto di interessi. Quanto alla mia raccomandazione di non andare a Porta a porta, per tornare alla tua domanda, era una raccomandazione di tipo politico molto simile a quella che ho fatto disperatamente, appassionatamente e invano al Partito democratico di non votare per il federalismo fiscale dei leghisti, perché il problema non era di decidere quanto cattivo fosse il federalismo dei leghisti, il problema era di non confezionare assieme ai leghisti la loro bandiera elettorale, che adesso useranno sia per le amministrative che per le europee. Per fortuna hanno perso ronde e detenzione indefinita dei cosiddetti clandestini, ma hanno vinto, con l’aiuto e il voto del Pd, il “federalismo fiscale”, che nessuno ha ancora ben capito cosa sia visto che non ci sono numeri, perché il Ministro dell’Economia si è rifiutato di dare quantità ai concetti di quella legge. Quindi è stata scritta una legge che potrebbe essere anche una poesia, se avessero un buon approccio linguistico, ma certo non lascia segni sul territorio perché è esclusivamente di indicazioni: “si farà…”, “si divide in questo modo…”, “allora tocca alla città farsi avanti se…”. Sono tutti concetti letterari, narrativi, non ci sono i numeri, non ci sono le quantità, non ci sono i pesi, non si sa neppure se è possibile questa legge, perché si può fare benissimo una legge per l’abitabilità di Marte, ma il problema è che non abbiamo notizie sul come andarci. Ecco, lo stesso è il federalismo. Votandolo noi abbiamo fabbricato una bandiera che loro sventoleranno. Ne avrebbero avute tre e per fortuna sulla seconda e la terza è prevalso il consenso, per carità, a non assecondarli. Anche Porta a porta è una bandiera. La trasmissione è truccata, è rigorosamente al servizio del padrone, questo è stato detto in almeno dieci importanti libri di giornalismo italiano, testimoniato da almeno dieci importanti ed autorevoli voci del giornalismo e della politica italiani, da Pannella a Giovanni Sartori, senza bisogno di entrare nella divisione tra destra e sinistra. Porta a porta è una trasmissione truccata che ha come scopo di far vincere sempre la pallina che appartiene ad una certa persona, ad un certo giro e ad un certo partito. Però dà una grande visibilità. Ecco, io avevo chiesto con tutto cuore ai miei colleghi del Pd e del centrosinistra di rinunciare a questa visibilità, per togliere legittimità a quella trasmissione, in modo che si vedesse subito e a prima vista che è falsa. In altre parole intendo dire che bisognava “ritirare la delegazione”, mostrare che non c’era dibattito, perc
hé il dibattito era evidentemente impossibile. La prima dimostrazione sono sempre state le scritte proiettate sulla parete di fondo alle spalle del conduttore, fatte in modo da dare il senso dell’evento prima ancora di avere aperto il confronto. Non andare a Porta a porta non era poi un sacrificio spaventoso. Io facevo un discorso esclusivamente su Porta a porta, non perché ami gli altri talk show ma perché un esempio lo puoi dare solo se ti limiti, e certamente Porta a porta è il peggio, su questo non c’è dubbio. Per esempio a volte io dissento profondamente da Annozero, ma Santoro si espone personalmente, incassa insulti e improperi, si espone nella trasmissione ma soprattutto nella vita, nel senso che prende talmente parte e in un modo talmente vistosamente inclinato che toglie ogni trucco. Poi si può dissentire in modo clamoroso, ma dissentire è uno degli effetti più benefici del giornalismo, mentre “consentire credendo che” è uno degli inganni più gravi. Io mi accorgo molto spesso, nelle e-mail che ricevo o anche nelle domande che mi sento fare nelle sezioni del Pd, quando vado a parlare in periferia o in provincia, che l’argomento parte da Porta a porta. Non parte dalla politica, dalla realtà, ma da Porta a porta. Insomma, in sintesi e per tornare alla tua domanda, Porta a porta è un esempio di trasmissione truccata molto potente che deriva in modo diretto dal conflitto di interessi.
DN: Lei scrive: "Le notizie sono orfane". Ma pure: le nuove leve precarie e con le spalle schiacciate al muro dell’autocensura. Il controllo dei gruppi editoriali sulla diffusione delle notizie diretto e definitivo. Come è possibile che sul tema della libertà di stampa, che a maggior ragione non riguarda solamente il diritto del singolo lavoratore ma la tenuta stessa della democrazia, il centrosinistra non sia stato in grado di operare una efficace e imprescindibile battaglia politica? Cosa si doveva fare e non si è fatto? Perché?
FC: Il centrosinistra non ha operato e non ha voluto operare. I politici sono uniti con i manager nel detestare la notizia. Non è una questione di politico di destra o di politico di sinistra. Ci sono poi momenti di crisi in cui si rivela la faglia tra Usa ed Europa. Vedi, uso ancora termini del terremoto perché è troppo grande l’influenza di ciò che sta accadendo attorno a noi in questo periodo. Dicevo, in momenti di crisi si rivela la faglia perché nei momenti peggiori la Stampa americana si ribella. È accaduto molto prima della vittoria di Obama. Il “New York Times”, il “Washington Post”, il “Boston Globe”, il “Los Angeles Times”, pur in crisi come aziende e quindi bisognose di aiuti, si sono rivoltate con violenza contro la soppressione di regole democratiche fondamentali e di diritti umani avvenuta più che sotto Bush sotto Dick Cheney, il vicepresidente degli Stati Uniti. L’introduzione della tortura, le questioni gravi come quella di Guantanamo, le notizie false diffuse artatamente come non era mai accaduto nella storia degli Stati Uniti dall’ufficio di Dick Cheney, come è stato poi rivelato e che ha portato il più stretto collaboratore di Dick Cheney, Lewis Libby, al processo che forse incriminerà lo stesso vicepresidente. La “rivolta degli editoriali” però è avvenuta prima che il potere consentisse il respiro, anzi, ha probabilmente aiutato ad esprimere quella rivolta popolare che ha poi portato il voto ad Obama. Ecco, questo da noi non è accaduto e non c’è traccia che si stia per verificare. Da noi tra l’altro è rimasta una curiosa e compatta omogeneità tra politici, per cui entrambi gli schieramenti detestano il giornale che si immischia, e io questo l’ho sperimentato da direttore de “L’Unità”, perché noi non facevamo una distinzione faziosa, nel senso di voler avere solo le notizie che riguardavano il partito di Berlusconi o degli avversari. Quando c’erano delle situazioni dalla nostra parte che non si capivano, che non si chiarivano, che non si spiegavano, che ci sembravano prive di senso, a noi pareva nostro dovere farlo notare, e farlo notare in modo anche vivace, con corsivi, editoriali, battute, vignette, titoli, interventi. Dava un fastidio spaventoso. Non abbiamo mai capito se volesse la nostra fine più fortemente la parte berlusconiana o la parte che noi sostenevamo e a cui abbiamo fatto certamente guadagnare un bel po’ di voti, perché notando il nostro dissenso, coloro che non avrebbero votato sapevano che potevano votare perché c’era il dissenso, si sentivano cioè all’interno di una macchina politica funzionante, vera, dove si può dissentire. Infatti è gente che poi non ha più votato. Non ha votato in Abruzzo, non ha votato in Sardegna, ha lasciato dei vuoti da venti per cento di schede mancanti, mentre durante tutto il periodo in cui abbiamo diretto “L’Unità” la coalizione Ds-Margherita non ha mai perduto una sola elezione. Non sto dicendo che si perde perché manchiamo Padellaro ed io, però è chiaro che la libertà di informazione a sinistra serve. Ma i politici hanno questa caratteristica, come i manager, non desiderano le notizie ma le loro notizie. E questa è una maledizione che incombe se lasci libero il politico di poter imporre la sua volontà. Certo, da noi i politici senza potere dell’opposizione hanno un brutto esempio dai politici del potere, e a volte invece di volerne prendere il posto attraverso le elezioni, sembrano piuttosto tentati di prenderne il posto attraverso il comportamento, cioè mostrando tutto il loro non gradimento per la libertà di stampa.
DN: “L’apparente anarchia dello spazio vasto…”. Vale a dire l’illusoria libertà del web, patria della foga e dell’emotività che sostituiscono la riflessione e l’analisi. Ecco come si sono potuti sviluppare fenomeni di nuovo populismo, nella circolazione brada di informazioni dimezzate o verosimili, decontestualizzate o alterate, dietro le quali avanza la piallatrice della “Nuova egemonia culturale”, basata sul controllo immediato della nuova opinione pubblica (“La schermata del cielo / gelidamente oggettivo”). Detto ciò non possiamo non considerare il fatto che le possibilità di intraprendere in Italia un percorso di giornalismo politico e culturale professionista siano oggi praticamente nulle. Trovare rifugio nella rete è spesso e volentieri l’unica alternativa praticabile per gran parte della nuova generazione culturale e intellettuale del nostro Paese…
FC: Il rifugio nella rete è cosa buona, ma è pur sempre un rifugio: paradossalmente conta poco in un mondo di para-notizie. La rete ha due caratteristiche, da una parte brulica di tutte le notizie possibili e quindi di una quantità di notizie vere ed attendibili, dall’altra brulica di un’infinità di altre notizie che non sono necessariamente vere né attendibili. Inoltre non esiste un filtro che possa guidare, se non esperienza politica, di diritto, cultura, riferimento a grandi quadri del passato che servano ad orientarti, insomma un notevole grado di sofisticazione che ti metta in grado di usare la rete in un certo senso come un grande repertorio della vita. La vita non fa che offrirti contraddizioni e inspiegabili fenomeni. Le persone più straordinarie sono quelle che si avventurano dentro le contraddizioni, dentro questi fenomeni inspiegabili ed escono con una risposta d’arte, di scienza o di organizzazione. Queste sono le persone che lasciano il segno, altrimenti l’affollamento delle notizie determ
ina una foresta molto fitta e poco interpretabile. Io penso sempre al fatto che uno dei più grandi utenti della rete che conosca è Umberto Eco. Resta il fatto che Umberto Eco è identico a quando io lo conoscevo, dotato di decine e decine di scatole da scarpe piene di decine di migliaia di schede. Ricordo che in un periodo in cui giovanissimi abitavamo insieme per sostenere le spese di un’abitazione, il suo trasloco consisteva soprattutto nello spostare queste scatole da scarpe piene di schede annotate in calligrafia minutissima, e tante agendine in cui ogni evento era quotidianamente annotato. Ecco, lui aveva già il suo computer, anche se gli mancava l’ordinatore, la possibilità di toccare un tasto e far comparire esattamente ed immediatamente il risultato della ricerca. Si dà il caso che la sua memoria assolutamente fuori dall’umano lo mettesse nelle condizioni di dirigersi direttamente verso la scatola giusta e di estrarre nel punto giusto la scheda giusta, nel momento in cui ne aveva bisogno per una citazione. Quindi non so bene se il computer lo abbia semplicemente indotto ad una vita più distante o se non abbia fatto che rappresentare ciò che lui era già. Però ci vuole una bella statura per usare il computer come strumento culturale e come strumento di notizie, altrimenti si forma da una parte una foresta-rifugio, che però è un po’ fiabesca e assomiglia molto all’universo di Tolkien, e dall’altra si vive in un mondo di para-notizie, che è quello in cui stiamo vivendo noi, che è un mondo in cui le notizie non sono veramente i fatti ma sono la pastorizzazione dei fatti secondo l’ambientazione politico-culturale del momento, del tempo, del luogo e del leader. Queste para-notizie non si incontrano mai con le notizie del web, e allora assistiamo ad un altro uso della rete che è una sorta di continua e frenetica comunicazione. Io vedo, seduto al banco della Camera, che tutti i miei colleghi hanno di fronte a sé un computer e sono in continua e frenetica comunicazione con altri punti che non fanno “differenza”, semplicemente allargano il terreno e invece di buttarsi in automobile a grande velocità verso la strada che va a Sud o sulla strada che va a Nord, si buttano sul computer e si agganciano ad altre reti alle quali circolano più o meno gli stessi materiali dello stesso livello e con le stesse notizie. Non ho mai visto Fioroni avventurarsi nella rete e tornare con un testamento biologico, dicendo “adesso l’ho capito, così si può fare”. No, Fioroni torna con altre affermazioni di Monsignor Sgreccia, sul fatto che o moriamo come vogliono loro o non dobbiamo morire affatto, dobbiamo stare legati a qualche sondino fino a quando decidono che va bene così. Quindi c’è uno scambio fremente e continuo di contatti che non si alza mai da un piano basso a un piano alto, ma che continua ad estendere un territorio disperatamente uguale. Quindi certamente posso dire che c’è tutto un aspetto tecnico-pratico che è simile al mondo delle farmacie rispetto al mondo di coloro che si facevano le medicine con le erbe o con i piccoli laboratori casalinghi. Certo, è meglio andare in un posto e sapere che tutto è già confezionato, pur sapendo che alle spalle ci sono industrie farmaceutiche e gli interessi di queste industrie, però almeno c’è la farmacia, ordini una cosa e te la danno. Grosso modo è quello che succede con Google o con i motori di ricerca che ti portano a sapere con esattezza una data, un nome, una grafia, una via o un luogo. Ecco, però a parte questo non mi illuderei che ci sia alcun innalzamento di conoscenza.
DN: Insomma il web è uno strumento neutralmente tecnico quando non sostanzialmente regressivo.
FC: Volendo fare una sorta di giudizio sintetico direi che è la condizione ideale per ambientare e rendere felici le intelligenze medie che vogliono sapere quantitativamente di più ma non hanno l’ansia e la disperazione di salire più in alto o di scendere più in profondo. Sembrerà strano che lo dica dopo aver nominato Umberto Eco ma è così, il web non ha nulla a che fare né con l’ansia di salire in alto, né con la lotta, la disperazione, il desiderio, il bisogno di scendere e di esplorare il profondo. La Rete dà a tutti i suoi terminali, a tutte le decine e centinaia di milioni di persone che la usano, come impiegati di una stessa azienda che mantiene tutti più o meno allo stesso livello, salvo la retribuzione. Insomma, non è uno spettacolo straordinario, a meno che non sia incartato dentro lo spettacolo per me indimenticabile della cerimonia di apertura delle Olimpiadi cinesi, che in fondo ci ha offerto una visualizzazione straordinaria del che cosa fa il computer. Vale la pena di vederlo o di ritrovarlo, quello spettacolo realizzato dal regista cinese Zhang Yimou, che è lo stesso autore di un film quasi identico che si intitola "La città proibita". Tutta la sigla di apertura dei Giochi olimpici di Pechino mostrava migliaia di persone, di cui quasi la metà bambini, che facevano gesti quasi identici, appena sfasati di frammenti di secondo, in modo da creare delle continuità e delle armonie che erano possibili soltanto attraverso una partecipazione di massa e una disciplina immensa. A me è sembrata una sorta di clamorosa profezia. Ecco, vorrei che chi può tornasse a vedersi tutta la sequenza dell’apertura dei Giochi olimpici di Pechino.
DN: Il processo analizzato investe anche i modi della politica, piallati dall’egemonia della formula berlusconiana di partito liquido, in cui le tradizionali forme di militanza e discussione democratica, radicate in contesti geografici reali, hanno lasciato il posto ad una postmoderna strumentalizzazione, verticistica e spettacolare, della bassa opinione: il non luogo della massa virtuale, disindividuata e acclamante. Come operare, nel presente, una efficace e non autoreferenziale resistenza umanistica ed intellettuale? Come disobbedire?
FC: Ci sono due modi per disobbedire. Uno si sta espandendo nel mondo ed è il fuggire fuori dalla politica, invadere i parlamenti, sequestrare i manager, distruggere cose. Una sorta di luddismo contemporaneo che si sta diffondendo e che è facilissimo trasformare in notizia, trasformare in scandalo, così come è facilissimo giocare sulla paura e trasformarlo in strumento di potere. L’altro modo di disobbedire è invece quello che stiamo facendo tu ed io, con precisione insistita e continua. Anche le gocce contano.
DN: Abbiamo proposto ("Se la destra cita Gramsci", in Carta sporca, novembre 2008, ora rilanciato su La Voce delle voci, aprile 2009) delle tavole rotonde della sinistra culturale, nel forse ingenuo tentativo di organizzare una risposta strutturata e di amplio respiro che coinvolga ed attraversi tutte le diverse forme di comunicazione e diffusione del pensiero democratico ed alternativo alle narrative ideologiche della destra. Questo appello, che ha ricevuto finora moltissime adesioni dal mondo della cultura e della militanza di base, resterà probabilmente disatteso, a causa dell’assenza di un referente politico in grado di offrire strutture e aiuti organizzativi. Noi restiamo convinti della necessità di riprendere in mano un vero e proprio discorso teorico, forte e complessivo, che sappia coinvolgere e radicarsi all’interno della frammentaria realtà italiana. Eppure molti degli eredi del partito che fu degli intellettuali paiono incapaci di comprendere l’importanza e l’urgenza della questione culturale…
FC: Chi ci crede lo faccia subito e dovunque, perché se ci crede lo fa bene, e se lo fa bene fa “differenza”. L’importante &egrav
e; che ci si creda davvero. A me non capita che di partecipare a tavole rotonde fatte a volte anche con bravura organizzativa ma con totale distacco, senza alcuna persuasione, soltanto per dovere o perché ci sono dei soldi da spendere, perché c’è una persona da onorare o perché c’è un libro, un film o un personaggio da mettere in rilievo. Mi capita di assistere a decine di tavole rotonde in cui manca lo stimolo, la spinta, la persuasione. Ecco, qui vorrei davvero dire questo: chi ci crede lo faccia, non rinunci mai. Tre persone che si riconoscono in una possibile tavola rotonda la facciano subito, e altre tre si siederanno davanti ad ascoltare, su questo non c’è dubbio. Lo facciano subito e dovunque. Ma non perché l’Assessore alla Cultura del Comune, della Provincia e della Regione ha ancora dei fondi da mettere a disposizione, perché le tavole rotonde inventate a freddo sono tristi, sono spesso anche ben organizzate ma niente di più destinato a non lasciare il segno. Quando si organizzano delle tavole rotonde bisognerebbe porsi una sorta di impegno molto simile al perché si vuole raccontare una storia. Quello che si fa deve fare “differenza”. Qual è la differenza che farò, che lascerò, se faccio questa cosa? C’è una differenza o no? Se c’è una differenza lo devo fare, come dicevo prima, subito e dovunque. Se non c’è differenza si può tranquillamente rinunciare, anche perché questo tempo inutilmente impiegato può essere dedicato a rileggere un libro, a una passeggiata o ad una riflessione.
DN: Come rilegge, a distanza di un lustro, la sua esperienza di direzione de "L’Unità", dal 2001 al 2005?
FC: Sfasata, nel tempo e nel luogo. Quando ho fatto il direttore de “L’Unità” l’ho fatto in contrasto con un partito che però era fortemente legato a quel giornale e che si arrabbiava con onestà di quello che accadeva nel proprio giornale. Quindi sapevi di essere dentro qualcosa di vivo e di vero, che rappresentava la vita e le cose in cui credeva una bella quantità di persone. Adesso non è così, anche se molti redattori del giornale sono gli stessi di prima e chi lo dirige lo fa certamente bene. Ma questo giornale è legato a chi, a che cosa? Ambientato in quale mondo? Con riferimento a che? Si dice “la sinistra”, però ad esempio questa è una parola che da un bel po’ di tempo non ridefiniamo. Perché se non si va a cercare, se non si vuol più cercare, nel marxismo una definizione della parola “sinistra”, non si sa bene che cosa voglia dire. Tant’è vero che proprio due giorni fa sul “Corriere della Sera” uno dei leader del Pd ha detto che bisogna scrivere la parola Centro con la c maiuscola, che bisogna rispacchetare e rimpacchettare l’intera composizione del Partito democratico perché così com’è, se non c’è al centro il Centro con la c maiuscola, non si vince e non si vincerà mai. Quindi più che mai l’esperienza della mia direzione de “L’Unità” mi pare oggi sfasata, nel tempo e nel luogo. Un elemento in più, mi ripeto, è che quando su “L’Unità” di allora Padellaro ed io, insieme a Travaglio, insieme a Tabucchi, insieme a Chierici, insieme a Stajano, Giovanni Sartori, Sylos Labini, con l’incoraggiamento persino di Indro Montanelli, parlavamo di conflitto di interessi, un bel po’ di Italia ci seguiva e ci era accanto. Se lo facessimo adesso verremmo guardati con compatimento, come accade ogni volta che, sia pure con testardaggine, continuo a farlo in pubblico.
DN: Quale, secondo lei, il contributo che possono ancora dare i poeti allo sviluppo dell’attuale dibattito civile e politico? Quale il ruolo degli artisti all’interno della sua idea di sinistra?
FC: Immenso ma non misurabile. E il ruolo degli artisti è di essere artisti. La sinistra non è una condizione dell’arte e non è neanche un dato dell’arte. Basti pensare ad Ezra Pound, che è indiscutibilmente un grande poeta. Quindi la mia risposta è un sì incondizionato al contributo dell’arte, anche perché la misteriosità della poesia, come la misteriosità della musica, una volta che scatta e comincia ad esistere non sai dove ti porta, e non ha alcuna importanza se ti porta più vicino o più lontano da ciò che ti sembrano in quel momento certi ideali. È chiaro che probabilmente ti porterà sempre più verso un mondo che hai intuito, che hai amato, che hai intravisto, che hai visto nella nebbia, che hai intercettato da lontano, che ti ha agganciato in un momento di fantasia, di ragione o di cognizione. Però è la poesia che decide, come è la musica che decide. Sono strumenti immensamente più liberi. E quindi la risposta è: immenso, il contributo, ma non misurabile. E il ruolo degli artisti è di essere artisti. Che non è un rivendicare bizzarro la propria libertà bohemienne ma è sapere che un artista ha la sua vocazione e la sua maledizione, la sua straordinaria grandezza e il suo limite. Può darsi che non atterri in una terra abitata nel momento in cui vi giunge. Può darsi che giunga in un luogo in cui non serve la vita che vorrebbe trovare o che credeva di trovare. Gli altri arriveranno dopo, o in un altro momento. Ma resta il fatto che il suo contributo è immenso e non misurabile.
(20 aprile 2009)
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