Le metamorfosi del craxismo

Paolo Flores d'Arcais


Questo testo, che mette in luce due Craxi, è stato pubblicato sul terzo numero di MicroMega, nell’autunno del 1986, quando l’onorevole Craxi era Presidente del Consiglio e erano ancora lontani di anni i sospetti sull’esistenza e l’ampiezza di Tangentopoli, che avrebbero rivelato un terzo Craxi.
, da MicroMega 3/1986

Prologo

Craxi, da dieci anni, è oggetto di polemiche quasi sempre fuori misura. Pure, il craxismo è novità d troppo rilievo per abbandonarlo ai toni rissosi, e in conclusione frivoli, della chiacchiera da trattoria {o da salotto buono). Il craxismo, infatti, è la politica egemone in Italia per un’intera fase, quella successiva al crepuscolo del ’68 e al dileguare della stagione dei movimenti. Egemone, la politica di Craxi, esatta· mente come furono egemoni la politica di De Gasperi prima e di Moro poi. Sul craxismo, le sue caratteristiche, le sue metamorfosi, il suo futuro, è perciò tempo di indagini e bilanci meno approssimativi. Sine ira et studio, per il possibile.

Al Midas hotel, dieci anni or sono, non si consuma semplicemente un mutamento di segreteria ai vertici del Psi. Palese la distanza di perso­nalità e stile, naturalmente. Dignitosa cultura accademica sul versante demartiniano, ma il politico appare fiacco e rassegnato, fino alla subal­ternità. Apprendistato vissuto tutto nel chiostro degli apparati, quello di Bettino Craxi, ma l’uomo, energico fino all’arroganza, esprime al­ meno una certezza: che le circostanze politiche, malgrado ogni appa­renza, schiudano ai socialisti italiani un destino da protagonisti. All’epoca, pare ai più una stravaganza. Si tratta, invece, di un’intuizio­ne ad alto tasso di realismo. Che viene immediatamente articolata in un disegno politico dettagliato, inedito, coerente. Gli osservatori eser­citano mediocri talenti analitici sulla rapidità della manovra craxiana all’interno del Psi, in virtù della quale il nuovo segretario si rende padron e del partito, ma l’essenziale sta altrove. Vediamo.

Il craxismo come progetto per porre fine all’anomalìa del ‘caso italiano’

Craxi non si rassegna all’anomalìa del «caso italiano» e intende porvi fine, avvicinando il paese alla normalità europea, dove in politica si alternano al governo destra e sinistra, chiare maggioranze conserva­trici ed altrettanto autosufficienti maggioranze «progressiste». L’es­senziale del craxismo è tutto qui, e suona inammissibile eresia a fronte dei consolidati riti della mediazione e del trasformismo nazionale. L’Italia, a quasi quarant’anni dalla fine della guerra, resta l’unico paese del vecchio continente dove un governo della sola sinistra (e dell’intera sinistra) non si annunci neppure nell’orizzonte degli ipotiz­zabili. Bizzarra eccezione, che Craxi non intende subire. Nessun desti­no cinico e baro, però. La sinistra italiana è anche l’unica, infatti, a persistente egemonia comunista, e «riformista» è aggettivo screditato, adibito allo scherno e all’insulto. Si tratterà, allora, di ribaltare radi­calmente la situazione.

L’alternativa di sinistra, che diviene il dichiarato obiettivo del nuovo Psi, si legittima, del resto, quale strumento per un programma che risponda alle inevase domande del paese in termini di equità ed effi­cienza. Il «caso italiano», infatti, se sotto il profilo politico si chiama ininterrotto dominio democristiano, conosce poi, quale risvolto civile, una amministrazione pubblica di rara inefficienza, sprezzante verso il cittadino, oscillante tra spreco e corruzione.

Sovrano disprezzo per i meriti e i bisogni, si dirà poi. Lo Stato demo­cristiano tutela solo interessi e valori capaci di procurarsi «santi in paradiso» e altre protezioni.

L’orizzonte è quello d’un divario crescente fra i valori della Costituzione e la pratica materialmente vigente. L’ethos dominante è informato alle regole dell’arte di arrangiarsi piuttosto che al criterio della certezza del diritto e della buona amministrazione, e (come osserverà Nor­berto Bobbio) vera Grundnorm è il manuale Cencelli per la lottizzazione.

Un conflitto su due fronti

Perché il Psi abbia un futuro, dunque, le ostilità vanno aperte su due fronti: contro la Dc, responsabile di una mancata modernizzazione a carattere europeo, e verso il Pci responsabile, per dottrina e prassi ancora estranee alla sinistra occidentale, del congelamento di un terzo dell’elettorato.

Per sbloccare la situazione, tuttavia (altra intuizione decisiva), non può bastare un programma riformista coerente (e la corrispondenza dei fatti alle parole): è ineludibile anche una «grande riforma» delle regole elettorali e dei meccanismi istituzionali.

Le norme esistenti garantiscono assoluta proporzionalità nella rappre­sentanza parlamentare (il parlamento «specchio fedele del paese» caro a Togliatti), ma sottraggono al cittadino la scelta fra definite maggio­ranze di governo (e quindi di programma), poiché impongono il for­ marsi di una coalizione «al centro» e un quotidiano commercio sotto­ banco con le opposizioni, pena lo stallo. Ciascuno diviene titolare, in dosi più o meno massicce, di un autentico diritto di veto. Si governa mediando, e ancor più procrastinando, tra compromesso e consociazio­ne, un «tirare a campare» governativo di cui Moro sarà massima espressione. Il cittadino, rappresentato fedelmente, conta sempre me­ no.

L’anticomunismo del nuovo gruppo dirigente socialista è di solida tempra ma, soprattutto, esce fuori dagli schemi ordinari. Viene com­battuto il carattere rivoluzionario e insieme conservatore della cultura comunista, prima ancora che Berlinguer lo teorizzi. Di più. Viene mes­so a fuoco l’essenziale: la cultura dell’attesa «millenaria», che disprez­za il finito delle riforme in nome dell’infinito della rivoluzione, consen­te i più mediocri compromessi con l’esistente. Lo zucchero di una obsoleta filosofia della storia, quale risarcimento nell’immaginario per la rinuncia a trasformare e progredire hic et nunc, è l’ideologia che tiene insieme i militanti comunisti e unito il suo gruppo dirigente. Il centralismo democratico ne rappresenta la proie­zione procedurale.

Ma tutto ciò, per la sinistra, vuoi dire paralisi.

Craxi avverte, tuttavia, che la questione «partito» riguarda anche il Psi, frantumato nel caleidoscopio di correnti, cordate, personalismi, e cementato poi dalla mentalità (subalterna per logica intrinseca) del «partito degli assessori». Questa struttura umilia e respinge le energie migliori, intellettuali, sindacali, imprenditoriali, morali infine, di ampi settori della società civile che nel Psi potrebbero trovare il luogo «naturale» di impegno politico. Di qui l’ipotesi di un proliferare di club, l’idea stessa di una «area socialista» addirittura privilegiata rispetto al partito, di qui l’insistenza (autolesionista solo in apparenza) perché l’intellettuale e il militante pratichino la virtù della disorganicità.

La sfida riformista e il tramonto dell’egemonìa comunista

Proponimenti ambiziosi, quelli sommariamente richiamati. Senza i quali tuttavia – si faccia attenzione – non si sarebbe parlato di cra­xismo. In primo luogo, il nuovo gruppo dirigente socialista fa proprio solennemente il «progetto» elaborato dagli intellettuali giolittiani, ra­dicale e realistico, capace di offrire concretezza ai valori della più seria (ancorché marginale) tradizione della sinistra italiana: quella azioni­sta.

Allo stesso tempo, mentre ribadisce la necessità e il dovere di una sinistra che governi e si sostituisca alla D
c nella guida del paese, il nuovo Psi demolisce l’egemonia culturale comunista.

Il craxismo si annuncia, insomma, quale sfida riformista. Duplice sfi­da, abbiamo visto. «Con il 10% si può fare molto» non è, all’epoca, solo affermazione arrogante di una consapevole superiorità nella ma­novra tattica. Esprime, all’epoca, anche l’ipotesi che il riformismo pos­sa rivelarsi vincente contro il Pci e contro la Dc, possa aggredire, scomporre, rimescolare le tradizionali forme di consenso.

Si tratterà, nei confronti di una parte almeno dell’elettorato moderato (quella «moderna», «produttiva», meno legata a clientelismo e confes­sionalismo), di mostrare che il riformismo offre chances superiori an­che in tema di efficienza e di sviluppo. Di modernizzazione capitalisti­ ca, insomma. Anzi: che solo il riformismo è in grado di inserire il paese a pieno titolo nel contesto occidentale europeo, superando stratificate ragioni di arretratezza economica e civile.

Si tratterà, sul versante della base comunista, di dimostrare come solo la scelta riformista costituisca un’alternativa praticabile al regime de­mocristiano. E non già in termini di tattica, schieramenti, occupazione di stanza dei bottoni, ma di effettiva promozione del benessere, delle libertà, del potere di quanti lavorano, sono emarginati, risultano co­munque deprivilegiati. Si tratterà di dimostrare, insomma, che l’unica rivoluzione possibile è la prosa delle riforme realizzabili, e che essa merita largamente il sacrificio dell’ambiguo sogno rivoluzionario.

La coerenza del riformismo per realizzare la seconda Repubblica

Inquietante per gli avversari, che all’inizio ne hanno sottovalutato la portata, questa strategia craxiana, benché arrischiata, può essere vin­cente. Ad una condizione: che il suo referente resti quell’ipotetica e virtuale nuova aggregazione di consensi da suscitare giorno per giorno con la coerenza del riformismo.

Abbassare il tiro, concedere al piccolo cabotaggio, vorrebbe dire resta­ re invischiati nella mera redistribuzione partitocratica della rappresentanza. Di un consenso, cioè, sempre più stanco, disaffezionalo, espres­so ai partiti tradizionali faute de mieux, funzionale a immobilismi e consociazioni, nel cui quadro il Psi è irrimediabilmente perdente. Sotto questo profilo, fin dalle origini, il craxismo esprime l’esigenza di una seconda repubblica. Proprio per questo, del resto, abbiano in­ dicato in Craxi il protagonista della politica italiana dell’intero perio­ do successivo al ’68. Proviamo a chiarire.

La resistenza antifascista, purtroppo, è stata un fatto di ristrette élites. In chiave democratica, di ethos e istituzioni, i partiti sono nell’imme­diato dopoguerra «Un passo più avanti» rispetto alla gente.

Con la modernizzazione economica e civile del paese (cui grandemente concorrono i partiti di sinistra all’opposizione) lo scarto viene colmato e la situazione tende a rovesciarsi. Gli esiti deludenti del centrosinistra chiudono questo primo ciclo. I movimenti – non solo quello studen­tesco del ’68 e quello operaio dell’autunno caldo e dei consigli, ma anche quello per i diritti civili promosso a più riprese dai radicali – esprimono disagio per la crescente estraneità e chiusura dei partiti macchine e manifestano evidenti istanze di cittadinanza. L’acquisita maturità democratica esige vita politica attiva. Una seconda repubbli­ca, più democratica «più repubblica», appunto (e meno partitocratica).

Riprendiamo il filo. Abbiamo richiamato gli intendimenti del craxismo e la coerenza dei suoi inizi. All’epoca il craxismo viene giudicato po­litica irresponsabile, destabilizzante, avventurista. I più benevoli si domandano se tanto «estremismo» non sia solo astuzia tattica transi­toria. Specchietto per le allodole, insomma.

Sospettare delle dichiarazioni dei politici è sempre lecito, beninteso. Almeno altrettanto lecito, tuttavia, prenderne sul serio le parole e gli ambiziosi programmi e farne anzi criterio e banco di prova su cui saggiarne la prassi. Tanto più che, nella fattispecie, proprio la coeren­za del riformismo costituisce l’ingrediente decisivo della razionalità, credibilità, realismo del nuovo gruppo dirigente socialista.

Il circolo vizioso della governabilità

Veniamo, con ciò, al craxismo «seconda maniera». E asserviamone metamorfosi e continuità sospendendo il giudizio di valore, con sguar­do da entomologo.

Nel 1981 Craxi riporta il Psi al governo. Ma, si badi, in nome della continuità con la strategia in precedenza affermata. Questo è il ragio­namento: per l’alternativa (fatta astrazione dai «ritardi» comunisti) mancano comunque i numeri in parlamento. Un’anticipazione sulla via che all’alternativa conduce può, intanto, essere costituita dalla «al­ternanza». Si tratta di incalzare la Dc sul suo terreno di elezione, il governo, affermando nella pratica il venir meno di ogni subalternità. Con la «pari dignità» (e il pari potere ministeriale) prima, e con la presidenza socialista poi.

Craxi rovescia sulla Dc l’accusa di non garantire stabilità, e si fa pa· ladino della governabilità. Con due stringenti conseguenze. Che il Psi dovrà essere governativo a tutti i costi e dovrà, in modo altrettanto ineludibile, garantirsi egemonia all’interno del governo. Rispetto a questi due imperativi, nessun cedimento, nessuna libertà di manovra (malgrado le apparenze) è concessa. Il pentapartito diviene l’unica formula praticabile. Ad essa è ora condannato Craxi, più e prima di De Mita, benché sia quest’ultimo a reclamare superflue professioni di fede sul carattere «strategico» del pentapartito medesimo.

Il carattere «corsaro» di tante iniziative socialiste nasce da qui. Dentro la camicia di Nesso del pentapartito i socialisti, per non riprodurre antiche e vituperate (a ragione) subalternità, devono ricorrere alla «guerriglia» permanente contro le velleità democristiane di rivincita (confortate dai numeri, oltre tutto). E sfruttare a fondo, con micidiale spregiudicatezza, la rendita di posizione che deriva loro da una collo­cazione di frontiera.

I democristiani, quasi avessero da sempre praticato il fair play, grida­ no allo scandalo del «ricatto». Si tratta, invece, dell’intima logica di un «superpartito» di governo con due aspiranti alla leadership, nessu­no dei quali può rinunciare, pena il crepuscolo politico. Momento tattico in vista dell’alternativa, il pentapartito diviene per i socialisti un cul de sac. E infatti.

Risibile la minaccia di rovesciare le alleanze. Un accordo col Pci pri­verebbe Craxi delle vaste simpatie moderate che potrebbero domani trasformarsi in voti, e le restituirebbe alla più stretta osservanza demo· cristiana. (Risibile, reciprocamente, ogni velleità dc di aprire ai comunisti, scavalcando i socialisti. Sarebbe, per Craxi, il più opulento dei doni).

Resta il ricorso alle elezioni anticipate. O la speranza di più favorevoli rapporti di forza nella prossima legislatura. Ma i dilemmi, in un qua­dro di esacerbata rissosità, resterebbero i medesimi. Fino a che il Pci resta il primo partito della sinistra, il Psi può sceglierlo per alleato solo collocandosi all’opposizione. Una collocazione di entrambi al gover
no esige preliminarmente un Psi superiore al Pci per risultato elettorale. Fin quando, almeno, ci si comporterà col Pci secondo la logica degli esami che non finiscono mai. Una volta finiti quegli esami, però, la rendita di posizione socialista dileguerebbe, poiché anche la Dc sareb­be legittimata al giro di valzer con i comunisti.

Paradossalmente, tuttavia, il craxismo può vantare il più clamoroso e inedito dei successi. Craxi è oggi, infatti, non solo il capo del governo ma anche, e contemporaneamente, il capo effettivo dell’opposizione.

Se i democristiani si mostrano incapaci a contrastarne l’iniziativa, i comunisti giocano di rimessa (o non giocano affatto), avendolo come solo punto di riferimento. Dal punto di vista scacchistico, Craxi li ha pressoché paralizzati entrambi. In compenso, si governa poco (e male) e non ci si oppone affatto. Paralizzate risultano, in altri termini, le due funzioni essenziali della democrazia occidentale.

Il riformismo senza riforme, surrogato dell’alternativa

Il punto è un altro. Vincere a scacchi in politica non basta, se si tratti d’una politica di riforme. Quali che siano i successi, l’attuale corso craxiano costituisce un simulacro e un surrogato della politica di alter­ nativa. Il susseguirsi dei colpi di scena (e di qualche colpo basso}, il privilegio accordato alla politica in chiave di spettacolo, diventano ingredienti obbligati, poiché si tratta di sostituire, col luccichio delle apparenze, la cosa stessa. Il criterio del successo non può essere assun­to come decisivo. Se il risultato del craxismo dovesse ridursi alla sostituzione della Dc con il Psi quale partito «centrale», nel permanere di pratiche, comportamenti, politiche dei decenni trascorsi, il bilancio evidenzierebbe un mero episodio di trasformismo patrio. È invece in termini di riformismo, abbiamo visto, che i dieci anni della segreteria Craxi, e i tre anni di presidenza del governo, vanno giudicati.

Bilancio magro. I due provvedimenti governativi che più hanno inciso (e incideranno ancora a lungo) nella vita concreta del paese, restano il nuovo Concordato (arretratissimo) e la legalizzazione degli abusi edilizi (un autentico scandalo). Oltre a qualche timida innovazione fiscale, dovuta soprattutto all’iniziativa del ministro Visentini.

Parlare di surrogato e simulacro può sembrare eccessivo. Stiamo ai fatti. La riforma dei codici di procedura penale, il rinnovamento del processo civile, la riforma delle carceri, restano nei cassetti. Tutto fermo, insomma, nel pianeta Giustizia, malgrado l’urgenza da tutti riconosciuta. A surrogato, tre referendum di lega dubbia, uno dei qua­ li, certamente, lesivo dell’autonomia dei magistrati e capace, qualora venisse approvato, di sollecitare pericolosi conformismi.

Nessuna azione sul terreno dell’istruzione scolastica, benché lo scadi­ mento abbia raggiunto livelli di guardia per un paese che intenda restare nel «primo mondo». A compenso, confusi accenni di privatiz­zazione (è la confusione che preoccupa, soprattutto) buoni solo a strin­gere sodalizio con Comunione e liberazione. Nulla in fatto di alloggi, sanità, ambiente (il decreto Galasso resta merito esclusivo del sottose­gretario che gli ha dato il nome). E per quanto riguarda l’energia, una conversione tardiva (sempre benvenuta) al rifiuto del nucleare, che impegna soprattutto a rompere il patto di «staffetta» con la Dc, piuttosto che a precisare un alternativo piano energetico da parte del go­verno. Di trasformare il partito non si parla più, confermando il sospetto che la scelta della governabilità celasse non solo spirito di servizio verso gli interessi generali del paese ma anche, più prosaicamente, l’incapa­cità del Psi, pur nella nuova versione, di reggere a lungo fuori del governo. Una resa al «partito degli assessori», insomma.

Invece di puntare alla leadership dell’opposizione, rovesciando all’in­ terno di essa l’egemonia comunista e rendendo per questa via plausi­ bile un governo di alternativa (è quanto accade in Francia e Spagna), Craxi decide per la rendita di posizione, punta tutto sul ruolo di ago della bilancia di un sistema immobilistico. Poteva replicare Mitterrand e Gonzales. Preferisce Ghino di Tacco. Lucra sui difetti dell’attuale sistema politico, ma in tal modo li perpetua e se ne fa garante.

Né vale l’obiezione che il modello francese e spagnolo fosse irripetibile. Non di un modello si tratta, infatti. L’alternativa di sinistra si rea­lizza, in quei paesi, sotto condizioni diversissime. Un terzo episodio, nelle inedite circostanze italiane, non era perciò affatto da escludere. Semplicemente: non è stato tentato.

La rinuncia alla trasformazione istituzionale

Ma soprattutto: della Grande riforma elettorale e istituzionale dilegua anche il ricordo. Resta un topolino: l’abrogazione del voto segreto in parlamento, contro il malcostume dei franchi tiratori. Effettivo malco­stume, e censurabilissimo, ma anche ultima e pallida (benché distorta) garanzia dell’indipendenza del deputato rispetto al proprio partito. Le misure previste, da sole, rendono trasparente il comportamento degli onorevoli allo sguardo vigile delle segreterie, più che al controllo del cittadino, e annientano la speranza che il deputato torni ad essere il rappresentante della Nazione (secondo l’articolo della Costituzione). La rinuncia alla Grande riforma costituisce la metamorfosi più grave – vera e propria svolta riassuntiva degli altri cedimenti – dell’origi­nario riformismo craxiano. Resta in piedi, e si perpetua, il «caso italiano», inteso in tutta la sua negatività. Quale luogo geometrico dell’inefficienza amministrativa (dal fisco agli ospedali, e via enumerando), della illegalità a macchia d’olio, della eclissi del cittadino.

Intere zone del paese obbediscono a quel vero e proprio ordinamento «giuridico» (così Kelsen) rappresentato da una criminalità organizzata capace non solo di far rispettare la propria «legge» ma anche dì otte­nere consensi di massa (oltre che complicità nei partiti e negli organi­smi pubblici). Uno Stato nello Stato, insomma, con il quale lo Stato tout court, in mano ai partiti, sembra rassegnato a convivere, benché mafia e camorra rappresentino un’emergenza e una sfida di gran lun­ga più pericolosa di ogni terrorismo.

Del resto, quale possibilità di lotta contro la criminalità se i partiti che governano (compreso il governo delle autonomie locali), a fronte del taglieggiamento mafioso su gioco d’azzardo, droga, appalti e commercio, vantano il taglieggiamento da tangente, a tariffe pubblicamente note, più trasparenti delle quotazioni in borsa?

E non si parli di moralismo e di demagogia. Perfino il verbiage socio­logico del Censis, apologetico cantore delle magnifiche sorti del «sommerso» (in lingua volgare: imprenditori che non pagano tasse e sfruttano lavoro nero), scopre la questione moral e. Parla di decine di mi­gliaia di amministratori pubblici dediti alla tangente, denuncia l’incal­colabile inefficienza, gli sprechi, l’altissimo danno economico, insom­ma, della violazione del Codice in nome della «ragion di partito». Panorama levantino, eterna Italia dei «furbi» e dei sudditi, altro che avvicinamento all’Europa.

La partitocrazia sottrae al cittadino la politica e, insieme, lo addestra alla irrisione della legalità. In nome, magari, di «legge e ordine».

Tra rendita di posizione e rinascita del cittadino

Amara la conclusione. Il Partito socialista sembra aver rinunciato a quelle novità che potevano renderlo protagonista. A farsi promotore di una seconda repubblica fondata sulla rinascita del cittadino e sull’e­quità sociale. Fuori di tale prospettiva, resta altamente problematica la possibilità stessa di rimescolare l’attuale – stabile e stagnante – ripartizione della rappresentanza. Solo privilegiando il cittadino e ri­dimensionando il potere dei «padroni della politica», infatti, possono mutare in profondità anche i rapporti di forza fra i partiti e le relative quote elettorali. Proprio per questo abbiamo parlato, a proposito del­ l’originario progetto craxiano, di razionalità e di realismo.

Conclusione amara, perciò. Ma davvero definitiva? In queste settimane le mosse «Corsare» da parte socialista si vanno moltiplicando e non è detto che non preludano ad un congedo dalla formula di pentapartito. Così come si vanno moltiplicando i segnali di un possibile dialogo con il Pci. Sia chiaro, tuttavia, che la scelta fra riformismo e immobi­lismo non si gioca in termini di schieramento e che l’incontro fra socialisti e comunisti non mette affatto al riparo – di per sé – dal rischio di un profilo basso di accordi (parziali e non} che pur maturassero.

Tanto basta, comunque, per riconoscere come il craxismo sia, oggi, esperienza dagli esiti ancora aperti. A suo merito, probabilmente irre­versibile, può vantare una vera e propria «rottura epistemologica»: il declino della Dc quale obbligato centro di gravità degli equilibri politici. Poiché il risultato è stato ottenuto in assenza di un impegno riformatore, in forza di abilità tattica e dì superiorità nella manovra poli­tica «pura», il destino del craxismo sì gioca tutto nella prossima legislatura e in questi mesi che la preparano.

Conta poco, infatti, che cambino le élites, gli uomini nelle stanze dei bottoni, il partito che occupa il «centro», se il gioco rimane lo stesso e i cittadini continuano a restarne esclusi, spettatori apatici la cui disaffezione ed estraneità viene magari spacciata per consenso. E perfino un radicale mutamento di alleanze, una ritrovata unità a sinistra, non garantisce affatto dal pericolo della deriva conservatrice, priva di energia riformatrice, interna alla logica della attuale Repubblica dei partiti, incapace di por mano alla indilazionabile opera di rifondazione tanto della Repubblica che della sinistra. Quest’ultima non è affatto immune da mentalità e vizi tipici della sindrome dorotea.

Si tratterà di vedere quale sarà la scelta strategica del craxismo in questo scorcio di legislatura. E se l’interlocutore resterà, come oggi, il «Palazzo» con i margini di potere che offre ancora alle mediocri ambizioni di un Psi dedito a sfruttare una rendita di posizione, o se l’interlocutore privilegiato verrà cercato fuori, nella gente, sulla base di un programma e di uomini credibili e affidabili (anche moralmente) per realizzarlo con coerenza. Solo questo secondo scenario consente la speranza, del resto, che venga spezzato l’incantesimo del 10% e che il Psi possa aspirare, anche numericamente, a un destino di socialismo europeo.

In tal caso sarà possibile riconoscere fondatezza alla tesi (oggi benevola e ottimistica) che vuole considerare parentesi tattica, nella comples­siva vicenda del craxismo, la prassi deludente e rinunciataria di questi tre anni di governo. Non si tratta di «tornare al Midas», quasi che dieci anni non avessero lasciato il segno. Ma certamente di aggiornare sotto il profilo programmatico proprio l’ispirazione ideale e le intuizioni che nei giorni successivi al Midas caratterizzano il nuovo Psi e costituisco· no non solo l’originalità del craxismo ma la sua razionalità.

Non pochi fra i più accesi tifosi attuali di Craxi lo bollarono allora quale destabilizzatore in preda a irresponsabili farneticazioni «libertarie». Ma è semplice lucidità, a dieci anni di distanza, ritenere che di quel progetto, di quelle riforme (anche se non sempre di quegli uomi­ni), la democrazia italiana continui ad avere bisogno. Le ragioni della sinistra, come ragioni di un riformismo coerente, restano più che mai all’ordine del giorno, per una seconda Repubblica dei cittadini.

(21 gennaio 2020)



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