Le nefandezze di Montanelli e i fratelli Conte
Fausto Pellecchia
Le aspre polemiche suscitate dalle proteste antirazziste, innescate dall’uccisione a Minneapolis di George Floyd da parte di un poliziotto, sono ben presto divampate in molte città e ben oltre i confini degli USA, con manifestazioni nelle piazze di tutto il mondo Com’è noto, attualmente il centro del dibattito è rappresentato soprattutto dai monumenti e dalle statue che commemorano periodi storici e personaggi legati ai temi del razzismo e del colonialismo, “simboli” che, in numerose città del mondo, vengono abbattuti come già è accaduto ai monumenti dedicati a Cristoforo Colombo a St. Paul in Minnesota, a Jefferson Davis in Virginia e a Bristol, con la rimozione della statua del mercante e commerciante di schiavi Edward Colston. Ultimamente le polemiche infuriano anche in Italia, da quando il movimento “laico e antifascista” dei Sentinelli, in una lettera indirizzata al sindaco Sala, ha chiesto la rimozione della statua di Indro Montanelli dai giardini di via Palestro, con la motivazione che il giornalista (deceduto nel 2001) «fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di 12 anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l’aggressione del regime fascista all’Etiopia». In verità, ben oltre l’episodio contestato, Indro Montanelli non ha mai nascosto, anche in età matura, le sue inclinazioni razziste, tentando persino di giustificarle con acrobazie dialettiche che costituiscono un delitto innanzitutto nei confronti della sua intelligenza, oltre che un insulto ai fondamenti della civiltà democratica.
Il 3 ottobre 1962, sul Corriere della Sera, Montanelli commentava le proteste dei segregazionisti contro l’iscrizione all’Università dell’afroamericano James Meredith, con queste parole: «Gli studenti bianchi di Oxford, opponendosi all’ingresso del loro collega Meredith nell’Università, hanno commesso un errore e un sopruso perché un privilegio di razza nel campo dei diritti politici e civili è inaccettabile e indifendibile. Tuttavia questo errore e questo sopruso sono stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo è legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca. So di tirarmi addosso, scrivendo queste parole, fulmini e saette. Ma non è colpa mia se un’esperienza di secoli ha dimostrato che il meticciato tra bianchi e neri ha dato e seguita a dare il più catastrofico dei risultati». E ancora nel 1978, allarmato dalla strategia politica di Aldo Moro, Montanelli non esitava a lanciarsi in una capziosa disquisizione in favore della dittatura cilena di Pinochet, fino ad auspicare anche in Italia una guerra civile per eliminare i comunisti: «Meglio un conflitto civile in cui il PCI verrebbe distrutto. Il sangue scorrerebbe, ma il PCI verrebbe sconfitto. […] Forse l’Italia avrebbe una democrazia del tipo di Pinochet. Quella sarebbe una prospettiva infernale, ma meglio che un governo con il PCI: un governo autoritario della destra sarebbe più desiderabile di un governo dei comunisti». Insomma, il grande Indro non si liberò mai definitivamente dalle nostalgie fasciste e razziste, sia pure espresse con la tipica cautela del “male minore”, secondo la strategia del “turarsi il naso” difronte agli errori e agli orrori delle dittature e del colonialismo.
Per questo, la damnatio memoriae che alcuni gruppi femministi (Non una di meno), la Rete Studenti Milano e LuMe (Laboratorio universitario Metropolitano) hanno voluto comminare alla statua di Montanelli, imbrattandola di vernice rossa, con la scritta “razzista stupratore”, al di là della sua ingenua immediatezza, ha avuto almeno il merito di aprire un dibattito anche in Italia sulle questioni del razzismo e del fascismo che si trascinano storicamente dall’approvazione della Costituzione della Repubblica e avvelenano ancora l’ideologia politica nel nostro Paese.
Nella città di Cassino – ben lontana dall’affrontare questioni così apicali, che attengono ai valori della democrazia e della civiltà giuridica – si è assistito ad un clamoroso paradosso politico, rimasto ancora avvolto nelle spire di un sonnolento disinteresse, che gli storici locali hanno contribuito ad alimentare sotto la coltre della retorica patriottico-campanilistica.
Alludiamo dall’opposto destino di due fratelli cassinati, nativi di S.Pietro infine: Giovanni e Nicandro Conte. Il primogenito Giovanni si arruolò volontario nel 1936, ad appena ventitré anni, come semplice “camicia nera”, unendosi al corpo di spedizione in Spagna durante la guerra civile, in appoggio alle truppe nazionaliste del generale Francisco Franco. L’anno successivo, integrato con il grado di sottotenente, cadde eroicamente in combattimento nella battaglia di Aragona e fu insignito della medaglia d’oro al V.M. alla memoria. Naturalmente, l’alto riconoscimento gli fu assegnato dal governo fascista dell’epoca, come attesta la motivazione nella quale, accanto all’elogio per il suo coraggio e la sua determinazione, si legge tra l’altro: «Riuscito vano ogni intervento medico, spirava serenamente dedicando i suoi ultimi pensieri alla Patria e al Duce. Magnifica figura di ufficiale e di fascista». Un’analoga onorificenza al v.m. gli fu conferita anche dal governo spagnolo del generalissimo Franco nel 1940, dopo della sanguinosa guerra civile che legittimò il suo golpe del 1936 e segnò l’inizio della sua dittatura militare. Le spoglie di Giovanni riposano attualmente nel sacrario militare di Saragozza.
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