Le parole consapevoli come arma invincibile di cittadinanza

Marilù Oliva


La lingua non è un monolite sempre uguale a se stesso, ma un essere vivente in continua trasformazione. La direzione di questa trasformazione non la decidono certo i linguisti, ma coloro che la lingua la usano ogni giorno. A maggior ragione va conosciuta, padroneggiata e maneggiata con responsabilità. Uno studio di Vera Gheno.


Esattezza, trasparenza, rispetto. Questo chiedono le parole, oggi bistrattate e trascurate, certo non utilizzate nelle loro potenzialità. Ci ritroviamo talvolta come una persona che, invitata a un lauto banchetto, per paura di sbagliare a scegliere si limita a sorseggiare un bicchiere d’acqua. Abbiamo a disposizione un patrimonio ricchissimo, stratificato, incalcolabile: eppure ce ne serviamo in parti irrisorie, vuoi per indolenza, per paura o per imperizia. Ciò è nocivo alla comunicazione, ma prima di tutto alla democrazia.
Cosa c’entra questo atteggiamento con la democrazia? C’entra eccome, visto che la competenza linguistica è lo strumento che ci permette di esprimerci, di difenderci, di essere a pieno titolo cittadini del nostro tempo: «La democrazia ha bisogno di persone che capiscano ciò che succede loro attorno, non di succubi che possono facilmente essere incantati dal primo imbonitore che sceglie oculatamente le parole per colpire alla pancia invece che alla testa». Sono parole estratte da Potere alle parole (Einaudi, 2019), un libro in cui la sociolinguista Vera Gheno sostiene l’importanza della lingua, della padronanza sulla stessa, realizzando un prontuario di base per colti e incolti, denso anche di approdondimenti, aneddoti, incursioni nei dialetti e nei forestierismi, collegamenti (benedetti!) con la vita reale, insomma: una sorta di grammatica destrutturata, che – pur basandosi sul presupposto scientifico e argomentativo del saggio – si legge con la piacevolezza propria dei romanzi.

Il lettore scoprirà le funzioni del nostro codice, le sue variegate possibilità, i tranelli, le storpiature, le forzature, l’importanza degli attori (e del destinatario, che spesso poniamo erroneamente in secondo piano), le regole e – rivelazione bellissima per chi è spaventato dalla rigidità – la natura malleabile del nostro idioma, che non è un monolite inespugnabile, anzi: muta coi tempi e con l’uso, si trasforma nell’oralità, si fa beffe, talvolta, di pedanti e aristotelici, quelli che si appellano al principio di autorità per la conservazione di una regola: «Alla faccia di tutti i pedanti: occorre ricordare, ci piaccia o meno, che le lingue non sono solitamente create a tavolino, e che il sistema della norma, pur dovendo senz’altro molto alle indicazioni dei linguisti, si realizza prima di tutto tramite l’uso vivo delle persone».

Ciò non significa naturalmente che si possa disimparare la grammatica o cavalcare allegramente gli strafalcioni. Alcuni errori vanno evitati perché sono conclamati e ci esporrebbero a una brutta figura, ma al bando troppa rigidità: la vera libertà è essere in grado di utilizzare, in ogni situazione, il registro linguistico più appropriato. Sceglierlo con cognizione, ma anche difenderlo. Perché la lingua subisce – quotidianamente e su molti fronti – diversi attentati ed è giunto il momento di cominciare a smetterla di discolparci e scaricare sempre la colpa sugli altri, dal momento che, come dichiara l’autrice, «gli unici responsabili della salute della nostra lingua siamo noi».
(23 settembre 2019)





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