Le ragioni di una rinuncia: una agenda per una Chiesa che vuole rinnovarsi
di don Raffaele Garofalo
L’11 febbraio 2013 è una nuova data consegnata alla storia. Si sovrapporrà a quella più remota del 1858, delle apparizioni di Lourdes, e all’altra più nota dei Patti Lateranensi del 1929. Il gesto del papa che abdica ha richiamato in molti la memoria della rinuncia di Celestino V, ma il messaggio dei protagonisti si differenzia notevolmente sul piano storico ed ecclesiale. Celestino rinunciava subito a un potere che avvertiva estraneo alla spiritualità evangelica, alla libertà di un cristiano. “La tentazione della Chiesa è la tentazione del potere”, gli farà dire Silone. Papa Benedetto giungeva a tale conclusione dopo essere stato lui stesso un uomo di potere, destinato alla fine a diventarne vittima. Molte posizioni teologiche e pastorali sorte dai documenti conciliari sono state da Ratzinger trascurate, avversate, soprattutto nella veste di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
“Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di scelte difficili”ha detto di sé Ratzinger per spiegare l’ultimo evento del suo pontificato. Se la sua è stata una scelta di libertà, tanti altri nella Chiesa sono stati messi nelle condizioni di dover fare “scelte” non altrettanto libere durante il loro percorso di fede. Tra i molti il teologo Hans Kueng, compagno di Ratzinger all’università di Tubinga, al quale nel 1979 fu revocata da Wojtyla l’autorizzazione a insegnare la teologia cattolica. Leonardo Boff, sostenitore della Teologia della Liberazione, nel 1984 fu condannato dallo stesso Ratzinger al “silenzio ossequioso”.
Benedetto XVI non ha dato all’Istituzione la svolta che ci si aspettava da un papa teologo. Come il predecessore non ha portato a termine le disposizioni di un Concilio che Giovanni XXIII considerava solo “l’aurora” del nuovo giorno. Ripetutamente dai teologi e dalle comunità di fede gli è stato tracciato il sentiero che la Chiesa dovrebbe percorrere per un annuncio credibile del vangelo all’inizio del nuovo secolo. Ratzinger non lo ha percorso. Non ha favorito il ritorno della Chiesa alla povertà in una reale condivisione e vicinanza ai poveri del mondo; non è stata attuata una conduzione collegiale della nave di Pietro, secondo la consuetudine delle origini, restituendo alle Chiese locali l’elezione dei propri vescovi e sacerdoti; non c’è stata una vera parità tra i sessi con l’accesso delle donne alle cariche ecclesiali; è stata disattesa la riconsiderazione dei temi della sessualità, della bioetica, dell’apertura ai divorziati risposati di cui Benedetto aveva promesso di interessarsi personalmente all’inizio del pontificato; non è stata restituita ai religiosi la libertà del celibato ecclesiastico; non è stato riconosciuto che il matrimonio poggia essenzialmente nell’unione di due anime … e che la diversità dei sessi è richiesta ai fini della procreazione, non di un reciproco amore tra persone; la Chiesa rifiuta di ammettere che l’omosessualità trova legittimazione nella “natura” di ognuno e nel “volere divino”, per coloro che affermano di credere.
Al traguardo della vita, avvilito dalle controversie e dagli scandali vaticani, Benedetto ha preferito riappropriarsi di uno spirito di cristiana libertà. Dalla finestra del suo studio il papa lanciava le colombe della pace, ma dalle porte del suo appartamento entravano e uscivano i corvi della discordia. Ai più fidati, che premevano perché prendesse provvedimenti, rispondeva risentito, nella sua lingua:” Es ist besser nicht!”, secondo il suo carattere “timido ma ostinato”. Una resa. Se si scorre il percorso dottrinale del suo pontificato, la sua decisione finale può essere letta come un rifiuto della modernità. Ratzinger ha sempre condannato in modo esplicito la società, a suo parere, “senza Dio”; guardava con diffidenza il mondo laico di cui non riconosceva i valori. Solo alla fine ammetteva, con amarezza, che “di Dio si fa un uso strumentale, dando più importanza al successo o ai beni materiali”, ma un uso inappropriato di Dio è anche quello di servirsene per riprovare chi non condivide la concezione rigorosamente “cattolica” dei valori del Cristianesimo, della spiritualità. In uno spirito poco ecumenico Benedetto lo ha fatto, durante l’intero pontificato, nei confronti delle altre religioni, del Protestantesimo, dell’Ebraismo e dell’Islamismo dei quali maggiormente evidenziava i limiti più che i valori condivisi. Ha ripetutamente demonizzato il Relativismo culturale, una ricchezza del pensiero umano, che il papa identificava, forse, col relativismo morale.
Ratzinger ha trascorso molto tempo a scrivere libri “edificanti” sulla vita di Cristo che poco aggiungevano alla semplicità dei Vangeli aperti a sempre nuove scoperte, uno stimolo per la mente del cristiano. Per ammissione di molti osservatori, si è dedicato meno al governo effettivo della Chiesa e demandava al cardinale Tarcisio Bertone la gestione degli affari di Curia. Il dinamismo disinvolto del Segretario di Stato, le congiure tramate intorno a lui e rese pubbliche dal caso Vatileaks assestavano un colpo violento, definitivo alla fragilità dell’uomo. Non era necessaria l’esperienza del teologo per capire che l’infedele maggiordomo fosse ispirato da qualche cardinale piuttosto che dallo Spirito Santo.
Va riconosciuto al papato di Ratzinger il merito di aver elevato il livello culturale di una teologia che vuole misurarsi col pensiero moderno, coniugare “fede e ragione”, ma lo sforzo finiva per arenarsi nell’ambito della discussione accademica. Il teologo rifuggiva dal trarne conseguenze di carattere dottrinale nel timore di dover pagare il prezzo dovuto. Secondo la più tradizionale teologia cattolica dal confronto ci si aspettava, pregiudizialmente, la capitolazione dell’altro. Merito di Benedetto è anche aver preso le distanze da un’ azione pastorale basata sull’uso massiccio e disinvolto dei media, sull’esposizione abusata della propria immagine, se gli si concede l’indulgenza nella cura dei paramenti e dell’abbigliamento personale. La sua formazione teologica non ha dato spazio alle numerose apparizioni di madonne che amavano la scena durante il pontificato di Wojtyla, non ha alimentato una devozione difforme dalla sobrietà della figura di Maria raccontata dal Vangelo.
Nell’epilogo della sua vita, Ratzinger non vuole offrire al mondo lo spettacolo della propria sofferenza. Compie il gesto umano di riconoscere i propri limiti: una lezione alla società che promuove il mito dell’eterna giovinezza ed efficienza e cerca di nascondere i segni dell’età. Una tale ammissione di debolezza finisce per attribuire qualcosa di rivoluzionario alla figura di un papa decisamente legato al passato, a un concetto, in ultima analisi, preconciliare di Chiesa.
“Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà. Una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che da spazio alle persone capaci di pensare in modo aperto”. E’ un’ ultima testimonianza del cardinale Martini.
Il successore di Benedetto dovrà far sue le parole del cardinale scomparso, raccogliere il messaggio implicito nel gesto di Ratzinger per mettere in atto una radicale riforma della Chiesa, a partire dalla curia romana. Il papa non ha bisogno di collaboratori incapaci d
i un leale confronto all’interno della comunità ecclesiale. Tutti i papi hanno avuto avversari nella cerchia dei curiali. In tempi preconciliari si tramava nell’oscurità. Con l’apertura di Giovanni XXIII i contrasti affioravano maggiormente in superficie. Gli avversari di papa Roncalli chiamavano, beffardamente, “Falcem in terris” l’enciclica del papa sulla pace, ma lui non demordeva, disarmava il card. Ottaviani e altri con la determinazione e la bonarietà del carattere.
I cardinali appaiono sempre più residuo di un folklore anacronistico nonostante, in maggioranza, siano uomini formatisi sui testi del Concilio Vaticano II. I promotori di quella Riforma auspicavano una Chiesa “a servizio”, lontana da conflitti di potere, da onorificenze. Raccomandavano la semplicità di riti e paramenti, l’abbandono di cerimonie trionfalistiche. Fedeli a quei principi usciranno dai “sacri palazzi” per svolgere la loro missione nelle diocesi del mondo nell’opera pastorale diretta. Abbandoneranno i Dicasteri, le Istituzioni di cui sono a capo quali l’Opus Dei, Comunione e Liberazione, Sant’Egidio, i Cavalieri di Colombo, i Legionari di Cristo, lo IOR, lobbies chiacchierate a forte caratterizzazione economica e stridente impronta militarista …
Come scrive Famiglia Cristiana la prima bonifica che si impone al nuovo papa è trasformare la banca vaticana in una banca etica.
I documenti ufficiali della Chiesa saranno affidati a commissioni di teologi in collaborazione con i vescovi e le loro comunità, non a personale di Curia distante dalle reali necessità dei fedeli. Si faccia tesoro dell’esperienza spiacevole di Benedetto che, nel viaggio in Africa, condannava l’uso del profilattico mentre i missionari stessi e le suore del Continente lo distribuiscono ai malati per arginare la piaga dell’Aids. A Regensburg il discorso rivolto all’Islam doveva essere preparato da religiosi che vivono quotidianamente a contatto con le comunità musulmane.
La missione del papa dovrà tornare ad essere quella di vigilanza nella guida della Chiesa, ma le decisioni spetteranno ai vescovi depositari di un’eredità lasciata da Cristo agli Apostoli. Pietro aveva l’autorità di “confermare” la comunità, ma tra gli Apostoli esisteva un rapporto di parità e di collaborazione. “Quando Pietro venne ad Antiochia”, scrive Paolo, ”mi opposi a lui affrontandolo direttamente a viso aperto, perché si era messo dalla parte del torto”. Se ne gloriava. Non per vanità, ma per affermare il diritto spettante ad ogni cristiano. Il papa non sarà più il “pontefice” erede di imperatori, monarca assoluto di un potere temporale ma “primus inter pares”. Come Pietro.
Nel massimo frastuono dei media, il mondo cattolico ha trasformato in occasione di autocelebrazione un evento increscioso ammantato di retorica e di mistificazione. Il mondo ha bisogno di altre attenzioni. I problemi di estrema urgenza non riempiono i telegiornali come le vicende vaticane. Cristo sembra essere morto per farci assistere all’Angelus in piazza San Pietro e ascoltare le campane della Basilica, un’ esperienza indimenticabile per i turisti della domenica.
Prima di “salire sul Monte” Ratzinger ha denunciato con amarezza che “il volto della Chiesa è deturpato” da rivalità e scandali e che i suoi peggiori nemici si annidano al suo interno. Durante la Via Crucis al Colosseo, davanti alle telecamere, aveva parlato di “sporcizia” nel mondo ecclesiastico.
La sua rinuncia è anche il gesto di chi “scuote la polvere dai suoi calzari”.
Il nuovo papa si è affacciato al balcone di san Pietro. Porta con sé i poveri del mondo e sarà vero. La folla lo ha acclamato. Francesco rifiuta la sontuosità, ama la ricchezza evangelica. Non si è definito papa ma “vescovo di Roma”, una apertura alla collegialità. Sono scese ombre sul suo operato durante la dittatura del generale Videla, quando molti gesuiti della Provincia argentina appoggiavano il regime e i pochi che difendevano i diritti umani venivano imprigionati e torturati, con l’accusa di essere guerriglieri. Nel 2000 il cardinale riconosceva pubblicamente le responsabilità della sua Chiesa: “Siamo stati indulgenti verso le posizioni totalitarie … Attraverso azioni e omissioni abbiamo discriminato molti dei nostri fratelli, senza impegnarci abbastanza nella difesa dei loro diritti. Supplichiamo Dio che accetti il nostro pentimento e risani le ferite del nostro popolo”. Bergoglio non sarà un papa rivoluzionario…, non aprirà alle questioni etiche, non rimetterà in discussione “i principi non negoziabili” ma, come Francesco, è stato chiamato a “ricostruire” la Chiesa di Cristo. Non potrà tradire questa missione. Cominciando dalla Curia romana.
(21 marzo 2013)
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