Le sfide della disuguaglianza. Intervista a Thomas Piketty

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Le disuguaglianze come elemento strutturale delle società umane e le ideologie come motori di trasformazione del mondo. In questa conversazione con Josep Ramoneda l’economista francese parla del nuovo saggio “Capital et idéologie”, una storia dei regimi diseguali e dei sistemi di giustificazione delle disuguaglianze, e spiega il suo progetto di “socialismo partecipativo” del XXI secolo, ancora più attuale nel mondo post pandemia.

Thomas Piketty in conversazione con Josep Ramoneda*

Josep Ramoneda: Ha appena pubblicato che, per dirla con le sue parole, è «una storia ragionata delle sfide della disuguaglianza a partire dalle antiche società trifunzionali[1] e schiaviste a quelle ipercapitaliste e post-coloniali moderne». Le disuguaglianze come elemento strutturale delle società umane e le ideologie come motori di trasformazione del mondo. Su queste due pietre costruisce il suo edificio.

Thomas Piketty: L’obiettivo di questo libro è quello di presentare una storia dei regimi diseguali e dei sistemi di giustificazione delle disuguaglianze. Il libro si focalizza sulla necessità di prendere sul serio le ideologie che stanno dietro l’organizzazione sociale, economica e delle disuguaglianze. Significa che la storia delle disuguaglianze ha a che vedere con il modo in cui la giustizia è concepita da queste ideologie sottostanti. Sono le ideologie che possono trasformare la realtà delle disuguaglianze.

Ramoneda: Se c’è una cosa che il liberismo e il marxismo hanno in comune è la priorità riconosciuta all’economia: in termini classici, la determinazione economica in ultima istanza. Lei, al contrario, guarda alla sovrastruttura: l’ideologia è il motore della storia.

Piketty: Cerco di sviluppare una visione della storia e del cambiamento storico in cui la lotta di classe è importante ma in cui la lotta ideologica può esserlo anche di più. Il posizionamento sociale, di classe, anche se è molto importante, non sostituisce la determinazione di una teoria della proprietà o di una teoria della giustizia, dell’educazione giusta o dei confini giusti. Sono questioni complicate e nessuna avrà la risposta perfetta su cosa è un sistema di proprietà perfetto o un sistema di frontiere o fiscale perfetto. Perciò ci sarà sempre una forma di indeterminazione ideologica, anche se il posizionamento sociale e il conflitto di classe sono molto importanti nell’insieme di queste trasformazioni. Nei momenti di crisi ci sono sempre state diverse traiettorie possibili. In questo libro insisto su questo quando rileggo la Rivoluzione francese o il periodo tra le due guerre mondiali o la Rivoluzione bolscevica. Ci sono traiettorie diverse che si sarebbero potute seguire. Ed è qui che i rapporti di forza materiali sono importanti, ma i rapporti di forza intellettuali lo sono anche di più. Io cerco di unire entrambi e dare loro un’opportunità.

Ramoneda: L’idea del progresso come emancipazione si è eclissata negli ultimi tempi, come se fossimo intrappolati in un presente continuo. Possiamo dire che la crisi è un passaggio inevitabile per avanzare rispetto a una nuova definizione di progresso, a una visione di futuro della società?

Piketty: È vero che, storicamente parlando, le crisi sono state importanti nella riduzione delle disuguaglianze. Nel XX secolo questa riduzione non è stata unicamente il prodotto del suffragio universale che porta alla socialdemocrazia. Sarebbe stata una bella storia ma sfortunatamente le cose non stanno così. Per esempio, agli albori della prima guerra mondiale, i proprietari francesi e britannici accumulavano asset finanziari nel resto del mondo su una scala che non si è ripetuta più. Francia e Regno Unito, fino alla prima guerra mondiale, avevano l’equivalente di uno o due anni di entrate nazionali in termini di asset. Questo ha prodotto tante entrate in termini di dividendi e utili per i proprietari francesi e britannici, al punto che questi due paesi tra il 1880 e il 1914 potevano permettersi un deficit commerciale permanente pari al 2-3 per cento del prodotto interno lordo; poiché avevano entrate provenienti da utili, da dividendi dell’ordine del 5 per cento e fino al 10 per cento del pil non solo potevano finanziare questo deficit commerciale ma potevano persino continuare a comprare. C’era una contraddizione nel regime di accumulazione capitalistico e nel regime internazionale. Ma la Germania, che era diventata la prima potenza del Continente in termini demografici e industriali, era molto inquieta nel trovarsi in coda quanto ad asset all’estero e sul piano coloniale, cosa che ha contribuito a produrre il disastro che sarebbe venuto poi. Attualmente, le contraddizioni sono di altra natura. Abbiamo altri tipi di contraddizioni in Europa, oggi. L’Unione europea è un laboratorio di globalizzazione. Se qualcosa ha fatto sì che l’Ue non funzioni è la globalizzazione generale e i meccanismi di scambio commerciale, finanziari. Come limitiamo la crescita delle disuguaglianze? Come lottiamo contro il riscaldamento climatico? Ciò che mi preoccupa di più è la seguente contraddizione: l’Unione europea e la globalizzazione sono presumibilmente al servizio della prosperità delle classi popolari e delle classi medie, però queste non credono che sia così. Chi ha votato per la Brexit? Guardando al tipo di reddito e di patrimonio, vediamo che solo il 10-20 per cento dei redditi dai patrimoni più elevati ha votato per rimanere nell’Ue. Però, dato che solo il 60 per cento dei più poveri ha votato allo stesso modo, il totale dei voti non è stato sufficiente. Si potrebbe dire che i britannici sono nazionalisti, imbecilli, eccetera però non si tratta di questo. Abbiamo esempi analoghi in Francia. Per esempio, il referendum del 1992 sulla ratifica del Trattato di Maastricht, vinto per un soffio (col 51 per cento dei voti), e quello del 2005 sulla Costituzione europea, rifiutato dal 55 per cento dei votanti. In tutti questi casi abbiamo un clima sociale molto forte. Il 50-60 per cento dei più poveri è contrario all’Ue. Io ho votato a favore, perché sono confederalista, credo che il federalismo egualitario possa ridurre le disuguaglianze. Ma qui sta la contraddizione che può generare crisi, perché il fatto che la maggioranza vorrebbe uscire dall’Ue può generare crisi finanziarie, sociali, come quella che si è prodotta in Francia l’anno scorso con i gilet gialli e che perdura ancora oggi; mentre la questione della Catalogna è una crisi di altra natura.

Ramoneda: Sfiducia nel processo di globalizzazione, sfiducia nei poteri globali, sfiducia in dirigenti politici incapaci di porre limiti al potere economico. La democrazia liberale retrocede.

Piketty: Sì, direi che negli anni Ottanta e Novanta siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, molto più diseguale, a causa della deregolamentazione molto forte degli scambi e dei flussi finanziari. Penso che la libera circolazione dei capitali, specialmente in Europa, senza regolamentazione fiscale, senza possibilità da parte degli Stati di sapere chi possiede cosa e dove, in quale paese, senza un progetto – diciamo – di giustizia sociale, eccetera, abbia creato le condizioni, anni dopo, per una grande incomprensione. In Francia, l’attuale governo dice alle classi medie e popolari che non è colpa sua, che non sa dove stanno i grandi patrimoni e che quindi, loro, le classi immobili, dovranno pagare di più, perché stanno lì e non possono andare da nessuna parte. Ciò produce la risposta di queste classi, che a un certo punto pensano sia meglio tornare
allo Stato nazionale però non vogliono che ciò si traduca politicamente, perché non credo che le classi popolari stiano invocando autoritarismo. Se osserviamo l’evoluzione del voto dal punto di vista dell’istruzione, negli anni Settanta – negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia – erano le fasce meno istruite a votare i partiti socialdemocratici. Ora, sono i segmenti più istruiti. Secondo me, ciò è dovuto all’incapacità dei partiti socialdemocratici di rinnovare il proprio programma così come il proprio modello di riduzione delle disuguaglianze.

Ramoneda: In questo contesto si evocano spesso gli anni Venti e Trenta del secolo scorso che diedero luogo alla grande trasformazione[2]. È un paragone ragionevole che aggiunge qualcosa?

Piketty: In senso stretto non è del tutto fondato. Mi riferisco alla situazione degli anni Venti e Trenta, quando le potenze europee erano sul punto di invadersi a vicenda per recuperare i propri paesi coloniali. Oggi ci troviamo in una situazione molto diversa. La questione del ripiegamento nazionalista identitario, vale a dire il ritorno alle frontiere dello Stato-nazione come una soluzione, è un punto che sfortunatamente questi due periodi condividono. Questo, sì, mi preoccupa. Attualmente ci troviamo in una situazione in cui, grosso modo, i gruppi privilegiati continuano a difendere l’Ue, però non viene presa sul serio la realtà del nazionalismo identitario. Vale a dire che continuano a immaginare che questo divorzio delle classi popolari e delle classi medie rispetto alla globalizzazione e all’Europa sia solo un malinteso e che la cosa si risolverà. Io non penso che lo farà da sé. Credo che se non cambierà profondamente il modo in cui è organizzata l’Unione europea, se non avremo alcun tipo di tassazione comune e di progetto di giustizia sociale e fiscale comune, non potremo continuare a godere della libera circolazione di persone, servizi e capitali. Al contrario, fileremo dritti verso il divorzio. Sfortunatamente, l’unico discorso che attira le classi popolari è quello nazionalista. Quello che parla di ritorno alle frontiere: un discorso violento contro gli immigrati. Ma questo discorso non funzionerà, perché non si propone di ridurre le disuguaglianze o di lottare contro il cambiamento climatico. Solo un progetto internazionalista, socialista o in qualche modo distributivo è in grado di far sì che le disuguaglianze vengano ridotte.

Ramoneda: Quindi la democrazia liberale è in qualche modo in pericolo.

Piketty: Sì, la democrazia, l’Unione europea e la globalizzazione sono in pericolo. Penso che le soluzioni non siano tanto complicate. Il principio generale è che il libero scambio e la circolazione hanno bisogno di un controllo politico, di una regolamentazione pubblica. Non è complicato. Nei trattati che organizzano le relazioni tra i paesi europei o tra l’Europa e l’America Latina, l’Africa o altre parti del mondo, si potrebbero condizionare la circolazione di persone, capitali e servizi a obiettivi quantificabili, verificabili di giustizia climatica, fiscale e sociale. In caso di mancato rispetto di questi vincoli, il patto decadrebbe.

Ramoneda: Lei recupera la parola socialismo, che dal 1989 è in disuso, marchiata dal fallimento dei regimi di tipo sovietico. Che significato ha la sua scommessa sul socialismo partecipativo del XXI secolo?

Piketty: Aggiungo l’aggettivo «partecipativo» al termine «socialismo» per differenziarlo dal disastro del comunismo sovietico. «Socialismo» e «comunismo» sono due parole screditate oggi, ma penso che la prima abbia più possibilità della seconda di essere salvata. In definitiva, il progetto di socialismo partecipativo è basato su una profonda decentralizzazione; è il contrario della proprietà statale e centralizzata che caratterizzava le esperienze comuniste e alcune comunità socialiste del XX secolo. Questo sistema si basa su due pilastri: l’istruzione e la proprietà. Tutto ciò che riguarda la giustizia educativa, specialmente l’accesso all’istruzione superiore, soffre di una grande ipocrisia. Un chiaro esempio si ha negli Usa dove la relazione tra il reddito familiare e l’accesso all’università è molto stretta. Se i tuoi genitori sono poveri, hai circa il 20 per cento di possibilità di accedere all’istruzione superiore; al contrario, se sono molto ricchi questa possibilità è del 95 per cento. Inoltre il livello dell’università alla quale si ha accesso è molto diverso. In Europa osserviamo lo stesso nelle scuole pubbliche. Oggi l’investimento educativo in Francia è pari a 120 mila euro a studente, ma il 10 per cento, coloro che lasciano la scuola a 17-18 anni, gode di un investimento inferiore, di circa 65-70 mila euro; mentre coloro che studiano nelle scuole più finanziate godono di un investimento superiore, tra i 200 e i 300 mila euro. In Francia il sistema pubblico è molto stratificato, molto diseguale. Per questo, il socialismo partecipativo prende molto sul serio l’eguaglianza educativa con obiettivi verificabili di parità di spesa educativa. In secondo luogo c’è poi la questione dell’accesso alla proprietà e della circolazione della proprietà. Un’opzione è quella di fare riferimento alle esperienze di cogestione tedesca e nordica. In Germania, in Svezia e nei paesi nordici in generale i rappresentanti dei dipendenti partecipano ai consigli di amministrazione delle aziende, a differenza di quanto accade in Francia, Regno Unito o Spagna, per esempio. In Germania e Svezia, dagli anni Cinquanta, un terzo delle poltrone nei consigli di amministrazione delle aziende è riservato ai dipendenti, anche se non hanno alcun tipo di partecipazione nel capitale. Ciò favorisce un cambiamento ideologico abbastanza radicale. Attualmente negli Usa e nel Regno Unito ci sono proposte di legge che vanno in questa direzione. E penso che se sviluppiamo queste proposte potremmo andare molto lontano. L’idea generale è che viviamo in società molto istruite e abbiamo bisogno di una circolazione del potere di proprietà. L’idea che una persona che abbia fatto fortuna a 30 anni continui a 70 a decidere per centinaia di dipendenti è un’idea un po’ monarchica in economia, completamente strampalata. E si continua a ripetere questo modello come l’unico possibile, l’unico sistema. Tuttavia, non è affatto razionale. Penso che debba essere cambiato. Abbiamo esempi, come la cogestione che ho menzionato o le imposte progressive su redditi e successioni che pongono limiti alle grandi concentrazioni patrimoniali.

Ramoneda: Il suo progetto si completa però con il socialfederalismo e le giustizie nazionali, vero?

Piketty: I grandi limiti della socialdemocrazia nel corso del XX secolo si manifestano intorno a tre questioni: l’istruzione, la proprietà e il superamento dello Stato nazionale e lo sviluppo di forme transnazionali di giustizia fiscale o di fiscalità comune. Anche di sistemi legali comuni, inclusi la governance delle imprese e il diritto del lavoro. Hannah Arendt, nel suo Le origini del totalitarismo (1951), dice che i socialdemocratici nel periodo tra le due guerre non capirono che quando si fronteggia un capitalismo mondiale è necessaria una politica che sia ugualmente mondiale, vale a dire un progetto politico transnazionale. Oggi abbiamo lo ste
sso problema. I partiti socialisti e socialdemocratici in Europa hanno utilizzato l’Unione europea come un grande mercato, ma senza programmi di giustizia sociale, anche quando sono stati al potere. Penso sia necessario rivedere tale aspetto, diversamente il sistema europeo esploderà o rimarrà prigioniero di progetti nazionalisti che promuovono politiche di ripiegamento nazionale e xenofobe in relazione ai migranti extra europei. Una cosa molto inquietante. Credo che se non modificheremo il modo in cui l’Europa è organizzata, se non avremo una fiscalità comune, non potremo continuare a godere della circolazione di persone, capitali e servizi. Si tratta di organizzare le cose diversamente.*

(traduzione dallo spagnolo di Ingrid Colanicchia)

* Questo dialogo, trascritto e adattato in spagnolo da Verónica Nieto, ha avuto luogo il 10 gennaio 2020 nell’ambito della Escuela Europea de Humanidades de Barcelona, presso il Palau Macaya de la Fundación la Caixa. È stato originariamente pubblicato sul numero di marzo-aprile di La Maleta de Portbou.

[1] Georges Dumézil, storico delle religioni francese (1898-1986), dallo studio della cultura delle società indeuropee derivò una teoria sulla loro struttura che si fonderebbe sulle tre funzioni di sovranità, forza e fecondità. Tutte le note sono della traduttrice.

[2] Il riferimento è al testo The great transformation (1944) in cui Karl Polanyi indaga la crisi delle istituzioni liberali e la «grande trasformazione» da esse subita negli anni Trenta del XX secolo.

(17 aprile 2020)


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