Le tentazioni della fede (undici tesi contro Habermas)
La necessità democratica di un illumismo radicale, egualitario e libertario (preferibilmente ateo e materialista, forse), contrapposto alle posizioni del più illustre erede della Scuola di Francoforte, che da anni prova a conciliare le esigenze di un rigoroso patriottismo costituzionale democratico con il diritto dei cittadini credenti ad ‘argomentare’ in nome di Dio. Un’impossibile quadratura del cerchio, che espone il filosofo tedesco a una folla di antinomie e contraddizioni.
di Paolo Flores d’Arcais
1. Da alcuni anni Habermas propone la quadratura del cerchio: tener fermi i princìpi democratico-liberali secondo una esigente versione repubblicana (rigorosa neutralità dello Stato rispetto a fedi, ideologie e visioni del mondo; effettiva sovranità – delegata/partecipata – di tutti e ciascuno; deliberazione per argomenti razionali universalmente accessibili; necessità di un ethos costituzionale diffuso, anzi quasi onnipervasivo), e allo stesso tempo riconoscere le «ragioni» religiose in quanto tali – cioè le argomentazioni e le motivazioni politiche che fanno ricorso a Dio – non solo come legittime, ma anzi utili, e infine imprescindibili nel quadro della convivenza democratico-liberale.
Tale riconoscimento, secondo Habermas, comporta addirittura il dovere, per i cittadini non credenti, di tradurre in termini laici le «intuizioni» e le «ragioni» che il cittadino religioso sa esprimere solo in termini comprensivi della sua esperienza di fede. Senza tale atteggiamento cooperativo, il cittadino credente sopporterebbe in modo asimmetrico – rispetto al cittadino laico – l’onere della tolleranza verso le visioni del mondo concorrenti: subirebbe una discriminazione.
Di più. Il cittadino senza fede religiosa è tenuto a riconoscere un «potenziale di verità alle immagini religiose del mondo» (J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 18). A tale possibile verità, anzi, è tenuto ad aprirsi (p. 35). Nell’escalation habermasiana di encomio civico-democratico verso le fedi, non basta «tributare alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili» (p. 16). La modernità deve essere normativamente vissuta dai laici come «un processo complementare di apprendimento» (ibidem) nel quale «per il cittadino insensibile alla religione» è tassativo «l’invito a definire il rapporto tra fede e scienza autocriticamente» (p. 17), abbandonando l’ateismo tradizionale, dunque. Nell’ambito del più generale «esercizio di una frequentazione autoriflessiva dei limiti dell’Illuminismo» (ibidem) che concluda nel «superamento autoriflessivo di una nozione di sé laicisticamente sclerotizzata della modernità».
L’esordio di patriottismo costituzionale, dove la convivenza è regolata «autonomamente e razionalmente con gli strumenti del diritto positivo» (p. 25), etsi Deus non daretur, quindi e inevitabilmente, viene da Habermas rovesciato nella quaresimale ascesi autocritica cui cultura, pratica politica e vissuto esistenziale della laicità illuminista vengono forzati, a espiazione della presunta afflizione asimmetrica con cui avrebbero, da qualche secolo, angariato i credenti.
Piuttosto comprensibile che un altro autorevolissimo tedesco, Joseph Ratzinger, con questa habermasiana «ragione postsecolare» ci vada a nozze.
2. In che senso, tuttavia, il credente sopporterebbe la vessazione di una pretesa asimmetrica da parte dello Stato, la cui neutralità laica tradizionale non sarebbe dunque affatto imparziale? Innanzitutto perché verrebbe ingiustamente contestato «ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso» (p. 18). La clausola «etsi Deus non daretur», in altri termini, sarebbe persecutoria, poiché impone al credente la rinuncia all’argomento-Dio, rinuncia onerosissima che al laico ovviamente non costa nulla.
In realtà, il carattere deliberativo della democrazia liberale, cioè il vincolo di una argomentazione pubblica che adduca ragioni «accessibili a tutti» (p. 24), impegno che Habermas sottolinea come costitutivo e irrinunciabile (ne va, altrimenti, della democrazia stessa), esige da tutti i cittadini, credenti o non credenti, la medesima autolimitazione: la messa in mora di ogni principio perentorio di autorità. All’irrecusabile richiesta di argomentazione – perché? – non è ammissibile replicare con l’assolutismo del «perché sì!» (Why? Because! Pourquoi? Parce que! Dla czego? Dla tego! eccetera). Proprio per questo «lo Stato costituzionale democratico […] rappresenta una forma esigente di governo» (p. 47).
Non è vero, dunque, che solo il credente debba rinunciare al proprio «perché sì». L’uso pubblico della ragione esclude il fideistico «Dio lo vuole» (che è sempre il proprio Dio) esattamente come ogni altro presupposto ideologico – agnostico, pagano, ateo – dal naturalismo predatorio di terra e sangue alla radicale non-violenza pacifista, da una morale di edonismo onnipervasivo all’etica di una solidarietà fino al sacrificio. Tutti devono rinunciare ai propri presupposti di valore, credenti e non credenti.
Infatti, «l’assunzione di una comune ragione umana è il fondamento epistemico» (p. 24) dello Stato costituzionale democratico, che resta minacciato dal «potenziale di conflitto […] tuttora inalterato […] tra le convinzioni esistenzialmente rilevanti dei credenti, dei non credenti, dei seguaci di altre religioni» (p. 25), se lo spazio pubblico non viene garantito come orizzonte argomentativo comune proprio escludendone i diversi presupposti di valore. Tranne, beninteso, quell’«ethos civico egualitario» (p. 41) che costituisce il fondamento stesso dello Stato costituzionale democratico e fa anzi corpo con esso. Ethos niente affatto scontato e anzi problematico, su cui si dovrà ritornare.
3. Habermas articola il suo repubblicanesimo kantiano (p. 6) con una contraddizione: malgrado «ogni religione sia in origine una comprehensive doctrine» che «rivendica l’autorità per strutturare totalmente una forma di vita» (p. 16), i credenti «devono poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse “traduzioni” laiche» (p. 34). Ma il linguaggio religioso «privo di traduzioni laiche» si caratterizza essenzialmente per il carattere dirimente della risorsa «Dio lo vuole!». Dunque, esattamente per la pretesa, perennemente in agguato, di «strutturare totalmente una forma di vita» adeguando le leggi dello Stato al proprio dogma.
«Contraddizion che nol consente» talmente lampante, che Habermas deve tener fermo anche il contrario: «L’inserimento di giustificazioni religiose nel processo legislativo lede il principio stesso [della distinzione fra Stato e Chiesa]»(p. 28). E dedurne logicamente che «i cittadini religiosi possono esprimersi nel loro linguaggio soltanto con la riserva della traduzione» (p. 35).
L’argomento religioso viene insomma legittimato da Habermas solo se e quando traducibile in termini non religiosi. A prescindere dall’argomento Dio, per capirsi. Nell’orizzonte comune e vincolante dell’«etsi Deus non daretur», perciò. Il che sign
ifica, allora, che l’argomento religioso è valido solo se e quando superfluo. Habermas cerca di sanare la sua prima contraddizione con una contraddizione ulteriore.
Il credente, del resto, può anche sottrarsi all’onere della «traduzione». Per Habermas, tocca ai non credenti (asimmetricamente!) provvedere: bisogna «aspettarsi dai cittadini laicizzati che partecipino a iniziative volte a tradurre contributi rilevanti dal linguaggio religioso a un linguaggio pubblicamente accessibile» (p. 18), esercizio dal quale «le ragioni religiose emergano nella forma mutata di argomentazioni universalmente accessibili (p. 35).
E se, a dispetto di ogni laica «buona volontà», tale traduzione risultasse impossibile? In nome di Dio si possono imporre norme che nessuna argomentazione razionale riuscirebbe a rendere compatibile con i valori che Habermas ritiene – a ragione – costitutivi di uno Stato costituzionale democratico (dunque irrinunciabili). Sono talmente tante, queste norme antidemocratiche, che il loro nome è «legione». E si tratta di pretese niente affatto trascorse. Sempre più incombenti, anzi.
Il diktat delle «operazioni cooperative di traduzione» (ibidem) che Habermas vuole far gravare sui non credenti occulta perciò la circostanza decisiva: che la prevista traduzione – in termini laico-democratici – è spesso impossibile. Tale previsione esprime solo un wishful thinking. Del resto, tutte le polemiche attuali, che hanno spinto a parlare perfino di scontri di civiltà, nascono dalla impossibilità di tradurre in termini laico-razionali pretese religiose cruciali. Perfino il cardinal Tettamanzi, oggi arcivescovo di Milano e, come il suo predecessore Martini, assai più aperto alle ragioni laiche dei due ultimi romani pontefici, ha dovuto riconoscere in un dialogo con me che «solo a partire da una concezione antropologica che contempli la realtà di Dio – del Dio cristiano – si può dire un “no” assoluto all’eutanasia» (MicroMega, n. 1/2001).
4. Resta dunque assodato – anche per Habermas – che «le convinzioni esistenziali radicate nella religione, grazie al loro riferimento – magari difeso razionalmente – all’autorità dogmatica di un nucleo inviolabile di infallibili verità rivelate, si sottraggono a quel tipo di discussione discorsiva senza riserve cui sono esposti altri orientamenti di vita» (p. 33). Detto senza perifrasi: il credente in quanto credente non sa dialogare razionalmente.
Habermas cerca di uscire dalla spirale di contraddizioni in cui si è avvitato, distinguendo tra l’ambito strettamente politico-statuale e quello della pubblica opinione. Solo nel primo dovrebbe valere in modo rigoroso e senza eccezioni l’imperativo della laicità, dell’«etsi Deus non daretur». «Il principio della separazione tra Stato e Chiesa obbliga gli uomini politici e le burocrazie nell’ambito delle istituzioni statali a formulare e giustificare leggi, decisioni giudiziarie, ordinanze e provvedimenti esclusivamente in un linguaggio accessibile in pari misura a tutti i cittadini» (p. 27, corsivi miei).
Da tale obbligo Habermas invece dispensa i cittadini in quanto tali e le loro organizzazioni politiche (oltre che di società civile), perché «estendere questo principio dal piano istituzionale alle scelte di organizzazioni e di cittadini nella sfera pubblica politica» costituirebbe «un eccesso laicistico di generalizzazione» (p. 32). Così si ipotizzano, però, due universi separati di comunicazione, retti da regole opposte e incompatibili. Paradossalmente, Hillary (membro del Senato), quando chiede il voto, non potrebbe tirare in ballo Dio, suo marito Bill, che chiede identico voto per lei, sì.
Eppure, Habermas ribadisce tassativamente che «il carattere discorsivo delle consultazioni» che precedono una decisione legislativa vale come componente essenziale e inviolabile del procedimento costituzionale democratico (p. 37). Come è perciò possibile custodire questo vincolo per chi esercita una carica elettiva, e vanificarlo per candidati, opinion makers e cittadini? Neppure la più rigida istituzionalizzazione della doppiezza basterebbe all’impresa. Nella democrazia rappresentativa, il processo elettivo/legislativo è in realtà un continuum circolare di opinione pubblica>associazionismo politico>poteri istituzionali>opinione pubblica.
Habermas cerca di sfuggire alle proprie antinomie teoriche con una «soluzione» pragmatica impraticabile. Occulta un «non sequitur» con un miraggio. La realtà del resto (e la drammaticità del problema) è che nella sfera pubblica tutti (o almeno troppi, e sempre più numerosi) invocano il nome di Dio.
5. E tuttavia, Habermas insiste sulla presunta persecuzione dei credenti: «Gli oneri della tolleranza non sono ripartiti simmetricamente fra credenti e non credenti, come dimostrano le norme più o meno liberali sull’aborto» (p. 17). Ma è vero il contrario. Ogni legge occidentale sull’aborto, anche ispirata al più abominevole (per un credente) permissivismo non costringe nessuna donna. Mai. La lascia libera di scegliere. È invece Ratzinger che vuole imporre alla donna non credente, o di altra religione, un divieto penalmente sanzionato.
Ancora più evidente l’asimmetria – di segno opposto a quella lamentata da Habermas – se dall’aborto passiamo all’eutanasia. In questo caso non c’è neppure l’alibi di una seconda «persona» (il feto), i cui diritti andrebbero tutelati. Nel suicidio assistito (questa è l’eutanasia, non certo l’eutanasia nazista, omicidio di non-consenzienti, tirata in ballo dalla Chiesa per indecente contraffazione polemica) c’è solo il diritto di un condannato a morte terminale (e innocente) di abbreviare la tortura (e il diritto a una esecuzione non preceduta da tortura viene riconosciuto, nei paesi dove la pena capitale è ancora in vigore, anche ai peggiori criminali!).
Insomma, e sempre: la presunta «asimmetria» laica lascia liberi i cittadini credenti di utilizzare o meno un diritto. L’imposizione del punto di vista credente attraverso la legge costringe invece il non credente, cui è precluso di fare tutto ciò che il papa ritiene «peccato», pena la galera.
Cosa vuol dire , allora, che «uno Stato non può imporre ai cittadini cui garantisce la libertà religiosa alcun obbligo inconciliabile con la loro vita di credenti» perché questo significherebbe «chiedere loro l’impossibile» (p. 29)? Che non può chiedere loro di praticare obbligatoriamente l’aborto (l’eutanasia, la contraccezione eccetera) o che non può chiedere loro di rinunciare a imporre agli altri (diversamente credenti o atei), con la forza del braccio secolare, il proprio stile di vita, anche quando fossero maggioranza schiacciante?
La prima cosa non è mai stata chiesta da nessun laico, la seconda pretesa è irrinunciabile per una liberal-democrazia, e fa anzi tutt’uno con la definizione di patriottismo costituzionale.
Ma Habermas intende invece l’opposto, quando insiste che «lo Stato liberale non deve trasformare la debita separazione istituzionale tra religione e politica in un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre ai suoi cittadini credenti» (p. 33).
6. Si faccia tuttavia attenzione. Non imporre «pesi mentali e psicologici» e tanto meno «alcun obbligo inconciliabile con la loro vita di credenti» sembra equo e ragi
onevole, ma può aprire un vaso di Pandora di intolleranze efferate. Dipende infatti da cosa esige la loro «vita di credenti». Se esige il rogo per gli eretici (o anche solo di una «vignetta satanica»), lo Stato non solo può, ma deve, imporre al credente il «peso mentale e psicologico» della rinuncia a questa sua religiosissima pulsione. Se esige la mutilazione sessuale delle bambine, lo Stato non solo può, ma deve, punire (con severità impietosa).
È senz’altro e tragicamente vero, infatti, che per molti cittadini credenti, «il loro concetto di giustizia fondato sulla religione dice loro che cosa è o non è politicamente giusto, sicché “non sentono il ‘richiamo’ di alcuna ragione laica”»(p. 31). Ma Habermas non si rende conto che accogliendo toto corde questa «obiezione» di Weithmann come «a mio parere decisiva» (ibidem), finisce per legittimare potenzialmente ogni intolleranza religiosa.
Il credente kamikaze, infatti, è proprio colui che meno di ogni altro «sente il “richiamo” di una ragione laica». Ed egualmente il credente che pretende il rogo per la pagina «offensiva», o sequestra in casa la figlia tentata dallo «stile occidentale», o la picchia a sangue (fino all’omicidio, talvolta) se non si adatta al matrimonio combinato, o da buon testimone di Geova lascia morire il figlio che ha bisogno di una trasfusione. E perché non la poligamia, il cannibalismo, la pedofilia, l’esposizione dei neonati e magari i sacrifici umani rituali, visto che religioni millenarie e grandiose ne hanno fatto dovere e pietas?
«Lo Stato liberale che tutela paritariamente tutte le forme di vita religiosa» (p. 33) è perciò liberale solo nella idiosincrasia antilaica in cui si è gettato Habermas. Lo Stato liberale non può e non deve tutelare tutte le «forme di vita», bensì esclusivamente le libertà costituzionali di tutti i cittadini. E dunque le «forme di vita» (religiose o meno) solo se compatibili con la democrazia repubblicana.
Perciò, per garantire in modo simmetrico i cittadini, il costituzionalismo liberale deve imporre un «peso mentale e psicologico» asimmetrico su ciascuno di essi: che esso valga o meno come onere (e onere più o meno pesante) per chi vive una determinata convinzione religiosa o filosofica, misura solo la distanza, la conflittualità, eventualmente l’incompatibilità, tra tali convinzioni e lo Stato liberale.
Questo «sforzo di apprendimento e di adattamento richiesto ai cittadini religiosi», sia chiaro, non è affatto «risparmiato a quelli laici (p. 39). È irrinunciabile per la democrazia, e viene perciò richiesto anche all’ateo che considerasse «legge di Natura» un vitalismo predatorio a esito razzista, o l’omosessualità una malattia, o predicasse la soppressione degli handicappati. In realtà, tale sforzo non può mai essere risparmiato a chi è contro i valori democratici, a meno che la democrazia non rinunci a se stessa.
7. La sfera pubblica sarà perciò pubblica, spazio simmetricamente aperto a tutti i cittadini, solo se tenuta libera da ogni argomento-Dio.
È del tutto falso, infatti, che «regole eque possono venir formulate soltanto se gli interessati imparano ad assumere di volta in volta anche le prospettive degli altri» (p. 25). Perché mai dovremmo imparare ad assumere – dunque fare nostre – prospettive squisitamente antidemocratiche? E metterci dal punto di vista del nazista, del razzista, del fondamentalista? Al contrario: si tratta di esiliare tutte le pretese di qualsiasi «perché sì», espressioni di mera e totalitaria «volontà di potenza», incompatibili con la democrazia (anche nell’accezione più minimalista). E l’argomento-Dio è un «perché sì» particolarmente minaccioso, che si trascina come un’ombra la tentazione del «Dio con noi» (recentemente: Gott mit uns).
Ovvio che la rinuncia all’argomento-Dio non possa essere imposto per legge. Si può tuttavia rendere socialmente indecente e psicologicamente invalicabile tirare in ballo Dio in vista della legge, esattamente come è tabù ogni riferimento a superiorità razziali, inferiorità (o preferenze) sessuali, e altre «diversità», oggi improponibili come argomenti, ma fino a ieri utilizzati a piene mani ed efficacemente.
Perché preti e rabbini, pastori e imam, nelle cerimonie civili? E perché la loro presenza obbligata in tv quando si discute di morale, come se la religione comportasse caratura etica privilegiata? E se conforto necessario nell’esercito o nelle carceri, che allo stesso titolo siano previsti «consiglieri spirituali» agnostici e atei, di ogni «scuola».
Ma soprattutto, il darwinismo nelle scuole fin dalla prima classe (con gli strumenti didattici adeguati all’età, ça va sans dire), e la pluralità delle fedi (o del rifiuto ateo delle religioni) – cioè la relatività delle culture familiari d’origine – fatta vivere ai bambini come ricchezza dell’avventura umana. E leggi che non consentano l’obiezione/prevaricazione a un diritto altrui. Uno Stato democratico non può tollerare (a differenza di quanto sta accadendo in Inghilterra) che in nome del proprio Dio un farmacista rifiuti a una ragazza la pillola del giorno dopo, o un dottore la visita a un paziente di sesso opposto. Un calciatore, di questo passo, potrà rifiutarsi di giocare contro una squadra di «negri», o di «infedeli», o semplicemente di israeliani. È già cronaca, anzi.
In fondo, si tratta solo del primo comandamento: non pronunciare il nome di Dio invano. Perché utilizzarlo sulla scena pubblica significa precipitare il conflitto delle opinioni e la dialettica democratica nel rischio di una interminabile ordalia.
8. Sul piano cognitivo, tale obbligo eguale per tutti – sensibili o meno a una fede religiosa – significa la rinuncia onnilaterale a qualsiasi pretesa di Verità etica. Le «determinate premesse cognitive» che Habermas giustamente esige come conditio sine qua non perché possa «venir assolto l’obbligo dell’“uso pubblico della ragione”» (p. 39) mettono capo all’applicazione rigorosa del principio di Hume: non si può mai ricavare un valore da un fatto, una prescrizione da una descrizione, un dover-essere dall’essere, una legge morale da una legge scientifica.
Del resto, Habermas sottolinea che «la concorrenza tra immagini del mondo e dottrine religiose, che pretendono di spiegare la posizione dell’uomo nell’universo, non si può appianare a livello cognitivo» (p. 38). In altri termini, familiari alla filosofia ma oggi «fuori moda», i valori non sono decidibili razionalmente. Per affermare un valore è necessario ricorrere a un altro valore. E il valore «primo» (o «ultimo»), che fonda l’intera catena del nostro argomentare deontico, resta definitivamente infondabile.
Non è vero, allora, che bastino «assunzioni deboli sul contenuto normativo della costituzione comunicativa di forme socio-culturali di vita» (p. 7) per sbarazzarsi della razionalità «disfattistica» di Kelsen. Forme socio-culturali di vita altamente differenziate e complesse sotto il profilo comunicativo, tecnologicamente modernissime, insomma, sono perfettamente compatibili con prassi e costituzioni politiche radicalmente anticomun
icative e illiberali. Cina docet, oggi, come il Führerprinzip ieri.
Che sviluppo (capitalistico) e tecnica portino democrazia è illusione spacciata dalle ideologie di establishment. Il valore democrazia presuppone la scelta-per-la-democrazia. Dal fatto-comunicazione non si può ricavare il valore-comunicazione (l’etica della comunicazione), cioè dalla comunicazione come necessità tecnico-sociale non si può dedurre la comunicazione come simmetria di diritti-libertà-potere, esattamente come dalle asserzioni scientifiche del darwinismo non sono ricavabili le prescrizioni del vitalismo predatorio («darwinismo» sociale).
Relativamente alla sfera pubblica, insomma, in fatto di valori dobbiamo limitarci al minimo comun denominatore democratico del patriottismo costituzionale (che andrà precisato).
Tutte le altre Verità etico-politiche hanno pieno titolo a essere professate, e a motivare esistenze e comportamenti, ma non possono valere come argomento.
9. Neppure la verità «scientista», naturalmente. Che per Habermas rappresenta la vera bestia nera. Il «crudo naturalismo», che è da «intendere come conseguenza delle premesse scientistiche dell’Illuminismo» (p. VI), secondo Habermas «tradisce anche una segreta complicità» con «gli assertori dell’ortodossia religiosa», di modo che «mentalità fondamentalistiche e laicistiche» (p. 47), veri e propri opposti estremismi, «mettono a rischio la stabilità della comunità politica con la loro polarizzazione di visoni del mondo» (p. VI). Komeini e Dawkins uniti nella lotta? Per favore…
Il presupposto cognitivo che può salvare la democrazia contro la deriva «scientista» sarebbe per Habermas la «ragione multidimensionale, non bloccata unicamente sul rapporto col mondo oggettivo» (p. 44). Kant ed Hegel ne sarebbero i numi tutelari (p. 45).
Vizio filosofico del «naturalismo radicale» sarebbe la «riduzione del nostro sapere alla folla di enunciati che rappresentano di volta in volta lo “stato delle scienze”» (p. 44). Vizio etico-politico sarebbe la conclusione sostanzialmente nichilistica di una «naturalizzazione della mente che mette in forse la nostra visione pratica di noi stessi come persone che agiscono responsabilmente e induce a richieste di revisione del diritto penale» (ibidem).
Questa caricatura del naturalismo costituisce una comoda testa di turco, polemizzando con la quale Habermas restaura la propria versione di cognitivismo etico e sottrae democrazia e laicità alle «premesse» cognitive del principio di Hume.
La scienza ci dice «solo» che la neocorteccia svincola la scimmia evoluta che tutti noi siamo dalla cogenza degli istinti e la costringe a surrogarli con una norma. Non ci dice (e non pretende di dirci, fino a che rimane scienza) quale norma. Una norma qualsiasi, anzi, purché funzioni. Dunque, ci dichiara padroni e signori della norma, assolutamente responsabili verso di essa. Altro che riduzione «scientificamente oggettivata delle persone» (p. V).
Piuttosto: la «Ragione» di Hegel a cui Habermas brucia incenso non è ragione, è teologia. Di più. È restaurazione onnipervasiva della teologia contro le conquiste della moderna scepsi critico-empirica. Tanto è vero che le fantasie più-che-mai metafisiche dell’Intelligent Design sono puro Hegel: le vicende empiriche e contingenti dell’evoluzione del cosmo, della terra e della storia dell’uomo, raccontate come res gestae dello Spirito, finalisticamente orientate.
Perciò, l’eventuale «elaborazione speculativa di informazioni scientifiche» (p. 18), cioè l’ideologizzazione abusiva della scienza in visione del mondo (rara avis, in realtà), che presume di ricavare il «dovere» dell’uomo dalle mappatura delle sue connessione neuronali, si combatte solo con la rigorosa applicazione della separazione tra fatto e norma. Proprio la regola a cui Habermas si rifiuta.
10. Il disincanto è però per Habermas anche (e oggi forse soprattutto e per lo più) terra desolata.
«I progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno» contribuito a produrre «distruzioni immani» (p. XI) e «un “deragliamento” laicizzante della società nel suo complesso» (p. 6) che inaridisce le fonti della solidarietà fra i cittadini. «Solidarietà da cui lo Stato democratico deve totalmente dipendere pur senza poterla imporre per legge» (p. 11).
Ecco perché, in soccorso della democrazia, è necessario «tributare alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili» (p. 16). Pilastri imprescindibili dell’ethos repubblicano, insomma.
Oltretutto, solo le religioni, con le loro «possibilità espressive» possono riscattare da «fallimento esistenziale, patologie sociali, naufragio di progetti individuali di vita, deformazione di contesti vitali falsati» (pp. 14-15).
Ratzinger ha già tradotto la laicità di Habermas in linguaggio cattolico: perché la democrazia non precipiti nel nichilismo, tutti – credenti e atei – devono comportarsi «sicuti Deus daretur». Il compiuto rovesciamento della modernità.
Ma il contributo della religione è inestricabilmente double face. Nelle mani di Dietrich Bonhoeffer (o di tanti preti «di strada» che collaborano a questa rivista) è certamente uno scrigno a disposizione per le libertà. Nelle mani di infinite altre – e più diffuse – costellazioni ermeneutiche, è tentazione certa e permanente di prevaricazione confessionale contro la democrazia. E il sostegno delle comunità religiose, una volta evocato, non è più governabile a piacere.
Di questo aiuto minaccioso non c’è d’altro canto bisogno, visto che Habermas ricorda come non sia vero «che lo Stato liberale sia incapace di riprodurre le sue promesse motivazionali grazie a risorse laiche sue proprie» (p. 9). Ha ragione: le «virtù politiche […] essenziali per il sussistere di una democrazia» (ibidem) possono essere custodite e incentivate iuxta propria principia, senza dover nulla «apprendere» dalle fedi religiose.
Perché «i princìpi di giustizia penetrino nel più fitto intreccio degli orientamenti culturali di valore» (p. 11) senza di che per Habermas – giustamente – la democrazia è a repentaglio, basterà che lo Stato costituzionale democratico, nelle sue politiche sostantive, resti fedele al comun denominatore di valori ricavabile logicamente dal principio procedurale minimo «una testa, un voto» che neppure il conservatore più estremo contesta. E che così minimo non è, se ragionato davvero. Vediamo.
11. La democrazia liberale è autos-nomos, sovranità dei cittadini di darsi da sé la legge. Dei cittadini concretamente esistenti, di tutti e di ciascuno, non di una astratta, introvabile e a rischio totalitario «volontà generale». Un voto libero ed eguale presuppone però condizioni materiali e culturali di autonomia per tutti e per ciascuno. Il voto non è libero (una testa, un voto) in un clima di intimidazione mafiosa (una pallottola, un voto), o di corruzione (una tangente, un voto), ma neppure se il bisogno domina l’esistenza di un cittadino o la mancanza di strumenti critici e di informazioni pre-giudica la sua
scelta. O se la disparità di risorse tra i candidati pre-giudica i risultati (un dollaro, un voto), o se al confronto argomentativo si sostituisce la pubblicità (uno spot, un voto).
Politiche sostantive di welfare radicale (indipendenza da bisogno), imparzialità e pluralismo televisivo, scuola repubblicana ed educazione permanente, sono perciò pre-condizioni del voto libero ed eguale. Come tali, andrebbero garantite in Costituzione, sottratte all’alea delle maggioranze. Esattamente come irrinunciabili per la democrazia sono politiche sostantive che favoriscano partecipazione, movimenti, non-burocratizzazione dei partiti, effettività di trattamento eguale di fronte alla macchina giudiziaria, e più in generale l’ethos del dissidente contro omologazione, conformismo, pensiero unico.
L’elenco sarebbe molto lungo. Misure permanenti iperlibertarie e iperprogressiste sono insomma il trascendentale di una Costituzione liberale, perché questa «folla» di politiche sostantive altamente esigenti e radicali sul piano sociale e culturale costituiscono le condizioni di possibilità del minimo procedurale «una testa, un voto». Senza condizioni socio-culturali di autonomia, il voto come strumento di democrazia scolora, si estingue (come sanno tutti i populismi e plebiscitarismi).
Habermas, anziché affrontare il problema delle democrazie attuali, cioè il deficit di democrazia prodotto da politiche antilibertarie e/o disegualitarie e/o di conformismo culturale e sociale, cioè antidemocratiche anche se maggioritarie, chiama in soccorso le religioni per un supplemento d’anima, di senso e di solidarietà. Ma in tal modo elude la questione: la lotta per la democrazia dentro la democrazia, contro le forze del privilegio e del conformismo che la riducono a flatus vocis.
Il segreto del rischio «terra desolata» non è il disincanto, il relativismo dei valori e la presunta aridità laica della democrazia, ma la democrazia incompiuta – legalmente, socialmente, culturalmente, politicamente. Non c’è fede che la possa salvare, infatti, se la democrazia non si nutre quotidianamente di politiche di eguaglianza-per-la-libertà e libertà-per-l’eguaglianza.
Non è perciò con l’autocritica dell’illuminismo ma piuttosto col suo compimento, non con il timore del disincanto – cioè dell’autos-nomos dell’uomo, a cui Ratzinger con antilluministica coerenza imputa i totalitarismi del secolo passato e i mali del nostro – ma con la sua radicalizzazione in democrazia radicale, che la modernità può affrontare le contraddizioni, le ingiustizie e i rischi che genera, fondamentalismi e nichilismi compresi.
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