Le tre guerre anomale (e il futuro) dei ragazzi d’Europa
Francesca De Benedetti
Dallo spread al terrore passando per il virus: ecco come i conflitti simbolici stanno colpendo le generazioni Erasmus (e precarie).
Dove sono i giovani europei in questo momento?, si domanda qualche intellettuale illuminato. Perché non si fanno sentire? La prima risposta, la più superficiale (ma comunque scomoda da dichiarare), è che non si fanno sentire perché non vengono rappresentati o raccontati, a meno che non siano funzionali alla narrazione dominante – che raramente è costruita da giovani. Più facile fare titoli urlati sulla “generazione Erasmus” durante Brexit, che indagare sullo scollamento e la sfiducia tra quei ragazzi (britannici e non) e la classe dirigente europea; o andare a scovare le storie di precari e disoccupati oggi, nei giorni di Covid.
Ma per rispondere a quella domanda bisogna raccontare anche un altro pezzetto della storia. Bisogna cominciare dalle “guerre”. Io sono nata nel 1983, nel Sud del Sud d’Europa; ho conosciuto un’infanzia e un’adolescenza di spostamenti lungo la penisola, verso il centro e verso nord. L’Europa è sempre stata la mia dimensione. Valeva per me come per gli altri che a Bologna, a Palazzo Hercolani, nelle pause delle lezioni di Relazioni internazionali, si incrociavano in cortile – chi con la kefiah chi con la polo, ragazzi con le provenienze più diverse – accomunati tutti dallo slancio di “cambiare le cose”. A Parigi, quando facevo le mie ricerche a Sciences Po, un professore mi scambiò per ungherese, e a fianco a me c’era lo spagnolo, e l’altro Erasmus e l’altro ancora. Mi sono sempre sentita europea proprio come un pesce necessita dell’acqua.
Da giovane europea, ho scelto tutte le battaglie ma neppure una guerra. Di guerre anomale, globali e simboliche, la mia generazione ne ha vissute almeno tre; ognuna di quelle guerre contiene una chiave per capire che cosa sarà domani. Guerra: l’hanno chiamata così, dopo il 2008, mentre lo spread schizzava e allora ci si doveva stringere tutti attorno alla bandiera, e bisognava “stringere la cinghia”. Nei giorni del 2011 che in Italia hanno condotto al governo Monti, la crisi finanziaria – con tutte le dinamiche e le responsabilità politiche annesse – si è trasformata nel discorso pubblico in qualcosa di analogo a una catastrofe naturale. Il Paese, tutto, era quindi chiamato a “un percorso stretto e difficile”. Assistevamo a quello che in scienza politica viene definito il rally ‘round the flag effect: in caso di pericolo e di minaccia esterna, l’intera nazione si stringe attorno alla bandiera. La percezione della “guerra” spinge a identificarsi con il capo di governo e ad abbassare la soglia critica verso le politiche adottate: chi critica è un disertore. Mentre però la mia generazione, e il mio Paese, e l’Europa, vivevano quella “guerra”, le classi dirigenti europee la combattevano a modo loro: con massicce dosi di austerity. Austerità che ha comportato un inasprirsi delle diseguaglianze. Anche, e più che mai, per le generazioni “nate” precarie. In una Europa che chiariva il suo baricentro a Nord: la Grecia e con lei tutta l’Europa del Sud pagavano debiti ed “espiavano colpe”. Dilaniandosi.
La seconda “guerra recente” d’Europa è la guerra al terrore. In questo caso esiste una componente bellica in senso proprio, ed esistono morti e feriti sotto i colpi delle armi, ma è soprattutto il terrore il vero nemico. Terrore che ha portato i governi europei e, tra essi, le democrazie tradizionalmente più illuminate, a sperimentare dosi massicce di “stati d’emergenza”. Un esempio? Con l’état d’urgence una Parigi ferita dagli attentati accoglie nel 2015 la conferenza sul clima COP21, e succede così che i giovani attivisti per la giustizia climatica incassano divieto di manifestare e perquisizioni. Quello che Hollande aveva definito come un attacco alla libertà – e cioè gli attacchi terroristici – si traduce per paradosso in una compressione delle libertà civili. La lotta al terrore (la “guerra”, al terrore) finisce per colpire il dissenso, e soprattutto – negli Usa come in Europa – si traduce in nuove forme di controllo sociale. Quello che nel 2013 in America era esploso come DataGate deflagra anche nel Vecchio Continente, che – in particolare in Regno Unito e Francia, ma con riflessi anche da noi – esplora forme di sorveglianza di massa. Il tema del controllo digitale – e viceversa, della privacy – entra a tutti gli effetti nel discorso pubblico, anche se la sorveglianza indiscriminata si rivela un requisito non necessario, né tantomeno efficace, per prevenire gli attacchi. L’Europa in questo caso mostra di avere i suoi anticorpi – ed è proprio un giovanissimo europeo, cioè l’austriaco Max Schrems, a condurre una poderosa battaglia legale contro la sorveglianza da parte dei colossi tech come Facebook; le iniziative di questo studente di giurisprudenza spingono l’Ue verso una revisione dei rapporti con gli Usa sul fronte dei dati. Nel 2016 inoltre Bruxelles battezza, proprio a tutela della privacy, un avanzato regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).
Il 2020 è l’anno del coronavirus. Guerra: la chiamano così anche oggi. Questo nemico è impalpabile e, fino a prova contraria, non ha missioni politiche, eppure il virus avrà, effetti politici. Proprio come lo spread e proprio come il terrore. Anche stavolta le metafore belliche servono a stringerci attorno a una bandiera, dimenticando (ma per fortuna il giochetto funziona solo all’inizio) le responsabilità politiche (le ambiguità e incertezze, la mancanza di dispositivi, le fabbriche chiuse tardi, le strategie sbagliate, i sistemi sanitari fragili e così via). Se Macron è tra i primi a dichiarare “la guerra”, le sue truppe di infermieri sono pure tra le prime a dire che “ci mandano alla guerra senza munizioni”; gradualmente, il senso critico torna a entrare a buon diritto nel discorso collettivo. Ma gli effetti di questa “guerra” si sentiranno ancora a lungo, in termini civili, sociali, geopolitici.
E la generazione Erasmus (o anche, la “generazione precaria”) li sentirà tutti. Un esempio molto concreto e lampante sta nel futuro dello “smart working”, misura necessaria e imprescindibile ora, in fase di piena emergenza. Ma dopo? Il mondo del lavoro è stato gradualmente frammentato nel corso degli anni, al punto che i precari sono tutti “diversi ma uguali”: a separarli (anche dal punto di vista delle rivendicazioni) c’è stata una miriade, una galassia, di diverse condizioni contrattuali; a unirli c’è però la stessa difficoltà di concepire progetti personali e lavorativi a lunga gittata, il senso di instabilità e la ricattabilità. Immaginate allora un mondo dove, oltre ai diversi contratti, diversi sono anche gli spazi, e non esiste più un luogo condiviso di confronto; in questo futuro prossimo, ognuno lavora dalla sua stanza, e fortunato è chi ha la stanza più spaziosa (ovvero, le ineguaglianze si inaspriscono). Immaginate anche che l’ibridazione tra tempo privato e lavorativo (per capirci, i whatsapp di lavoro e così via) diventi la norma. E che, come ha ventilato il ministro Boccia, si calcoli “non l’orario di lavoro ma gli obiettivi raggiunti”, la prestazione. Insomma, una “freelancizzazione” generale, il compimento mas
simo della esternalizzazione e della frammentazione del mondo del lavoro. Questo è uno degli scenari concreti che rischiamo.
Queste guerre che ho riepilogato sono diverse fra loro, ma i loro effetti si sommano e moltiplicano. L’austerità si somma al controllo sociale che si somma, ora, alla frammentazione potenziale e a un isolamento effettivo. Se è vero che un virus ti colpisce in base alle difese che hai, allora questo vale anche per una società: più sono gli anticorpi, meno è fragile l’organismo. Il paradosso di tutte queste guerre è che sono guerre “globali” figlie delle contraddizioni di questa globalizzazione (che è di stampo neoliberista), ma finiscono per colpire chi crede in un altro tipo di comunanza globale. Così i giovani europei speranzosi in una globalizzazione che mette al centro le persone e che riduce – invece di inasprire – le diseguaglianze si ritrovano oggi confinati dentro una stanza. Altro che populismi identitari, altro che muri ai confini dei Paesi: siamo individualmente ognuno dentro la sua frontiera. Le guerre anomale che abbiamo visto noi, noi ragazzi, io che sono nata negli anni Ottanta e quelli che ci sono arrivati più acerbi, sono guerre che prendono di mira anzitutto le parole: stravolgono la nostra foresta di simboli, ci costringono all’esilio dal nostro immaginario.
L’Europa è il mio immaginario. Il nostro; di tanti. Questa terza guerra, anch’essa di natura globale, più che mai rischia di colpire le generazioni cresciute dentro la globalizzazione: saremo noi, cresciuti senza confini, a pagare il prezzo di una globalizzazione architettata male. Mai come oggi condividiamo gli stessi rischi, le stesse paure, le stesse difficoltà – noi giovani europei. In questo, davvero, la crisi è “simmetrica”. La generazione Erasmus è abituata a scambiare esperienze e conoscenze, è meno abituata a coalizzarsi: siamo precari e frammentati, siamo uguali e diversi. Ma la spinta a “isolarsi” sarà sempre più potente, e solo andare controcorrente – cioè, unire le forze – può produrre scenari davvero nuovi. Vale per le persone come per le istanze: femministe, ambientaliste, contro le diseguaglianze… Mai come ora siamo isolati ma vicini, ai nostri coetanei britannici, francesi, tedeschi, e persino olandesi. Perciò abbiamo bisogno di Europa: non di una Unione “intergovernativa” nella quale gli Stati più ricchi e potenti “castigano” i meridionali spendaccioni, una Unione dei più forti a scapito dei deboli, ma una Europa che condivida le responsabilità e la solidarietà. Un’Europa che si rassegna, che si chiude, non è la mia. Se ora siamo tutti confinati a uno spazio privato, domani costruiamo un rinnovato spazio pubblico. Le guerre ci costringono all’esilio dal nostro immaginario, e proprio così – “un esilio dal nostro immaginario” – Roland Barthes definiva nel suo dizionario amoroso la fine di un amore. Ma noi in esilio accettiamo di andare? Davvero una guerra può far strage anche del nostro modo di immaginare le cose? La risposta è nostra.
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