Le “unbreaking news” per riportare al centro il giornalismo
Alberto Puliafito
Irene Caselli è l’unica corrispondente italiana che lavora nella redazione di The Correspondent, progetto editoriale rivolto a un pubblico internazionale che ha come slogan proprio "unbreaking news". Alberto Puliafito, direttore di Slow News, l’ha incontrata per MicroMega. La discussione inizia da un suo lavoro: raccontare i primi mille giorni di vita.
Ecco perché vale la pena di cercare alternative ed ecco perché in questa ricerca non ci si può non imbattere in The Correspondent. E in Irene Caselli, che è l’unica corrispondente italiana che ci lavora.
La prima volta che ho incontrato Irene mi ha fatto vedere questa foto. È stata scattata a Caracas, Venezuela, nel 2013. Nella foto, in piedi su un baule di quelli che si usano per le attrezzature tecniche, davanti a una telecamera posizionata su un tetto, con in mano un microfono, c’è Irene Caselli che fa un collegamento per BBC News: dietro la telecamera non c’è nessuno. Un cavo scende dal tetto e, presumibilmente, collega la telecamera a una presa di corrente. Irene, nel 2013, è una giornalista freelance – significa che non ha un posto di lavoro fisso – e sta facendo un collegamento in diretta. È appena morto Chávez e lei ha avuto la fortuna o l’intuito (o entrambe le cose) di essere al posto giusto al momento giusto. Fare tutto da sola non è una cosa nuova per Irene e non lo è nemmeno per chi esercita con passione la professione giornalistica: la rivoluzione digitale, fra le altre cose, ha segnato un solco profondo fra chi aveva il posto fisso e chi invece doveva adattarsi giocoforza al cambiamento imparando a fare un po’ di tutto per diventare giornalista multimediale.
Sette anni dopo, Irene ha qualcosa che assomiglia decisamente di più a un posto fisso. Ma per una realtà giornalistica che, probabilmente, non l’avrebbe mai assunta se si fosse proposta come reporter di breaking news: infatti è diventata una delle reporter del nuovo progetto giornalistico The Correspondent.
Nato in olandese proprio nel 2013 (pochi mesi dopo la foto scattata a Irene) come De Correspondent, il giornale ha fatto il suo esordio in inglese, rivolgendosi a un pubblico internazionale, il 30 settembre 2019. Irene, che è dell’81, è una delle giornaliste più vecchie. Il fondatore, Rob Wijnberg, ha un anno meno di lei.
Il progetto ha uno slogan molto interessante: Unbreaking News. Se volessimo riadattarlo in italiano faremmo molta fatica. Per noi le "breaking news" sono le ultime notizie. L’idea di fondo è quella di impegnare giornaliste e giornalisti a lavorare su argomenti fondativi, slegati dall’agenda del ciclo delle notizie 24 ore su 24. E di farlo con una grande attenzione al rapporto e alla relazione con il pubblico che sostiene economicamente il progetto. Ciascun membro della redazione ha il suo "beat", il tema principale di cui si occupa.
Irene è la reporter dai primi mille giorni di vita.
Ma cosa significa, esattamente? Come si fa a essere "reporter dai primi mille giorni di vita?"
«Durante gli anni in cui sono stata freelance», spiega Irene, «soprattutto in America Latina, ritornavo spesso sugli stessi temi: salute delle donne, diritti dell’infanzia, diritti riproduttivi, e mi ritrovavo sempre a trattarli perché da un lato erano temi scarsamente coperti giornalisticamente parlando e dall’altra riguardavano contesti di grande vulnerabilità.
Ho fatto un corso della Columbia University sulla prima infanzia, in cui si parlava anche della neuroscienza che riguarda questo periodo della nostra vita. E una delle cose che mi ha sorpreso molto di quel corso è stato il fatto che ho capito che, mentre la neuroscienza ci dice che i primi 1000 giorni di vita dell’individuo (inclusa la gravidanza, e in realtà si dovrebbero estendere ai primi 5 anni) sono fondamentali per il modo in cui si sviluppa il nostro cervello, per il modo in cui diventiamo adulti, non ci sono poi tanti riscontri di questo dal punto di vista politico.
Capita spesso, basti pensare al fatto che non ci siano riscontri politici seri al tema dell’emergenza climatica. Ma per quanto riguarda l’infanzia, a me sembra ancor più shoccante: siamo stati tutti bambini, continuiamo ad avere bambini. Così ho proposto questo tema».
E The Correspondent è stata l’incubatrice ideale per un argomento del genere, perché è effettivamente fondativo, non in senso metaforico.
«Esatto: il bambino dei tuoi vicini potrebbe essere un giorno il tuo prossimo presidente del consiglio o il tuo capo, per esempio. Quello dei primi 1000 giorni è un tema molto personale, ma anche molto politico. E mi dà la possibilità di parlare di tantissime cose dal punto di vista giornalistico».
Colleghi e lettori potrebbero alzare un sopracciglio di scetticismo, qui (ne ho visti personalmente farlo, durante un incontro semi-pubblico cui ho avuto il piacere di ospitare Irene).
In effetti, cosa potrebbe mai esserci di cui parlare, dal punto di vista giornalistico?
«Be’, un sacco di cose. Per esempio, la diversità di genere. L’aborto. Le diverse forme di famiglia: chi sono i diversi caregiver (*) dei bambini. Tutto inizia con la nascita: metti per esempio da dove viene la nostra identità politica? Inizia da quando nasciamo e ne parlerò in un lavoro fatto con uno dei miei colleghi in The Correspondent: Dove inizia il senso di appartenenza a una classe o a un’identità politica?! Dove nasce il senso della società? Da quando siamo piccoli.
Se prendi in considerazione l’inizio della vita in realtà puoi parlare di tutto. Facendo la reporter dai primi 1000 giorni di vita ho parlato dei vari sensi, di come ci condizionano nella nostra quotidianità. Di alimentazione: ho scritto un pezzo sul latte materno che ha a che vedere con le politiche pubbliche. Non sto scrivendo una rivista per genitori, ma sto parlando, per esempio, di come un governo aiuta i genitori. Ho parlato di sessualità, di padri e del ruolo degli uomini.
Ho parlato di gender, di come, se necessario, attribuire dall’inizio tante caratteristiche a un bambino o a una bambina a partire dal sesso. Parlo di diversità, di discriminazione, di inclusione. Il gioco, per esempio, è un concetto che associamo ai bambini, anche se giochiamo anche da adulti. Un giorno, una dei member (**) di The Correspondent mi ha scritto che avrei dovuto tenere conto del fatto che lei, madre di un bambino con disabilità, aveva grosse difficoltà a portarlo a giocare fuori con altri bambini».
Mentre Irene parla, penso che sono tutti temi molto “alti”, in un certo senso, e che rischiano di essere percepiti come molto distanti dal pubblico. Allora le parlo di un libro scritto da un pubblicitario inglese, Steve Harrison (il libro si intitola Can’t Sell Won’t Sell) che se la prende con le élite liberal della pubblicità britannica, talmente impegnate a sposare questa o quella presunta buona causa da dimenticarsi delle persone reali. Talmente convinte di sapere cos’è giusto per gli altri da produrre filmati che vorrebbero aiutare l’emancipazione femminile che hanno nei credits solo uomini. E le parlo del discorso ai Golden Globe di Rick Gervais, che ha detto, prima di dare il via alle premiazioni per le star di Hollywood: «Se vinci qualcosa stasera, non usare questo spazio per fare un discorso politico. Non sei nella posizione di insegnare proprio niente al pubblico. Non sai niente del mondo vero. E allora, se vinci, vieni qui, prendi il tuo premio, ringrazi il tuo agente e il tuo dio e te ne vai affanculo, va bene?»
È un discorso lungo per arrivare a una serie di domande specifiche, cruciali.
Come facciamo ad avvicinare un po’ il pubblico a questi temi? Non rischiamo di allontanarli sempre di
più dal giornalismo? Non rischiamo che avvertano questo giornalismo come giornalismo elitista?
È una questione che mi pongo sempre, perché è un problema reale. Una delle cose che provo a fare è cercare di avvicinare le persone alle tematiche utilizzando degli esempi molto pratici, che hanno a che fare con la vita reale. Per esempio, occuparsi delle paure e delle preoccupazioni dei bambini. In un pezzo [eccolo qui: http://bit.ly/fatina-dei-denti. Come tutti i pezzi di The Correspondent, è in inglese, ndR] ho parlato, ad esempio, di Jacinda Ardern, premier della Nuova Zelanda, che ad un certo punto, durante il confinamento, ha detto che la fatina dei denti [in alcune zone in Italia è il topolino dei denti, ndR] era considerata una lavoratrice essenziale, e quindi avrebbe potuto continuare a fare il suo. Sembra una sciocchezza, un giochino grazioso, ma in realtà Ardern fa una cosa importantissima: prende in considerazione i bambini e le loro preoccupazioni: le tratta come qualcosa di importante. Ovviamente, il rischio è che i lettori ti dicano: ma tu non sei una bambina, che ne sai, cosa scrivi?
Allora abbiamo creato una conversazione sotto l’articolo, invitando bambini a parlare di politica per bambini. È stata una bella cosa, i commenti che abbiamo avuto venivano, certo, da bambini con accesso a internet, che in qualche modo sono privilegiati, anche una bambina del Sudan che aveva partecipato alla rivoluzione lì, potendo comunicare con noi è in qualche modo “privilegiata”. Ma cerchiamo di parlare con loro, di chiedere che ne pensano, ci sforziamo continuamente di uscire dalla nostra bolla di conversazione, di frequentare altre “bolle”.
Un altro esempio? Quando parlo di latte materno – non di piacere dell’allattamento, proprio di latte materno – scrivo, per esempio, che sappiamo davvero poco di un alimento intelligente. E se ne sappiamo poco, come possiamo prendere decisioni politiche in merito? Per esempio, negli Stati Uniti c’è stata una grande campagna per incentivare le mamme a tirarsi il latte e sono state predisposte delle sale sui posti di lavoro per consentire quest’operazione alle mamme. Ma secondo alcuni il latte materno può modificarsi a seconda delle esigenze del bambino grazie al contatto con il seno materno. E quindi, se così fosse, la scelta di queste sale e di questo tipo di campagna sarebbero scelte poco sensate. Ecco: in generale credo che un modo per avvicinare le persone a questi temi sia proprio coinvolgerle e mostrare loro che sapere di certi argomenti aiuta a prendere decisioni corrette su basi sensate.
I media tradizionali, invece, quando parlano di questo argomento, rischiano di scatenare le guerre fra mamme: la fazione di quelle che allattano, la fazione di quelle che vogliono il latte artificiale, si cita questo o quello studio e si polarizza la conversazione. È come se si creasse ogni volta un nemico o una questione per cui tifare, e così si distoglie l’attenzione dal tema».
Parli spesso del rapporto con le persone. Voi avete un grosso problema: parlate a un pubblico vasto: 50mila member da oltre 140 paesi. Come si fa a parlare a persone così diverse, di culture così diverse?
È complesso e la varietà delle persone che ci sostengono è notevole: abbiamo, fra i member, anche dei negazionisti del cambiamento climatico, per esempio. Abbiamo persone di vedute molto chiuse rispetto al gender. Abbiamo persone che, quando si parla loro di bambini, ti dicono: «Ma figuriamoci, i bambini non hanno capacità di dire niente». Allora. è vero che in parte parliamo a persone che la pensano come noi. Ma proviamo ad andare oltre: creiamo conversazioni in maniera consapevole e diretta. Per esempio, facendo rispondere i bambini. Magari una persona che li sottovaluta non crede a me che ne scrivo da adulta. Ma se sente qualcosa da loro, se vede che ritorniamo spesso su questi temi, da diversi punti di vista, ecco che magari si creano altre dinamiche, dopo qualche mese o qualche anno.
È un percorso di lungo periodo.
Sì, sì, non è scrivi un articolo e domani cambia la legge, è una cosa che ho ben chiara.
Per esempio, ogni volta che devo spiegare chi sono ci metto un po’ di tempo a spiegare perché scrivo su quello che scrivo e perché è importante.
E infatti anche qui ne abbiamo parlato abbondantemente.
Certo. Probabilmente col tema dell’emergenza climatica succedeva questo 30 anni fa. E non lo dico per dire che io sia più o meno all’avanguardia. Ma perché è importante aver ben presente che il percorso è lungo.
E in questo periodo così lungo, visto che voi fate della conversazione uno dei punti di forza del vostro progetto giornalistico, come si parla con le persone? Te lo chiedo perché penso ad alcuni esempi nel giornalismo italiano in cui, soprattutto sui social, si “blasta” la gente, si risponde male se qualcuno dice qualcosa di sbagliato o che sembra stupido.
Poi abbiamo una redazione “multiculturale” che può garantire molte prospettive diverse. Quando sento che il tema che sto trattando è complicato, comincio a passare i miei articoli in giro, chiedo opinioni ai member. Sto mettendo su un advisory board [un gruppo consultivo. Qui puoi leggere il pezzo in cui Irene fa l’annuncio di questa iniziativa: http://bit.ly/advisory-board-reader, ndR] fra lettrici e lettori: sto cercando di avere member da molte parti del mondo e molto diversi fra loro (per esempio, una donna incinta in Ruanda, una nonna che si prende cura del nipote in USA perché il figlio ha problemi di droga…) a cui mandare i miei pezzi in anteprima per sapere cosa ne pensano, avere suggerimenti.
Certo: ci sono personaggi molto corrosivi nell’ambiente digitale, anche fra i nostri member. Io in genere cerco di ragionarci, di capire in che maniera posso mettermi in contatto con loro.
A me non piace il conflitto, quindi in genere provo a trovare una mediazione. Poi, sai, io sono anche molto esposta personalmente, perché sono reporter dai primi 1000 giorni mentre li sto vivendo con mio figlio Lorenzo. E allora capita, per esempio, che quando scrivo un pezzo gender free [http://bit.ly/gender-free-the-correspondent] mi dicono che sto inguaiando la vita a Lorenzo e che gli levo tutte le certezze.
[Seguendo questo link: http://bit.ly/commento-gender-free, per esempio, si può leggere un member di The Correspondent che scrive a Irene un lungo commento che inizia così: «Leggendo l’articolo, mi sono preoccupato per l’infanzia di Lorenzo. Cosa succederà se, all’età di 8 o 19 anni, iniziasse ad avere le sue idee e non volesse essere cresciuto come un bambino femminista o gender free? Cosa accadrebbe se volesse essere solo uno di quei ragazzi stereotipati?». Il commento prosegue e poi, sotto, si dipana una lunga conversazione di valore: è interessantissima da seguire.]
Insomma, porsi questo tipo di problemi e fare questo tipo di conversazioni diventa parte del lavoro giornalistico. Sì, la conversazione con i member è parte del nostro lavoro, così come la conversa
zione e il confronto all’interno della redazione o con altri esperti. Ed è un approccio che richiede anche molta trasparenza. Dopo quella serie di commenti, per esempio, ho deciso di scrivere un pezzo sul cervello maschile/femminile [http://bit.ly/cervello-maschile-femminile]. Ma poi ho deciso di lasciar perdere e ho scritto un pezzo in cui raccontavo il perché [http://bit.ly/lasciar-perdere-la-storia]
Oppure, il pezzo in cui i bambini parlavano di politica è arrivato fino al Children Commissioner scozzese [il Commissario per i bambini in Scozia, ndr] e sono arrivati un sacco di membri del parlamento dei bambini scozzesi. E così l’articolo ha avuto una seconda vita dopo la pubblicazione. La cosa bella è che la conversazione che si è sviluppata è anche più interessante del mio articolo, lo ha arricchito. Allora ho preso alcuni dei temi più interessanti della conversazione e li ho riportati in una newsletter [che puoi leggere qui: http://bit.ly/interventi-bambini]. E poi l’abbiamo tradotta anche in olandese per la versione olandese di The Correspondent.
Con il tuo beat hai a che fare anche con cambiamenti culturali temporali e non solo geografici. Penso, banalmente, alla filastrocca del “questo bimbo a chi lo do”: una volta i bambini li terrorizzavamo cantando loro che li avremmo dati all’«uomo nero che li tiene un anno intero». Adesso li rassicuriamo (per fortuna). Come si affronta questo?
È molto difficile, anche perché io non voglio fare l’enciclopedia, la wikipedia della genitorialità e dell’infanzia.
Il punto è sapere che esistono queste dimensionidi cambiamento, aver ben presente la dimensione storica.
Quindi, per esempio, nel pezzo sul latte materno alludo alla parte storica e racconto un po’ la storia di come si è adottato, per esempio, il tiralatte negli Stati Uniti per dire, come ti dicevo, che stiamo prendendo decisioni politiche che hanno a che fare con la vita delle persone, ma le prendiamo spesso sulla base della sensibilità del momento, del mercato e via dicendo.
Sembrerebbe un giornalismo molto distaccato da quello che succede qui e ora, è così? Pensi che le breaking news siano evitabili, come dice per esempio Rolf Dobelli nel suo libro “Smetti di leggere notizie”? [Per un’intervista approfondita a Dobelli e all’idea di liberarsi dalle news: http://bit.ly/la-truffa-delle-news]
Dipende. Nel senso che ci sono cose che succedono qui e ora che hanno un effetto reale su di te. E avere accesso alle informazioni è importante, soprattutto per le persone che non hanno mai avuto, storicamente, possibilità di informarsi. Ma al tempo stesso, è davvero necessario ascoltare un giorno un medico che dice che se hai la malattia da coronavirus non puoi allattare e il giorno dopo, sulla stessa testata, un medico che dice che puoi farlo? Il punto è, però, che se sei sempre a caccia di news, ogni giorno esce uno studio diverso, che magari viene interpretato, anche in buona fede, dal giornalista di turno che non ha le competenze e le esperienze per capire bene i dati. E allora, poi, esce il pezzo con il titolo carino, accattivante, che il giorno dopo non vale più.
Ecco, noi cerchiamo di dare contesto geografico, storico. Cerchiamo di avere pezzi che vanno più in profondità (***).
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Note
(*) A volte, quando parla, Irene, che lavora all’estero da moltissimi anni, mescola le parole italiane all’inglese. In questo caso, la scelta di "caregiver" è importante e la lasciamo nel testo è un sostantivo che in italiano tradurremmo con "badante", ma che è molto più vicino al concetto di "prendersi cura". Per esempio, nonni che si prendono cura dei bambini in situazioni in cui la migrazione è molto alta. Una curiosità: dei bambini che imparano più lingue si dice che scelgano le parole più adatte da una lingua all’altra, nei primi anni di vita.
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