L’egemonia vaticana in tv
Santi, papi, preti sono i protagonisti delle fiction più seguite. Il peccatore, l’esperto, il sacerdote: questa la triade immancabilmente presente in ogni programma di cosiddetto approfondimento, dal mattino alla sera. E al religioso di turno si affida in esclusiva il ruolo di moralizzatore. Una strategia a bassa intensità ma capace di incidere profondamente nelle coscienze. Come se non fosse pensabile un’etica senza fede.
di Fabio Bartoli
Questa televisione è un’istituzione stupenda!
Giovanni Paolo II, Aula Paolo VI, 15-3-2003
Padre Ralph e Madre Tv
Sono venuto a cacciare pederasti e comunisti.
Filiberto Guala, presidente della Rai dal 1954 al 1956
È il 30 settembre 2007 e su Canale 5 riparte Buona domenica, contenitore domenicale della rete ammiraglia, programma generalista per eccellenza, rivolto alla famiglia finalmente riunita dopo la forzata diaspora degli impegni infrasettimanali. È ospite don Sante Sguotti, alla ribalta della cronaca per la relazione con una parrocchiana dalla quale ha avuto anche un figlio. La conduttrice Paola Perego lo mette a suo agio, lo rassicura che nessuno giudicherà la sua condotta e che la sua vicenda non sarà materiale da gossip (excusatio non petita…). La presentatrice, nonostante la sua avvenenza, gioca un ruolo materno, protettivo, da buona padrona di casa che lascia l’invitato libero di esternare le proprie emozioni in tutta tranquillità.
Il parroco riesce dunque a parlare del suo amore innocente fatto di buoni sentimenti, fino a quando irrompe nella discussione Massimo Maffei, direttore del Radiocorriere Tv, nel ruolo censorio del padre di famiglia, che sancisce lo status di deviante del prete, aggredendo in questi termini gli argomenti a favore del celibato sacerdotale avanzati da don Sante: «Buona sera. Lei sta dicendo delle cose che evidentemente toccano il cuore delle persone che sono qui presenti e questo è indubbio visti gli applausi che riesce a strappare. Intanto, però, mi sembra che l’obbedienza… che trasgredire non significhi obbedire e che lei… le belle parole che dice risultano poi una trasgressione a ciò che è l’insegnamento, a ciò che impartisce Madre Chiesa. Voglio dire: va benissimo parlare di sentimenti; il problema è che però lei dimentica un particolare che è un macigno ostativo: lei è un sacerdote, lei dovrebbe dare anzitutto il buon esempio».
Perfetto: vanno bene i buoni sentimenti, soprattutto se strappano applausi (e audience); ma nonostante mamma Perego lasci spazio al novello padre Ralph (1) sul canale principale di Madre Mediaset, quest’ultima non si pone affatto in contrasto con Madre Chiesa, la cui posizione è espressa dal portavoce dell’azienda papà Maffei, più volte inquadrato mentre scuote la testa in segno di disapprovazione per le parole pronunciate dal «figlio» degenere (e le inquadrature, lo sa chi ha qualche familiarità col mezzo dal suo interno, non sono mai catture estemporanee di un flusso che procede spontaneo come si vorrebbe far credere).
Colpisce, della sequenza appena descritta, oltre all’uso del vocabolo «ostativo» (che il direttore del Radiocorriere Tv adopera sicuramente anche quando gioca a briscola), che l’emittente tramite il suo simulacro Maffei si prodighi per dimostrare la convergenza totale col punto di vista di Madre Chiesa, tanto che è sempre lo stesso Maffei a far presente a don Sguotti che si è chiamato fuori da una Chiesa che il sacerdote afferma di voler cambiare dall’interno. Maffei, d’altro canto, sembra aspirare al ruolo di piccolo Torquemada televisivo: il 7 ottobre infatti, sempre a Buona domenica, alle richieste di Beppino Englaro riguardo la possibilità di interrompere l’alimentazione artificiale che tiene in vita sua figlia Eluana, ragazza da 15 anni in stato di coma vegetativo, ha contrapposto le disposizioni date dalla Congregazione per la dottrina della fede, il vecchio Sant’Uffizio, in merito al caso di Terry Schiavo. E dire che in questa circostanza non era presente nemmeno una «pecorella smarrita» da ricondurre all’ovile come il già citato don Sante, a scanso di equivoci definito «il Diavolo» nella puntata del 14 ottobre…
Stessa musica con il contenitore domenicale della Rai, Domenica In, che ha preso il via una settimana dopo. La conduttrice, Lorena Bianchetti, è nota al grande pubblico soprattutto per essere il volto femminile della comunicazione religiosa della Rai, avendo condotto per anni il programma A sua immagine, realizzato in collaborazione con la Cei, varie Giornate mondiali della gioventù e diversi eventi legati al Giubileo. Oltre, naturalmente, ad aver scritto in passato per il Radiocorriere Tv. Ecco quanto dichiarato al Corriere della Sera da chi alla Bianchetti ha lasciato il passo, Mara Venier, allontanata dal programma presumibilmente non solo a causa della furibonda lite Zequila-Pappalardo: «Del Noce ha parlato con il mio agente Lucio Presta che mi ha riferito cose molto gravi: che io non farò più Domenica in perché il Vaticano avrebbe esercitato forti pressioni chiedendo il mio allontanamento; e perché ho condotto una serata per Walter Veltroni. Due ragioni inaccettabili». E vedendo l’intervista tutta sorrisi della stessa Bianchetti al segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone in occasione delle celebrazioni per la presunta apparizione di Fatima viene la voglia di scagionare completamente la presentatrice veneziana da ogni accusa di dietrologia.
Proviamo perciò ad analizzare più a fondo le ragioni del felice sodalizio tra il Vaticano e i due poli televisivi italiani e di come esso si espliciti davanti ai nostri occhi non solo la domenica.
Le fiction religiose e il tentativo di egemonia storico-culturale cattolica
Non si tratta, naturalmente, di fare di ogni erba un fascio, benché la Chiesa Cattolica sia riuscita nel Novecento a fare con ogni fascio un concordato.
P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani
Per esaminare la presenza della cultura cattolica nella televisione italiana si può partire dall’analisi del genere televisivo più in voga nell’ultimo decennio: la fiction. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio italiano fiction (2) nel decennio 1996-2006 (nel quale sono compresi due eventi cardine della storia recente della Chiesa: il Giubileo del 2000 e la morte di Giovanni Paolo II) una fiction su cinque è stata di carattere religioso, incontrando evidentemente i gusti del grande pubblico, tanto che tra i 15 sceneggiati più visti durante il periodo in questione ben 9 hanno avuto come protagonisti santi, papi, sacerdoti e anche figure femminili come Madre Teresa (da notare inoltre come in Bartali, l’intramontabile venga messa bene in evidenza l’adesione all’Azione cattolica del ciclista toscano interpretato da Pierfrancesco Favino). Ancora più interessante un altro dato: la metà delle fiction classificate come appartenenti al filone «identità e memoria» (che costituiscono il 18 per cento della programmazione) è di carattere religioso. Proprio oggi che l’identità si fa più labile e la memoria tende a svanire rendendo la nostra vita quotidiana sempre più incerta, la Chiesa offre ancoraggi saldi, figure carismatiche alle quali affidarsi per dissipare le proprie incertezze. Tra il Vaticano e la televisione italiana si è quindi instaurato un rapporto di dare/avere proficuo per entrambe le parti. I prodotti culturali hanno bisogno di figure di eroi forti intorno alle quali strutturar
e le proprie trame, personaggi che possano incarnare le esigenze di drammatizzazione e spettacolarizzazione proprie di un testo audiovisivo. I papi e i santi risultano perfetti per il ruolo. Ma c’è di più.
La Chiesa, come si evince dalla lettera apostolica Il rapido sviluppo, sa bene di avere una «missione certamente non facile in questa nostra epoca, in cui va diffondendosi la convinzione che il tempo delle certezze sia irrimediabilmente passato: per molti l’uomo dovrebbe imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole». Ma sa anche che «in questo contesto, gli strumenti di comunicazione possono essere usati “per proclamare il Vangelo o per ridurlo al silenzio nei cuori degli uomini”» (3). Proprio questo è il motivo per cui il Concilio Vaticano II ha inserito i mass media Inter mirifica (letteralmente: tra le meraviglie), come recita il suo Decreto sugli strumenti di comunicazione sociale.
Se a proclamare il messaggio delle gerarchie nelle trame della fiction sono le superstar della storia della Chiesa, altrettanto utile a questo scopo è l’oscuro ma prezioso lavoro dietro le quinte svolto dagli addetti ai lavori, la cui consulenza diventa una vera e propria supervisione dell’opera, richiesta anche dagli autori, come dichiara Giulio Base, regista di Maria Goretti e Padre Pio, tra cielo e terra, orgoglioso del fatto «che Padre Pio ha avuto il benestare dei cappuccini e Maria Goretti quello dei passionisti, ovvero dei due ordini che sono i depositari della verità storica dei due santi da me raccontati» (4). Certo, all’epoca della realizzazione della fiction non era ancora uscito il libro appena pubblicato da Einaudi Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento di Sergio Luzzatto, che la verità storica la cerca con ben altro rigore, ma il fatto che il regista la affidi a un ordine monastico la dice lunga sull’atteggiamento servile dell’industria culturale italiana nei confronti della Chiesa. Di sicuro non c’era da aspettarsi dai cappuccini riferimenti all’acido fenico e alla veratrina coi quali il suo membro più famoso sembra «coltivasse» le sue stimmate, retroscena sul quale indaga proprio Luzzatto nel suo volume poc’anzi menzionato.
Chi le «verità» non ha bisogno di cercarle altrove è Giuseppe De Carli (5), responsabile della struttura Rai-Vaticano, la cui mano è visibile in Papa Luciani, il sorriso di Dio, fiction che, insieme al Padre Pio interpretato da Castellitto e a Karol, un uomo diventato papa, dimostra come il connubio tra memoria e religione si risolva in una rielaborazione della prima sotto l’egida della seconda, in un tentativo di egemonia culturale sui processi storici degli ultimi settant’anni. Si prenda per esempio in esame la rappresentazione della Resistenza: in Papa Luciani il futuro Giovanni Paolo I scongiura l’esecuzione di due fascisti da parte di un capo partigiano, suo vecchio professore, dimostrando come una lotta, seppur legittima, può trasformarsi in feroce barbarie qualora non si inscriva nell’ottica della fede, che sola sa garantire il rispetto per la dignità e l’integrità dell’essere umano. Veri e propri tratti di barbarie la lotta di liberazione li assume invece in Padre Pio, dove il frate di Pietralcina, al sopraggiungere della morte, implora la benedizione al prete venuto a interrogarlo sul suo mistero con queste parole: «La prego, mi assolva. Non mi faccia fare la fine di quel povero ragazzo… Quel ragazzo, durante la guerra…». A rivelare l’identità del «povero ragazzo» ci pensa la sequenza successiva, che ci mostra un soldato della Wehrmacht trucidato da spietati partigiani, identificati dal fazzoletto rosso intorno al collo. Almeno in questo caso, visti i legami tra Padre Pio e il collaborazionista Emanuele Brunatto, la fiction – pur non avendo certo questo obiettivo – presenta indirettamente un aspetto veritiero.
Quando a essere fucilati al contrario sono proprio quattro partigiani (siamo di nuovo a Papa Luciani) si noti come questi accettino di ricevere l’estrema unzione da monsignor Bordignon, delimitando così tutta la loro vita e non solo la propria azione politica all’interno dell’orizzonte dalla fede cristiana. Senza fede non si va dunque da nessuna parte: nello sceneggiato Karol, che ricostruisce la vita del pontefice prima della sua salita al soglio di Pietro, i nazisti che invadono la Polonia vengono giudicati «il male assoluto» (e dopo i Patti lateranensi e i concordati della Santa Sede con Hitler e Franco ci vuole una gran faccia tosta a dipingere la Chiesa come antagonista principale del nazifascismo); uno di loro però si «redime», disobbedendo agli ordini per salvare Wojtyla e venendo per questo condannato a morte. Il soldato teutonico trascorre allora i suoi ultimi istanti in compagnia di un parroco interpretato da Raul Bova, riappropriandosi così interamente della sua natura di uomo solo grazie all’intermediario di Dio.
Anche il Sessantotto trova spazio in Papa Luciani, allorché due turbolenti studenti incontrano lungo il loro cammino contestatario il pastore di Canale d’Agordo, che li stupisce con una citazione riguardo la cui fonte i due giovani discutono, attribuendola chi a Lenin chi a Mao; a sedare la disputa pensa sempre lo stesso personaggio interpretato da Neri Marcorè, che li spiazza e li conquista nello stesso tempo rivelandogli chi fu a pronunciare le parole da lui riferite: Gesù Cristo, il vero rivoluzionario. Già che c’è, la fiction non si fa mancare niente e dice la sua anche sul movimento operaio, tratteggiato con le fattezze di un lavoratore di Porto Marghera sfruttato e sfrattato, che – giunto al culmine della disperazione – si trova recapitata dal futuro Giovanni Paolo I una croce (regalo di papa Roncalli) direttamente nel palmo della mano che altrimenti – senza l’intervento di Santa Romana Chiesa – sarebbe stata presumibilmente pronta a impugnare una pistola offerta da chissà quale organizzazione terroristica.
D’altronde, come recita la Centesimus annus di Giovanni Paolo II: «Lotta di classe in senso marxista e militarismo […] hanno le stesse radici: l’ateismo e il disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio della forza su quello della ragione e del diritto». Non è quindi un caso che nello sceneggiato dedicato al promulgatore dell’enciclica appena citata gli operai polacchi fronteggino la dittatura marxista armati di un enorme croce. Ciò che interessa in questa sede non è tanto dare un giudizio sul marxismo o sulla legittimità della lotta di classe, quanto constatare come le fiction religiose facciano passare il messaggio secondo il quale è la legge divina l’unica garante del diritto e della democrazia, in accordo con quanto dichiarato da Ratzinger lo scorso 5 ottobre.
Per finire, va segnalato come lo sceneggiato su Giovanni Paolo I analizzi una questione davvero spinosa per la Chiesa, ovvero la morte del successore di Paolo VI, sulla quale aleggia ancora la teoria del complotto sostenuta da David Yallop nel suo In nome di Dio. La morte di Papa Luciani (ed. Pironti, Napoli 1997). Già De Carli prima dell’inizio delle riprese aveva dichiarato alla testata online Affari Italiani che «è da escludere in maniera categorica che ci sia il giallo dell’avvelenamento o cose di questo genere». E una delle ultime sequenze serve a proprio a respingere questa ipotesi: la tazzina di caffè «incriminata», con la quale il pontefice avrebbe potuto essere ucciso, viene infatti mostrata ancora piena e intatta dopo il fatale attacco di cuore, segno in
equivocabile che il papa è morto di morte naturale.
Ciononostante il cardinal Bertone ha espresso dalle colonne di Avvenire dure critiche nei confronti del lavoro di Giorgio Capitani, accusato di alludere alla tesi di Yallop, dimostrando così una scarsa familiarità con le immagini alquanto inusuale per un alto ministro della curia. Evidentemente il giallo della morte di papa Luciani è un nervo ancora scoperto, dal momento che a esso sono legate le vicende dello Ior e quella del crack del Banco Ambrosiano. Non tragga però in inganno la rappresentazione di Marcinkus, che dello Ior fu presidente dal 1971 al 1989, tratteggiato coi tipici panni del «cattivo»: il suo scontro con Giovanni Paolo I («Ci hanno insegnato ad amare il Dio trino, non quattrino») serve a dissipare le ombre sul suo rapporto con Wojtyla, che lo lasciò al suo posto per ben sette anni dopo la sua incriminazione, ritratto come inequivocabilmente «buono» nel solco della scia del suo predecessore, dal momento che – sempre secondo De Carli – «in quei 33 giorni di pontificato di papa Luciani c’erano tutte le caratteristiche per dire che era un papato profetico, una sorta di raccordo che preparava l’arrivo su un’autostrada, quella che poi ha percorso Giovanni Paolo II».
Padre Jorge e i Pacs-ticci di Nonno Libero
Madonna benedetta dell’incoronèta!
Lino Banfi
L’interventismo bertoniano non deve però stupire. Le gerarchie ecclesiastiche, tramite l’Osservatore Romano, sono arrivate addirittura a mettere preventivamente alla gogna Un medico in famiglia, prodotto dispensatore di buoni sentimenti le cui storie si distinguono per un garbato taglio sociale. La pietra dello scandalo, orchestrato da Tv Sorrisi e canzoni che ha anticipato i temi della quinta serie della fiction, è la convivenza di Oscar – medico omosessuale che si porta in dote una figlia nata da una sua passata esperienza etero – con il suo nuovo compagno, col quale dà vita a un nucleo familiare non propriamente tradizionale. Il Vaticano ha dimostrato di avere notevolmente a cuore il problema del rapporto tra i mass media e l’immagine che essi diffondono della famiglia, tanto che questo è stato il tema affrontato da Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la 38a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. L’eventualità di una non corretta rappresentazione della famiglia da parte della serie costruita intorno all’ormai celeberrimo Nonno Libero Martini ha fatto scattare sull’attenti l’Osservatore Romano, scagliatosi contro le fiction che «prospettano una visione della realtà tanto superficiale da risultare ingannevole per quanti, e sono molti, considerano la televisione come la dispensatrice della verità». Verità che è tale solo se in armonia con le direttive della curia papale.
Già in precedenza Lino Banfi – uomo di comprovata fede cattolica e di simpatie politiche orientate a destra – che di Nonno Libero è interprete, era finito nell’occhio del ciclone per Il padre delle spose, dove interpreta il ruolo di un uomo del Sud di vedute tradizionali che per amore della figlia si ritrova via via ad accettare la sua omosessualità (non è un caso che tale sceneggiato sia il frutto di una coproduzione con la Spagna zapateriana). Riguardo alle critiche ricevute in proposito sempre dall’Osservatore Romano, il mitico «Oronzo Canà» aveva risposto sul suo visitatissimo blog (www.showfarm.com/linobanfi) con un post dall’ironico titolo Piccole osservazioni romane, nel quale scrive: «Ma che tipo di diktat è questo elzeviro dell’Osservatore Romano? Perché tutto il mondo mediatico si preoccupa e quasi si impaurisce? Perché le critiche su quotidiani prestigiosi fatte da giornalisti un po’ più informati del nostro nobile intellettuale con due cognomi possono essere sempre discutibili e questo intervento del giornale vaticano suona come una condanna? È possibile che a settant’anni suonati io debba per forza recitare un mea culpa? Per cosa? Ubi est mea culpa? Solo perché ho fatto (come attore “ex comico” di prodotti di serie Z, che rifarei volentieri) la fiction Il padre delle spose, ideata da me e non dalla Rai? Perché nessuno spiega al pubblico “meno provveduto”, come scrive sempre il nostro con due cognomi, che la suddetta fiction ha avuto delle pressioni così forti, non sappiamo da parte di chi o lo sappiamo ed evitiamo di dirlo, per le quali ha rischiato di non andare più in onda e rimanere per sempre confinata nei magazzini? E meno male che alcune persone con le persiane del cervello un po’ più aperte hanno difeso me e il prodotto, che è andato in onda lo stesso con un grandissimo successo di ascolto. Ho toccato il tema dell’amore di un padre verso una figlia che supera tutte le barriere, anche quella dei gusti sessuali. Il tema della comprensione, dell’altruismo, della compassione e del perdono. In un certo senso il tema del figliol prodigo. Non sono anche questi temi che riguardano la famiglia? O abbiamo capito male, fin da ragazzini, tutto ciò che ci veniva insegnato in famiglia e in Chiesa? Come si fa a definire il pubblico che segue da 10 anni questa nostra fortunata serie di Un medico in famiglia un pubblico sprovveduto, quando invece abbiamo avuto riscontri di un pubblico di tutte le età con prevalenza di medio-alta cultura?».
Si noti tra l’altro che nella quinta serie di Un medico in famiglia non avviene quanto preannunciato da Tv Sorrisi e canzoni, abile a inserire la sua fallace anticipazione nel solco dei dibattiti legati alla questione dei Pacs/Dico (non a caso un altro post sul blog di Banfi reca il titolo Le polemiche su Un medico in Famiglia e i Pacs-ticci di Nonno Libero). A scanso di equivoci, a bastonare «retroattivamente» la serie di Rai 1 ha pensato il Movimento italiano genitori, il famigerato Moige (al quale si deve la censura dell’ironico spot delle patatine Amica chips con un «ripulito» Rocco Siffredi) che pur si vanta sfacciatamente di essere un’organizzazione aconfessionale, che tramite il suo Osservatorio tv afferma: «L’immagine della famiglia, che aveva in Nonno Libero il suo perno, ha perso di identità, i personaggi sono diventate caricature, spinti all’eccesso, per cercare di vivacizzare una storia che, nel corso delle varie edizioni, si è comunque saturata». La perdita d’identità della famiglia è presumibilmente riconducibile al matrimonio di Emilio, inquilino di casa Martini, con la nipote del vicino indiano di Nonno Libero interpretato dall’ex «Sandokan» Kabir Bedi, di religione indù e quindi – come direbbe nei Simpson il reverendo Lovejoy – «miscellaneo».
D’altronde ultimamente tra il Vaticano e i comici non corre buon sangue: si pensi agli strali lanciati da Avvenire contro Maurizio Crozza e Fiorello, accusati – con le rispettive imitazioni di papa Ratzinger e del suo segretario padre Georg – di fare una «satira fallimentare non priva di vigliaccheria». Bando alle risate, quindi, e, come il padre Jorge di Il nome della rosa, si ritorna a intridere di veleno le pagine della Poetica. Niente comunque rispetto a quanto capitato ad Andrea Rivera, definito addirittura «terrorista» dall’Osservatore Romano per il suo intervento al concerto del Primo maggio: «Il papa ha detto che non crede nell’evoluzionismo. Sono d’accordo, infatti la Chiesa non si è mai evoluta». E ancora: «Non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali a Welby. Invece non è stato così per Pinochet, Franco
e per uno della banda della Magliana. È giusto così: assieme a Gesù Cristo non c’erano due malati di sla, ma due ladroni». Partendo dalla constatazione che quanto dice Rivera è ineccepibile dal punto di vista del mero riferimento ai fatti, risulta ancora più sconcertante la condanna inflitta al comico del citofono anche dalla progressista Rai 3 congiuntamente con i sindacati, Cgil in testa.
Il diagnostico, il curatore e ‘la misura del vero umanesimo’
Come le lucciole, le religioni per splendere hanno bisogno delle tenebre.
A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena
Non solo i sindacati ma tutto il mondo politico – fatte salve alcune sparute eccezioni – è ormai prono di fronte a Santa Romana Chiesa. D’altronde, chi la politica italiana l’ha dominata per un ventennio, il 5 maggio del 1929 ha avuto modo di dire: «Le idee di religione hanno ancora molto impero, più di quanto non si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grande servizio all’umanità. Essendo d’accordo col papa si domina ancora la coscienza di cento milioni di uomini» (6). Questo ha dimostrato di saperlo molto bene anche Bruno Vespa: nel suo speciale di Porta a porta dedicato al trapasso di Giovanni Paolo II dopo circa un paio di minuti dall’annuncio dato in diretta della morte del pontefice (scoop!) un ragazzo del pubblico – appositamente collocato in prima fila – scoppia in un pianto disperato. Niente di strano, non fosse per il fatto che lo stesso era stato inquadrato pochi secondi prima mentre rideva sotto i baffi (e lo si può vedere con chiarezza nel video disponibile su YouTube). Una scena quindi preparata ad arte, che testimonia come si dia per scontato che il pubblico a casa (di cui quello in studio è l’ipotetica rappresentazione datane dall’emittente) sia cattolico (la ragazza che parla dice infatti: «Noi siamo cristiani»). Non si dimentichi in proposito che sintonizzarsi sul gusto del pubblico significa audience e… voti. Infatti, per continuare il discorso prima intrapreso, il vecchio adagio mussoliniano ha ricevuto una conferma eclatante il 14 novembre 2002, quando il papa, con tanti saluti alla presa di Porta Pia, è stato accolto in parlamento con tutti gli onori da parte dell’intera classe politica italiana.
La Chiesa infatti sa, come già menzionato, di trovare terreno fertile in un’epoca caratterizzata dalla carenza di orizzonti di «senso», il vuoto di valori di cui tanto si parla. Si erge così a unica maestra di «etica», sia nel senso di precetti morali sia nel senso etimologico di ethos, «costume». Ed è proprio nelle trasmissioni quotidiane che al costume sono dedicate che è possibile rendersi conto della strategia a bassa intensità del Vaticano, decisiva quanto e forse più degli eventi in prima serata. La presenza dei sacerdoti in tv è così costante che viene voglia di applicare al clero quanto detto da Daniele Luttazzi riguardo Maurizio Costanzo e Maria de Filippi: «Se giocassero anche a pallone sarebbero in televisione 24 ore su 24». Si va dagli alti esponenti ecclesiastici come i cardinali Tonini e Ruini, il quale ha risparmiato a Luciana Littizzetto la stessa sorte di Crozza e Fiorello poiché ha giudicato la sua imitazione latrice di «pubblicità gratuita» mentre era accolto con tutti gli onori a Mediaset, ai cosiddetti preti di frontiera come don Gino Rigoldi e don Antonio Mazzi, noto soprattutto per la sua presenza fissa a Domenica In dove gli abiti talari non hanno di sicuro iniziato a circolare con la Bianchetti. Se i primi possono legittimare il loro «interventismo» con l’autorevolezza conferita dalla loro posizione gerarchica, i secondi possono fare altrettanto in virtù del loro comprovato impegno sociale, scelta che appare così praticabile solo partendo dalla parrocchia. E proprio questo è il messaggio che alla lunga è destinato a far breccia nelle coscienze, ancora più delle ingerenze dei già citati Ruini e Tonini, i quali si espongono generalmente in occasioni specifiche e di grande richiamo come per il referendum del 2005 sulla procreazione assistita.
Chiunque abbia assistito a un talk show si sarà sicuramente accorto che, oltre agli ospiti che parlano dell’argomento di volta in volta trattato a titolo personale come farebbero in qualsiasi altro salotto, quasi sempre partecipino alla discussione due figure alle quali spetta l’ultima parola: l’esperto e il prete. A parte casi di presunti specialisti e opinionisti – che rendono superflua la presenza della tonaca – come il già citato Maffei e l’attuale superstar degli «esperti» Alessandro Meluzzi (psicologo con un passato da politico trasformista, che alla trinità freudiana Io-Es-SuperIo sostituirebbe volentieri quella Padre-Figlio-SpiritoSanto; e il titolo di un suo libro, Il sesso: bestialità e religione, la dice un po’ tutta) (7), si può facilmente dedurre come all’esperto sia assegnato il ruolo di «diagnostico» mentre al prete quello di «curatore».
Detto altrimenti: quando si parla di un problema a sfondo sociale all’«esperto» viene attribuito il compito di spiegare le cause che soggiacciono all’accaduto, ma solo al prete è conferita l’autorità adeguata per proporre le soluzioni, dunque i valori-guida per l’intera società. Si prenda ad esempio il calcio, amore nazionale tradito dal «Moggigate»: a proporre il suo risanamento è don Santino Spartà, il monsignore dello spettacolo, che il 14 ottobre su Quelli che il calcio e… dichiara a Simona Ventura che la Cei è entrata nel consiglio di amministrazione dell’Ancona per portare direttive etiche nel mondo del pallone, proprio mentre lo juventino Nicola Legrottaglie racconta di aver superato la propria crisi professionale solo grazie alla fede. D’altronde già all’epoca di Fabio Fazio erano abituali le presenze di religiosi in trasmissione, ognuno avvezzo ad assolvere la sua funzione nello stadio della propria squadra: dall’atalantino padre Alvaro al cosentino padre Fedele Bisceglia (divenuto in seguito più noto per le accuse di violenza sessuale) fino alla laziale suor Paola.
Il 5 novembre quest’ultima è stata ospite dell’Italia sul due, programma pomeridiano della seconda rete, che più di ogni altro permette l’attuazione di quella strategia a bassa intensità prima enunciata. Il target a cui si rivolge è composto prevalentemente da casalinghe e ragazze con un non elevato livello di cultura e quindi più facilmente influenzabili, alle quali proprio nella puntata in questione viene proposto – con grande attenzione alle sfumature – l’unico ruolo femminile opponibile a quello della velina: la suora. Così prima del lungo spazio dedicato ai funerali di don Oreste Benzi suor Myriam Castelli, già creatrice e conduttrice di diversi programmi religiosi, viene elogiata dal conduttore Milo Infante per aver fatto la «controrivoluzione» prendendo i voti nel 1968, ma non prima che suor Elisabetta Stocchi abbia ricordato la gioia del suo promesso sposo per essere stato piantato in vista del matrimonio a causa della sua sopraggiunta vocazione («Se più importante di me c’è soltanto Dio…»).
Uomini e donne hanno quindi un solo modo per dare un senso alla propria vita individuale e sociale: abbracciare la fede cristiana. Si rifletta in proposito su queste parole di Joseph Ratzinger, di lì a poco diventato papa Benedetto XVI: «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconos
ce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo» (8). Non partendo dal cristianesimo – se ne deduce – non è possibile la formulazione di un’etica. Ed è proprio al monopolio dell’etica che mira la Santa Sede. Anche se per quanto riguarda il «costume», vista la licenziosità di quelli di diversi esponenti del clero, sarebbe consigliabile andarci piano: si pensi al documentario della Bbc Sex, crimes and Vatican, contro il quale hanno ruggito sia Avvenire – apostrofandolo come «un’infame calunnia via internet» – sia l’Agenzia dei vescovi Sir – definendo «sciacallaggio mediatico» la decisione di Michele Santoro di trasmetterlo ad Annozero – e all’inchiesta sui preti omosessuali trasmessa da Exit, programma di la7, emittente aliena al duopolio Rai-Mediaset a cui si deve non a caso il ritorno in tv di Luttazzi (e la libertà concessagli per il suo Decameron).
Ma non è soltanto partendo dal dogma di essere stato creato A sua immagine che l’uomo può condurre la sua vita in mezzo ai propri simili senza cedere alle esclusive «voglie del proprio io». Da Città del Vaticano a viale Mazzini fino a Cologno Monzese, passando per Montecitorio, i satelliti si sovraccaricano per diffondere il messaggio opposto; a chi non vuole cedervi non rimane altro da fare che seguire il consiglio di Piergiorgio Odifreddi: «In fondo, è proprio perché il cristianesimo in generale, e il cattolicesimo in particolare, non sono (soltanto) fenomeni spirituali, e interferiscono pesantemente nello svolgimento della vita civile di intere nazioni, che i non credenti possono sempre rivendicare il diritto, e devono a volte accollarsi il dovere, di arginare le loro influenze: soprattutto quando, come oggi, l’anticlericalismo costituisce più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione della Chiesa.
«In condizioni normali, una tale difesa sarebbe naturalmente compito delle istituzioni e dei rappresentanti del popolo. Purtroppo, però, questi sono invece tempi anormali e anomali, in cui presidenti, ministri e parlamentari fanno a gara per genuflettersi di fronte a papi, cardinali e vescovi, e ricevono man forte dagli apostati non solo del comunismo e del socialismo, ma addirittura del Risorgimento, i cui padri avevano doverosamente separato le faccende dello Stato da quelle della Chiesa. […]
«Tocca dunque ai cittadini comuni doversi far carico della difesa del laicismo (da laos, «popolo», e laikos, «popolare»), per ovviare alle deficienze dei loro rappresentanti» (9).
Anche se è il caso di riconoscere che in un paese in cui una trasmissione chiamata Tempi moderni (Rete 4) dedica diverse puntate ai miracoli e ai taumaturghi l’impresa appare maledettamente difficile.
(1) Personaggio interpretato da Richard Chambelain nel film per la tv Uccelli di rovo.
(2) Interamente consultabili nel volume: La bella stagione. La fiction italiana, l’Italia nella fiction. Anno diciassettesimo, a cura di M. Buonanno, ed. Rai Eri, Roma 2007.
(3) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica ai responsabili delle comunicazioni sociali «Il rapido sviluppo». Tutti i documenti vaticani citati sono disponibili sul sito www.vatican.va.
(4) www.scienzedellacomunicazione.com.
(5) Il quale dichiara apertamente quale sia la funzione delle fiction a tema religioso: «La Chiesa guarda bene a questi film, anche perché è una forma di catechesi per immagini, si evangelizza anche così e poi perché tutte le fiction dedicate ai papi, da Giovanni XXIII, e si ripeterà con Giovanni Paolo II, o le fiction di Padre Pio o Madre Teresa hanno avuto degli share d’ascolto altissimi». La frase riportata è tratta da un’intervista di De Carli rilasciata alla testata online Affari Italiani.
(6) Benito Mussolini, Discorso alla Camera del 5 maggio 1929, cit. in P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), ed. Longanesi, Milano 2007, p. 163. Nel suo libro il «matematico impertinente» fa notare come i cento milioni di uomini di allora siano diventati un miliardo di adesso.
(7) Per saperne di più riguardo Meluzzi si veda l’articolo dedicatogli dal quotidiano online Korazym, che sottolinea come egli sia «soprattutto, un uomo di profonda fede, che può vantare anche un baccalaureato in Filosofia e mistica (presso il Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma) e nutre la speranza di diventare diacono permanente».
(8) J. Ratzinger, Missa pro eligendo romano pontefice, 18-4-2005.
(9) P. Odifreddi, op. cit., pp. 11-12. Va segnalato tra l’altro che Odifreddi fa parte del comitato di presidenza dell’Unione degli atei e agnostici razionalisti (www.uaar.it), che della bandiera del laicismo è la portatrice più costante e credibile.
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