L’enciclica del papa e la lacuna dell’amore

Enzo Mazzi

, da Il manifesto, 11 febbraio 2006

Il Cristianesimo è un sublime inno all’amore. Chi può metterlo in dubbio? E’ stato il suo fascino più coinvolgente per tutte le generazioni che si sono succedute lungo questi due millenni. «Dio è amore», la lettera enciclica di Benedetto XVI, ripropone quel secolare inno cristiano all’amore. A prezzo però di una grave lacuna. Non vede le contraddizioni immanenti allo stesso amore cristiano. Il quale cova infatti fin dai suoi albori un’insidia distruttiva, quasi un veleno mortale: l’insidia della paura della morte. Che è paura doppia perché paura di una duplice morte: la morte fisica e la morte eterna dell’anima, ben più terrificante. Nei documenti che testimoniano gli inizi dell’esperienza cristiana l’insidia della paura è appena accennata. Non è evidente. Ma le tracce della paura già presenti nei tre Vangeli sinottici, e che col tempo avrebbero anche potuto dileguarsi, ebbero invece sviluppi pesanti già nel primo secolo. Prima con Paolo e poi col Vangelo di Giovanni infatti la spina si fa più evidente fino a divenire con Agostino una lama che penetra nel cuore della storia umana. E la fa sanguinare, fino a oggi, come ben sappiamo.

L’immagine di Dio-amore infinito, che dona gratuitamente l’esistenza al creato, che ama l’uomo ingrato e peccatore fino al sacrificio supremo del suo Figlio unigenito, che chiama all’eterna felicità e alla visione beatifica, ha generato per secoli e genera tutt’ora orizzonti di speranza. Nel medesimo tempo però con la deterrenza infernale della sua infinita giustizia apre ferite di angoscia e di paura, produce traumi che la mente e tutto il corpo patiscono perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell’anima, depressione. E infine genera sudditanza. I fedeli cattolici hanno molta più paura della morte che non i non-credenti. Lo dicono indagini sociologiche ma soprattutto è esperienza quotidiana. La paura è insita nella loro stessa fede.

E’ vero che l’intreccio fra amore e morte è un tema perenne nella storia umana. La psicanalisi ne ha svelato la profondità. Ma il cristianesimo ci ha messo del suo esasperando tale intreccio. Chi considera la finitezza come dimensione connaturata alla vita più che parlare di morte parla di vita in divenire. Non è così per il dogma cristiano che invece intende la morte come una realtà a sé, separata dalla vita, contrapposta alla vita, nemica della vita. Addirittura vede la morte come condanna per il peccato. Cosa dice Paolo? «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato».

E questo non è un bel messaggio. Eppure proprio quel messaggio offre insistentemente il papa anche nella recente enciclica. E’ il dogma del peccato originale che in qualche modo viene insegnato di norma a tutti i bambini ancora oggi nei catechismi e nelle ore di religione. Le madri mettono al mondo figli inquinati nel profondo dal peccato, bisognosi del lavacro del battesimo. E’ Cristo e lui solo che ci salva dalla dannazione eterna immergendoci nella sua morte e liberandoci dalla nostra morte.

«Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori – dice ancora Paolo -, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. … Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo in proposito? …Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezza né profondità né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore».

E siamo nel pieno della sublimità dell’inno all’amore di Paolo, il quale per la verità raggiunge vette ancora più alte di stupenda poesia. Ma siamo anche nel pieno della paura. Perché Dio giustifica tutti, sì, ma tutti solo potenzialmente, nei fatti salva solo quelli che predestina, che chiama e che ama. Ma io sarò fra quelli? Tutti noi saremo fra i privilegiati? E riecco la paura. E ecco il bisogno di sentirsi protetti e abbracciati dalla Chiesa che solo lei ha le chiavi della grazia e dell’amore divino, solo lei ha gli strumenti sacramentali e di dottrina per darti la forza e la costanza della fedeltà alla grazia.

Una pensatrice tedesca del secolo scorso, perseguitata dal nazismo, esule negli Usa, Hannah Arendt, ha studiato a fondo uno dei fondatori dell’attuale cristianesimo: Agostino, vescovo di Ippona nel IV secolo: «Il concetto d’amore in Agostino» è la sua ricerca di dottorato. L’intellettuale tedesca sostiene che per Agostino l’amore cristiano è intriso di una doppia paura: la paura della morte naturale derivante dal peccato originale, che ci fa tutti ugualmente peccatori, e la paura ancora più grande della morte eterna, cioè della dannazione. «Nulla ci rende tanto inclini all’amore – dice il vescovo santo d’Ippona – quanto il pericolo che ci sovrasta … Pertanto, la pace e l’amore siano conservati nel cuore grazie al pensiero del comune pericolo (il pericolo della dannazione – ndr)».

Ma come! Non è Agostino il teologo dell’amore, non è lui che dice: ama e fà quel che vuoi, ama e dì quel che vuoi? Sì, è vero. Ma la libertà che dona l’amore è possibile a una condizione: «se (amando) sarai sempre conscio di essere sotto la spada della parola di Dio».

Forse quelle cose non si dicono più in quel modo. Ma si pensano e dominano la prassi cristiana nascondendo le contraddizioni.

«Dio è amore». Sono grato a Joseph Ratzinger, papa, di averci ricordato con tanta forza questo lato di verità. Gli rimprovero, da insignificante formica, di aver completamente ignorato l’altro lato, la spina, la «spada». Non è così che si fa un buon servizio all’amore. Dio nel dogma cattolico e nei catechismi è anche altro. «Dio è la cifra assoluta dell’aggressività umana. L’uomo ha scritto che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza. La verità è l’opposto: l’uomo ha fatto Dio a propria immagine e somiglianza. Il Dio a cui siamo stati assuefatti è un Dio aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo con cui noi pensiamo che si debba essere giusti, capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per tutti i secoli dei secoli».

Non sono affermazioni di Fiedrich Nietzsche con cui è facile per Ratzinger polemizzare. Sono parole di un religioso teologo, padre Ernesto Balducci, che ha segnato la cultura e la prassi del cattolicesimo conciliare nel dopoguerra. E sono parole sante perché se non si ha il coraggio di riconoscere il veleno si impedisce di approntare l’antidoto. E rimprovero al papa di aver colpito e anche scomunicato, quando era Prefetto del Sant’Uffizio, chi ha cercato nella stessa linea di Balducci percorsi teologici e pratici per mettere allo scoperto le radici di violenza e di paura insite nell’amore cristiano, in modo da purificarlo.

(23 ottobre 2011)

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