Leone Ginzburg, intellettuale antifascista

Salvatore Tinè

 

La biografia di Leone Ginzburg che Angelo d’Orsi ci consegna con questo suo libro ha il pregio di restituirci per la prima volta in tutta la sua ricchezza e complessità l’opera e la personalità di una luminosa ma anche per molti versi eccezionale e straordinaria figura di intellettuale antifascista. Ed è proprio su questa caratterizzazione duplice della sua personalità, segnata da un rapporto strettissimo ma anche complesso e financo contraddittorio tra la figura dell’intellettuale e del “letterato” e quella del militante e del combattente antifascista che il libro di D’Orsi scava in profondità, facendo emergere non solo i tratti più marcati e peculiari della personalità umana e morale di Leone Ginzburg, ma anche le motivazioni etico-politiche più interne del suo intensissimo impegno per un rinnovamento profondo della cultura italiana negli anni più duri del fascismo e del suo regime.
Una ricerca che non solo per il suo taglio biografico non poteva non muovere dalle origini di Ginzburg, esse stesse per così dire “duplici”, di ebreo-russo, nativo di una città così importante e decisiva nella storia culturale e politica non solo della Russia zarista ma anche di quella rivoluzionaria come Odessa. D’Orsi ci mostra come lo stesso rapporto con il suo senso dell’identità italiana, da Ginzburg acquisita ma insieme anche consapevolmente scelta e profondamente voluta si innesterà sulle sue “origini” cosmopolite di ebreo russo e come queste ultime non mancheranno di segnarne e condizionarne in una misura rilevantissima l’evoluzione non solo intellettuale ma anche politica.
È sul terreno di questo oggettivo cosmopolitismo che maturerà la sua prima formazione giovanile nel clima intellettuale e politico, non ancora del tutto soffocato dalla dittatura fascista, della Torino della seconda metà degli anni ’20. Alla metà di quel decennio l’attività culturale di Piero Gobetti segna ancora in modo particolarmente incisivo il clima intellettuale della città anche fuori degli ambienti accademici e perfino al di là delle divisioni politiche tra fascismo e antifascismo, in un passaggio storico che pure sarà decisivo nel processo di stabilizzazione del regime fascista e nella sconfitta drammatica delle forze di opposizione alla dittatura mussoliniana.
È in questo vivace e insieme drammatico contesto storico che si svolge il primo periodo della formazione di Leone Ginzburg. Un periodo destinato a segnare fortemente l’evoluzione e la definizione stessa della sua personalità non solo intellettuale ma anche politica grazie all’incontro al liceo Massimo D’Azeglio di Torino cui viene ammesso alla fine del 1924, con alcuni insegnanti di quella scuola che diventeranno per lui dei veri e propri “maestri” come Augusto Monti, Umberto Cosmo, Arturo Segre e Zino Zini. Ma è soprattutto il “letterato” Umberto Cosmo ad influenzarlo. Vicino al socialismo riformista, impegnato anche in un’attività giornalistica di inchiesta che gli costerà perfino una sospensione dall’insegnamento con l’accusa di “disfattismo”, Cosmo insegna anche all’Università di Torino, Letteratura italiana, dove ha avuto tra i suoi allievi anche Antonio Gramsci ma al Liceo Gioberti egli aveva avuto come allievi anche Umberto Terracini e Angelo Tasca, ovvero altri due protagonisti dell’Ordine nuovo. Questa figura di letterato e di studioso di lettere che sa farsi però anche intellettuale politicamente impegnato influenzerà fortemente il giovanissimo Leone. Ma anche il filosofo Zino Zini, una figura complessa, di formazione neokantiana, diviso tra un idealismo volontarista e un forte ancoraggio ai metodi oggettivistici e scientifici del positivismo non manca di lasciare un segno sulla sua formazione. Sarà probabilmente lo stesso Zini ad avviare Ginzburg all’attività di traduttore e di studi slavistici.
Soprattutto sulla base di alcune importanti testimonianze di compagni del liceo destinati a diventare delle figure importanti negli ambienti intellettuali torinesi e quindi nella cultura italiana come Franco Antonicelli e Sion Segre, D’Orsi ci restituisce un ritratto del giovanissimo Ginzburg che ne evidenzia in modo impressionante insieme all’intelligenza e alla forte personalità una straordinaria cultura e precocità. Ma è il tratto di serietà e di intransigenza morale del giovane che evoca immediatamente l’esempio e la figura di Piero Gobetti a contribuire maggiormente a fare della sua immagine una vera e propria “icona”.
L’immagine di un ragazzo ancora poco più che adolescente che come Gobetti, non è già più “come gli altri” sembra condensare in sé, nel racconto così vivido e simpatetico di D’Orsi la vita di Leone Ginzburg, quasi racchiuderne il destino. Non v’è dubbio che la sua diversità si leghi anche alla sua origine “straniera”, al suo essere un “russo”. È tuttavia la ricerca di un rapporto profondo con la storia italiana, con le sue migliori tradizioni culturali e politiche ad orientare già i suoi studi e le sue vastissime letture. Proprio in questi anni del liceo matura un intenso rapporto con Croce, nel cui pensiero e nella cui opera, D’Orsi ravvisa una delle scaturigini più profonde del suo successivo approdo all’antifascismo.
È Augusto Monti, che non è un professore della sua sezione ma dirige la Biblioteca del liceo, a spingerlo allo studio di Croce, che prenderà le mosse dalla lettura de La poesia di Dante, di Poesia e non poesia, de La letteratura della nuova Italia. Insomma, Croce e Gobetti sono già in questa prima fase della vita di Ginzburg due riferimenti e due “modelli” per così dire, fondamentali. Ma contrariamente a quanto scriverà lo stesso Monti, non si può dire che in quegli anni, il liceo D’Azeglio fu una “scuola di antifascismo”. E D’Orsi sottolinea come per lo stesso giovane Ginzburg non si possa parlare in questa fase di una ben definita e chiara scelta antifascista, anche in considerazione della sua delicata condizione di ebreo straniero. E tuttavia ciò non toglie che l’insegnamento di Monti, di Cosmo, di Zini, di Segre, informato ad un’idea di serietà degli studi e di impegno morale nell’esercizio del proprio “mestiere” abbia influito fortemente sulla formazione anche politica di Ginzburg come di quella di tanti altri suoi compagni e amici del liceo D’Azeglio.
Mi pare in questo senso particolarmente significativa l’osservazione di Massimo Mila riferita a Monti ma che può estendersi anche ad altri professori secondo cui l’insegnamento di quei docenti era “gramsciano” nella misura in cui insegnava a fare bene e con serietà il proprio “mestiere”: usciti da quel Liceo, dice Mila, si sapeva benissimo da che parte stare. Dunque, sembrerebbe esservi uno stretto, per quanto non esplicito, rapporto tra il mestiere del letterato e dello studioso e la passione politica. E non v’è dubbio che tale rapporto è destinato a scandire la vita di Leone anche quando egli maturerà il suo antifascismo e deciderà di gettarsi nella militanza e nel combattimento politico.
Ma nei tre anni di liceo, Ginzburg è ancora piuttosto assorbito nel tempo libero che gli concedono gli studi dalla passione per la letteratura. Scrive racconti e perfino un romanzo, Vita eroica di Lucio Sabatini. Nella scrittura creativa di Ginzburg si esprime la sua onnivora curiosità, un atteggiamento di partecipe osservazione della realtà della vita sociale che in questi anni di formazione fanno già di Ginzburg, come dice D’Orsi, un “piccolo Proust”. Nel romanzo si riflette così il suo interesse per la vita mondana che si svolge a Viareggio, il suo luogo di villeggiatura, ma anche il suo rigore e la sua intransigenza nel giudizio sul mondo e sulle persone che osserva e che sia pure indirettamente attraverso il filtro della letteratura racconta. La sua nozione di “vita eroica” si riconnette all’”eroicismo” di Gobetti ma riflette nello stesso tempo il senso della sua diversità di intellettuale, di ebreo straniero ma anche di giovane così precocemente maturo.
Questi tratti della sua personalità emergono in modo particolarmente evidente nel lunghissimo e bellissimo racconto che D’Orsi ci restituisce dell’amicizia che proprio negli anni del liceo si consolida tra Ginzburg e Norberto Bobbio. Pure, è proprio nel racconto di questa amicizia che è insieme uno straordinario sodalizio intellettuale che il temperamento in apparenza aspro, altezzoso, fastidiosamente pedagogico del giovanissimo Ginzburg rivela un tratto di straordinaria apertura al rapporto e all’ascolto degli altri. La ricerca di una verità in primo luogo morale che muove simultaneamente i due amici e compagni di liceo scandisce l’evoluzione di un rapporto di amicizia che trova nella “sincerità” del dialogo, di là da ogni sterile solipsismo intellettuale il suo nucleo più profondo. Dalle lettere che i due giovani adolescenti si scambiano nei periodi di festa o durante la stagione estiva emerge un rapporto intellettuale di straordinaria intensità ma anche la radicale diversità tra i due amici. Alla tendenza a chiudersi in sé, nell’intimità dei propri studi di Bobbio viene così contrapponendosi l’ansia di apertura anche fisica al mondo e agli altri di Ginzburg. La divorante passione per i libri che il giovane Ginzburg rivela, è in fondo un momento, un aspetto, per quanto essenziale, di questa apertura.

Ginzburg legge di tutto, spaziando dalla letteratura russa a quella francese. Dopo l’incontro con l’editore Alfredo Polledro, un personaggio, come dice D’Orsi, “intriso di gobettismo culturale” egli inizia un’attività di traduttore di autori fondamentali della letteratura russa, da Tolstoj a Gogol: si pensi alla sua traduzione di Anna Karenina che completerà durante il primo periodo universitario. Al piacere della lettura si accompagna già quello di recensire, consigliare, comprare libri. Una passione bibliomane che sembra prefigurare la successiva attività editoriale. In questo rapporto tanto intenso e spasmodico quanto fisico con i libri, vita e letteratura si stringono in un nesso indissolubile. Le lettere a Bobbio sono in fondo un momento della sua attività letteraria: le lettere sono “buone azioni” scrive in un’epistola all’amico carissimo. Non a caso alla bibliomania si aggiunge una passione altrettanto intensa per l’informazione giornalistica, per le notizie siano esse di cronaca perfino spicciola oppure di politica, interna o internazionale. Anche nella sua curiosità, nel suo apparente “saper tutto” si manifesta la sua precocità, la sua superiorità talvolta perfino fastidiosa o ostica ai suoi amici e compagni. Una diversità che certo si lega anche alla sua condizione di “apolide”, avvertita tuttavia perfino con angoscia.
Nella sua sua curiosità intellettuale e apertura al mondo si esprime anche un insopprimibile bisogno di radici, la ricerca di una “patria”. Il suo cosmopolitismo non è astratto e generico ma animato dalla ricerca di una concreta dimensione sociale e collettiva, anche se non ancora propriamente politica, dell’attività di studio e letteraria in cui continua ad essere immersa la sua vita. Nelle lettere a Bobbio, Ginzburg incita l’amico ad un atteggiamento più aperto al rischio e al giudizio degli altri, di là da ogni chiuso riserbo o eccesso di pudore. “L’artista vero – scrive – non recita per gli spettatori né esclusivamente né principalmente: estrinseca il suo sogno d’arte: ma capisce bene che gli spettatori gli ci vogliono: non foss’altro che per stabilire quella corrente fra lui e gli altri, che lo prendono e lo sollevano improvvisamente anche al disopra di se stesso facendone l’interprete riconosciuto della collettività.” Infatti “il peggio al mondo” è per lui – vivere nella menzogna: menzogna verso di sé e verso gli altri: tu vivi sottraendoti, sottraendo il tuo vero essere, alla vista altrui e anche a quella tua.”
È già in questa rivendicazione dell’importanza dell’impegno e della sincerità nel rapporto con gli altri un atteggiamento morale destinato a informare la sua, pure ancora di là da venire, scelta di militanza politica nell’antifascismo organizzato. Proprio in una lettera alla madre di Bobbio, in modo ironico, Ginzburg definisce “ingenuità” la “malattia” di cui sarebbero affetti lui e lo stesso Bobbio, sottolineando il loro “spirito di contraddizione” di giovani che vivono di contro al mondo, condizionati dalle loro “ideuzze e passioncelle”, esprimendo così, sia pure ancora con l’ingenua sensibilità di un giovane, qualcosa di quella appassionata fedeltà alle proprie idee di libertà e giustizia p attitudine al giudizio di quella severa fedeltà alle proprie di libertà e di giustizia che lo avrebbe più tardi condotto al sacrificio e alla morte.
Gli anni universitari, particolarmente dopo il trasbordo da Giurisprudenza a Lettere, saranno segnati dalla scelta di abbandonare la carriera di scrittore per intraprendere quella di letterato. Una scelta che è forse una rinuncia. Ginzburg si sente “un vinto” ma rivela già una percezione critica del suo essere un “letterato”. Una percezione che certo si lega al suo interesse già rivelatosi molto forte per la politica. Il corpo docente della facoltà di filosofia e lettere in cui studia Ginzburg conta personalità di grande valore. Ginzburg ha così modo di completare la sua formazione confrontandosi ancora una volta con grandi maestri, da Neri a Farinelli a Rostagni a Debenedetti a Cian. Anche attraverso il loro magistero informato ad un senso robusto del nesso tra filologia e metodo storico, viene meglio precisandosi il suo “storicismo”, forse anche al di là del suo rapporto che pure resta profondo e proprio in questi anni sembra consolidarsi, con l’insegnamento e la lezione etico-politica di Benedetto Croce. Il 21 dicembre del 1931 con una tesi su Maupassant il cui relatore sarà il grande francesista Neri. Si consolida con quest’ultimo un rapporto molto importante, che spinge Ginzburg ad allargare l’orizzonte dei suoi studi oltre la letteratura russa fino a comprendere anche la letteratura italiana. Si pensi alla sua edizione dei Canti di Leopardi che testimonia già della ricerca profonda di un rapporto con le tradizioni della cultura italiana.
L’anno successivo a quello della laurea sarà la svolta nella vita di Leone. Meno di due mesi dopo avere ottenuto il titolo di libero docente diventa professore, titolare di un corso libero di Letteratura russa. La sua prolusione dedicata a Puskin e la letteratura russa è un vero trionfo scientifico. In una lettera dichiara di avere approfittato della “folla” che era venuta ad ascoltarlo “per proclamare subito, e prima di ogni altra cosa, la volontà di noi slavisti, che i nostri studi non siano secondo a nessuno, come serierà filologica e serietà di metodo”. Ma già qualche mese dopo a Croce annuncia che l’argomento del secondo anno di insegnamento all’università sarà il rapporto tra Herzen e i democratici italiani. È evidente come dietro la letteratura e la lingua affiorino sempre più prepotentemente la storia e la politica. Non a caso è questo passaggio della sua vita a segnare la nascita del Ginzburg militante e combattente antifascista.
Decisivo è l’incontro con Carlo Rosselli a Parigi dove Ginzburg si era recato per continuare a lavorare su Maupassant grazie ad una borsa di studio che gli aveva fatto avere Farinelli. E invece proprio in quella città matura la sua scelta di anteporre agli studi l’impegno politico rinunciando di fatto alla prospettiva di una sicura e brillantissima carriera universitaria per più alti doveri. È su questo passaggio che è anche un nodo di contraddizioni che si soffermano in modo particolare il racconto e la riflessione di D’Orsi tesi a evidenziare il nucleo etico più intimo e profondo di una concezione della politica e del suo stesso primato nella “vita morale”, che sia pure in modo graduale e non senza arresti e contraddizioni si era via via venuta definendo proprio negli anni del D’Azeglio e poi nel periodo universitario. E tuttavia, nelle pagine di D’Orsi, tale passaggio appare molto più un coerente e maturo sviluppo del suo rapporto con la dimensione intrinsecamente politica del suo lavoro culturale, perfino serenamente maturato nel più profondo della coscienza di Ginzburg, che una vera e propria svolta drammatica. Una coscienza morale salda e perfino imperturbabilmente tranquilla emerge con straordinaria nettezza nel “ritratto” di Ginzburg che vien fuori soprattutto da queste pagine del libro.
La scelta di aderire a “Giustizia e libertà” e di entrare nelle file della cospirazione è certamente mossa da un’insopprimibile spinta etica ma esprime anche nello stesso tempo come un’ansia di azione, un’esigenza altrettanto forte di fissare idee e programmi di rigenerazione morale e politica dando loro anche una concretezza e una immediatezza sul terreno dell’impegno militante e dell’organizzazione. Anche la politica come l’attività culturale comporta disciplina e organizzazione, secondo una concezione dell’impegno politico e culturale di cui opportunamente D’Orsi sottolinea la matrice gramsciana e ordinovista. Come il “mestiere” di studioso o di “letterato” anche la politica insomma è un “lavoro” per gli altri. Una concezione del “lavoro intellettuale” come “professione” certo tutt’altro che estranea all’insegnamento neo-kantiano e weberiano che Ginzburg aveva filtrato attraverso la scuola e la scienza “torinesi” in cui s’era formato ma che tuttavia di quell’insegnamento non riproduceva ma bensì superava il rigido dualismo tra cultura e politica, tra scienza e azione, tra il rigore del metodo formale nella ricerca e negli studi e la passione etico-politica senza la quale anche quel metodo rischia di degenerare in sterile accademismo quando non in un vuoto formalismo.
Tuttavia, il senso del lavoro e della disciplina non sembrano offuscare neanche nel momento in cui matura la scelta estrema della lotta illegale quell’apertura esistenziale e culturale insieme verso lo stato al mondo che aveva fin lì sostanziato la vita del Ginzburg letterato, editore e organizzatore culturale. Significativamente D’Orsi non manca di evidenziare un tratto di flânerie nel rapporto che nel pur breve soggiorno parigino Ginzburg viene stabilendo con la città che è ancora negli anni ’30 la benjaminiana “capitale della cultura europea”. A Parigi egli ha modo di incontrare grandi figure di intellettuali e studiosi impegnati come Paul Hazard, Paul Valery, l’Abbé de Brémond e altri ancora.
Il suo è ancora una volta un atteggiamento di straordinaria apertura culturale che in modo solo apparentemente paradossale si dispiega a Parigi proprio quando ad esso si accompagna una “chiusura politica”. A quell’apertura continua infatti pur sempre a seguire il momento del distacco e del giudizio critico come evidenzia in particolare un passo, su cui D’Orsi richiama opportunamente l’attenzione, di una lettera da Parigi alla pittrice torinese Giorgina Lattes, in cui alludendo al passaggio critico che sta attraversando nota come “anche non aver voglia di far nulla può essere l’estrinsecazione di una crisi feconda.” L’ipotesi di D’Orsi secondo cui il fare cui qui allude Ginzburg sia in realtà quello “intellettuale” ci pare convincente.
Insomma, anche dentro la flânerie del soggiorno parigino, sotterraneamente si nasconde la politica, il suo richiamo irresistibile. D’Orsi si spinge fino ad ipotizzare una sorta di sdoppiamento. La sigla con cui firma i suoi primi articoli sui “Quaderni di Giustizia e libertà”, M.S. allusivi alle iniziali di Maria Segrè, una donna che aveva avuto un’importanza fondamentale nella sua formazione e cui resterà sempre legatissimo, sembrava configurare in effetti una sorta di “doppio” di Ginzburg. Per quanto intimamente connessi, l’intellettuale e il combattente coabitano nella medesima personalità in una tensione che adesso, nell’impulso all’azione, sembra a tratti farsi contraddizione. Ma si tratta pur sempre di una contraddizione dialetticamente viva, feconda di nuovi sviluppi e acquisizioni, premesse di nuove e più impegnative scelte. L’azione politica, nella visione di Ginzburg, è tesa infatti non soltanto a cambiare il governo ma più radicalmente e più profondamente è tesa a cambiare il “costume” come dice lui stesso.
La politica è in questo senso anche preparazione e lotta per l’affermazione di una nuova cultura e ideologia. Giustamente, D’Orsi vede in questo senso qualche vicinanza con quel disegno di una “riforma intellettuale e morale” della società italiana che avrebbe ispirato la battaglia politica e la ricerca intellettuale di un altro combattente e martire antifascista, Antonio Gramsci. Non a caso nei primi anni ’30 accanto all’azione politica nelle file di GL, l’impegno di Ginzburg si intensifica anche sul terreno della battaglia per il rinnovamento culturale attraverso l’intensa collaborazione alla terza serie della rivista “La Cultura” diretta per un periodo dal suo vecchio maestro Neri ma animata in realtà da un altro liberale di formazione gobettiana, Arrigo Cajumi, una vera fucina della cultura più avanzata ma anche di quella antifascista e la partecipazione significativa insieme con l’amico Cesare Pavese alla casa editrice Frassinelli, nata nel 1931. Particolarmente la collana più innovativa della casa editrice, la “Biblioteca europea” diretta da Franco Antonicelli è l’espressione di una esigenza di sprovincializzazione, di una apertura all’Europa e all’europeismo di chiara marca gobettiana.
Questo programma di sprovincializzazione e di apertura europea della cultura italiana avrebbe caratterizzato anche la successiva esperienza di direzione della casa editrice Einaudi che vedrà il duo Ginzburg e Pavese a fianco di Giulio Einaudi. Ginzburg riesce a trovare spazi anche perfino negli ambiti della cultura ufficiale: si pensi alla sua collaborazione giornalistica a una testata come “Pegaso” il cui direttore, Ugo Ojetti è un uomo legato all’establishment fascista. Dove la cultura riesce a conquistare un relativo spazio di autonomia dalla politica sia pure con tutti i condizionamenti dell’ufficialità nell’ambito di un regime totalitario, Ginzburg riesce a trovare spazi, suscitando idee e stimoli nuovi. La direzione editoriale nell’Einaudi si svolgerà, nel periodo successivo all’uscita dal carcere, nel 1936, tutta nel segno di questa ricerca di spazi di autonomia della cultura, proprio sul terreno di un impegno spasmodico teso ad affermare nei fatti un un ruolo politico della cultura. L’immagine dello Struzzo che ingoia lunghi chiodi con il motto Spiritus durissima coquit, ovvero “lo spirito digerisce le cose più dure”, apparsa per la prima volta nella rivista “La cultura” e destinata a diventare il logo dell’Einaudi, allude in fondo a questa irriducibile potenza della cultura che si manifesta anche soltanto come capacità di resistenza alla pressioni e ai condizionamenti del potere, sebbene possa anche alludere al permanente rischio di una chiusura della cultura in se stessa, di estraniarsi dalla realtà sociale e politica più immediata.
Il tentativo di legarsi ad una tradizione torinese, gramsciana e gobettiana e alla sua idea di una cultura non ristretta ai chiusi ambienti dei letterati delle università, ma mescolata con la vita reale deve fare i conti con l’invasività del fascismo e i limiti della sua politica culturale. Ma ciò non toglie che l’arresto e la condanna da parte del Tribunale speciale fascista di Ginzburg, nonostante gli sforzi di Giulio Einaudi e di Luigi Einaudi di mantenere un carattere di italianità e quindi di assoluta compatibilità con il fascismo, della casa editrice, conferisce all’impresa editoriale un segno antifascista. Una tensione tra le aperture culturali che avevano contrassegnato “La Cultura” per iniziativa di Giulio Einaudi, Pavese e Ginzburg e le posizioni politiche liberiste e conservatrici del senatore Luigi Einaudi che certo per tutta una fase ha un effettivo ruolo egemonico nella casa editrice, scandisce la vicenda dell’impresa einaudiana in questi anni. E lo stesso arresto di Giulio Einaudi nel maggio del ’35 ci dice quanto difficile sia il mantenere uno spazio di autonomia alla casa editrice senza metterne a rischio la stessa esistenza.
Dopo il rientro di Ginzburg da Civitavecchia a Torino, muteranno gli indirizzi editoriali, nel segno di una maggiore influenza del crocianesimo di Leone e quindi di una maggiore influenza della cultura storica rispetto agli studi economici. L’influenza del crocianesimo rafforza l’ispirazione antifascista della casa editrice, accentuandone così l’esposizione politica. D’Orsi evidenzia a questo proposito come mentre Croce è sempre stato in fondo una spina nel fianco per il regime, quest’ultimo non abbia mai considerato un oppositore Luigi Einaudi. La casa editrice tuttavia sarà una “nuova Einaudi”. D’Orsi richiama particolarmente l’attenzione sulla nuova collana “Biblioteca di cultura storica” e la pubblicazione in essa di un capolavoro come Pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 di Luigi Salvatorelli, un intellettuale e uno studioso protagonista della cospirazione “giellista”. Ma non meno significativa del nuovo indirizzo impresso all’Einaudi nella seconda metà degli anni ’30 da Ginzburg è la pubblicazione in un’altra importante collana “I saggi” de La crisi della civiltà dell’olandese Huizinga, un’opera certo del tutto distante dalla ideologia dominante nell’Italia fascista di quegli anni e certo tra le maggiori espressioni della crisi della “coscienza europea” degli anni ’30.
È a partire da una acuta percezione di questa crisi che Ginzburg continua la sua opera di rinnovamento culturale che si esprime sempre in un rapporto incessante con le tradizioni culturali e politiche della storia italiana, da Dante a Machiavelli a Mazzini. Un rapporto che segna profondamente anche il suo rapporto con la militanza antifascista. La piena acquisizione di una identità italiana viene vissuta da Ginzburg come una premessa indispensabile per la sua stessa scelta di aderire alla cospirazione giellista. Il suo antifascismo si radica nella conquista di una identità nazionale. Si tratta di una identità insieme giuridica e culturale. Se quella giuridica sarà ottenuta nel 1931, quella culturale si manifesterà clamorosamente nello stesso già accennato argomento del corso che avrebbe tenuto all’Università se la scelta nel gennaio ’34 di non firmare il giuramento di fedeltà al regime fascista e la conseguente revoca della libera docenza nello stesso anno, gli avesse consentito di svolgerlo, ovvero Herzen e i democratici italiani. Un argomento la cui scelta rivela il rapporto profondo della sua adesione a GL con la tradizione del Risorgimento italiano ma anche nello stesso tempo forse non meno profondo rapporto con l’identità e la cultura russa. Ancora una volta una identità complessa, per così dire “doppia”. Ma al fondo v’è un modo diverso di concepire la tanto ricercata e alla fine conquistata identità italiana: non si tratta solo di diventare italiano per legittimare in tal modo l’azione diretta contro il governo e lo stato italiani ma più radicalmente di identificare nello stesso antifascismo il suo patriottismo.
Muoverà da questa ridefinizione del significato stesso dell’identità nazionale e patriottica il senso sempre più accentuatamente rivoluzionario, non esente da qualche tratto “gramsciano” del suo antifascismo, profondamente legato all’esperienza di “Giustizia e libertà” e all’insegnamento di Carlo Rosselli. Un antifascismo che si contrappone a quello tradizionale, “prefascista” che caratterizza in fondo la stessa Concentrazione antifascista promossa a Parigi da alcuni fuorusciti di orientamento socialista e riformista, come Turati, Treves, Modigliani. La ricostruzione di D’Orsi si sofferma particolarmente a questo proposito sul primo testo politico di Ginzburg scritto insieme con Levi e pubblicato sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”. In esso vi si riafferma “il valore morale della politica” e insieme una idea “rivoluzionaria” di libertà intesa non in senso formale, ovvero nel suo mero significato giuridico o politico ma a partire dal suo concreto contenuto economico e sociale. Ed esplicita è la identificazione di un programma di riforma in grado di trasformare le strutture economiche e produttive con la idea stessa di “Rivoluzione”.
D’Orsi sottolinea la forte presenza di alcuni motivi del consiliarismo ordinovista in quei passi dell’articolo in cui si rivendica la necessità di una “azione spontanea delle masse operaie e contadine” e di un “controllo delle industrie” da parte dei “consigli operai”. Il nesso tra la questione dello stato e l’obiettivo della rivoluzione si esplicita così nell’affermazione della necessità di un nuovo potere statale che sia espressione degli “organi autonomi di rappresentanza delle classi lavoratrici” e in un richiamo all’esperienza delle “assemblee del 1919-20”. L’idea di un potere democratico che muove dal basso e che negli istituti di autogoverno popolare locali e municipali trova la sua concreta realizzazione storica deriva certo dal federalismo di Cattaneo: di nuovo una delle grandi tradizioni democratiche del Risorgimento italiano veniva ripresa e attualizzata nel contesto della lotta immediata contro il dispotismo del potere fascista.
Ma ancora più importante è un altro articolo di Ginzburg uscito sempre sui “Quaderni di Giustizia e Libertà” in cui la sua idea di rivoluzione si definisce e precisa in una riflessione storica e critica dell’esperienza sovietica fortemente intrisa di echi gramsciani e gobettiani. Significativa è la sua critica dei menscevichi i quali “pretendevano di abbandonare il potere ai partiti borghesi politicamente nulli e incapaci di guidare il movimento perché così si iniziava, secondo loro, l’era capitalistica.” Di contro a questa concezione sostanzialmente astratta ed economicistica della rivoluzione, Ginzburg sottolineava come Lenin e i bolscevichi avessero compreso come il capitalismo e la modernità potessero realizzarsi solo nella prospettiva immediata di una rivoluzione socialista. E non può che colpire che proprio un convinto europeista come Ginzburg sottolinei come pensare la Russia secondo schemi ricavati dalla storia dell’Europa occidentale è “frutto di ignoranza o di pigrizia mentale”. Del resto già in una splendida recensione della Storia della rivoluzione russa di Trotskij, uscita sul “Pegaso” nel 1931, in cui non aveva mancato di notare come nella crisi russa del 1917 di contro alla “atmosfera di esasperato legalismo” dei partiti liberali e democratici, “i soviet d’ogni grado s’erano trovati a esser gli unici organismi vitali, perché atti a uno sviluppo spontaneo e adeguabili alle esigenze del momento”, egli aveva sostenuto con forza la necessità storica della Rivoluzione d’ottobre: “perché in Russia si costituisse davvero uno stato moderno era necessario che perisse in ogni sua forma la società precedente. Quanto ciò sia doloroso, e come particolarmente stringa il cuore a noi, uomini di cultura, la temporanea, eppur grave, menomazione dei valori dello spirito, non c’è bisogno di dirlo; ma la storia ha esigenze inesorabili, ch’è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza.”
Opportunamente, D’Orsi sottolinea come nella sua riflessione sull’esperienza dell’Ottobre sovietico lo “storicismo” di Ginzburg evolva e si precisi nel senso di una “sostanziale adesione al senso della Rivoluzione”. E’ questo storicismo rivoluzionario il nucleo teorico e intellettuale del suo antifascismo militante. Ma D’Orsi non manca di sottolineare il tratto di radicale diversità di questo antifascismo da quello comunista. Ginzburg è in questo senso una figura esemplare, ovvero emblematica di un nuovo tipo di cospiratore, mosso da motivazioni eminentemente intellettuali, da quei “valori dello spirito” che devono continuare a informare il combattimento e la lotta anche nei suoi momenti più aspri e terribili, e insieme da un’ansia perfino febbrile di azione diretta. L’intransigenza morale, il kantiano agire per il dovere si inverano nella vitale concretezza dell’agire politico. Del resto l’antifascismo torinese si era nutrito di filosofie che esaltavano lo “slancio vitale” dell’azione e della prassi. Si pensi al bergsonismo di Sorel, un autore che era stato caro a Gramsci ma anche a Togliatti, negli anni torinesi.
Ma alle spalle di Sorel e di Bergson, in Ginzburg è anche l’insegnamento e l’esempio dell’amatissimo Mazzini e più in generale il riferimento alla “tradizione del Risorgimento” cui proprio in questi anni ritornava per riconnetterla agli impegni e ai doveri del presente. “Insorgere per risorgere” era il motto del movimento, fondato a Parigi da Rosselli ed Emilio Lussu. Si tratta di dichiarare guerra al fascismo, agendo da combattenti disposti a pagare di persona. Ginzburg sposa in pieno questa idea di azione identificandosi totalmente in essa. Come ha scritto Vittorio Foa l’azione, la cospirazione è anche il modo in cui di fronte ad un regime totalitario fondato su un sempre ampio consenso sia nelle masse popolari che negli stessi ceti intellettuali, chi si oppone al fascismo trova il mondo di reagire al senso di solitudine, ritrovando un rapporto col mondo attraverso l’azione politica immediata sentita come un lavorare nel presente ma per il futuro. La bontà dell’esempio, il senso del sacrificio sono elementi essenziali di questa idea di azione intransigente, di impegno combattente.
È in particolare un articolo del marzo ’33, intitolato Viatico ai nuovi fascisti, pubblicato sui “Quaderni di Giustizia e libertà” esattamente un anno prima del suo arresto a sintetizzare nel modo più chiaro ed efficace la concezione dell’azione politica antifascista propria di Ginzburg. Quest’ultimo vi denuncia “l’atmosfera diseducatrice e avvelenatrice” del fascismo. In questa atmosfera l’obbligo dell’iscrizione al PNF costituisce un elemento difficilmente eludibile soprattutto per i giovani che devono conquistare la loro autonomia attraverso il lavoro. Perciò l’atteggiamento di Ginzburg non è di condanna moralistica, ma piuttosto di pietà per quei giovani che nonostante l’iscrizione al PNF mantengono una purezza di cuore. E tuttavia ciò non toglie che anche il consenso forzato possa gradatamente trasformarsi o nascondere una adesione intima. La tattica privata del singolo può volgersi in opportunismo o corruzione. In questo senso, all’atteggiamento di pietà, di comprensione per la condizione di servitù involontaria e di avvilimento degli altri si accompagna in Ginzburg una rivendicazione anche orgogliosa della propria diversità, una diversità che è anche la solitudine dello sconfitto.
La solitudine che segnerà gli anni durissimi del carcere e poi del confino a Pizzoli, nei quali tuttavia, lungi dallo spezzarsi la continuità e l’impegno nel lavoro culturale appaiono attraversati da nuove idee e stimoli destinati a lasciare il segno nella storia della casa editrice Einaudi. Intanto, alcune figure di giovani intellettuali, della generazione successiva a quella di Ginzburg come Carlo Muscetta, Mario Alicata e Giaime Pintor, influenzati dal fascismo critico di Giuseppe Bottai e della sua rivista “Primato” cominciano un “viaggio” che li porterà, soprattutto dopo l’inizio della guerra, alla scelta antifascista: il loro impegno nell’attività e nel lavoro culturali, ancora cautamente interna alle compatibilità del regime lo porterà ad avvicinarsi al nucleo einaudiano. Ma bisognerà aspettare la guerra per vedere le prime crepe, i primi segni di crisi del regime, sia nei suoi apparati di vertici che nella sua base di consenso. Una crisi che si riflette subito nel gruppo einaudiano. Nell’ambito di quest’ultimo, Ginzburg avverte prima degli altri suoi membri l’esigenza di superare quel dualismo tra politica e cultura che aveva caratterizzato la costruzione della cospirazione giellista. Come scrive D’Orsi, “la crisi evidente del fascismo” sembra andare verso “una crasi dei due ambiti”.
Con la guerra, insomma, politica e antifascismo militante sono ormai la stessa cosa. Ancora una volta la diversità di Ginzburg, la sua capacità di individuare i passaggi critici e i momenti di svolta anticipandoli, precorrendoli si conferma clamorosamente. Di nuovo esse si traducono in volontà d’azione, in una idea concreta dell’agire politico che troverà il culmine della sua manifestazione nel lavoro per organizzare il Partito D’Azione in cui confluirà il vecchio nucleo torinese di GL e nella partecipazione alla Resistenza romana fino al sacrificio estremo. Costante è nel corso di tale lavoro la sua battaglia contro l’ala conservatrice, moderata del PdA cui egli contrappone la sua idea rivoluzionaria di antifascismo, nel corso della crisi del luglio e settembre del ’43: ferma è in lui l’idea che il cambiamento non potrà consistere in un mero cambio di regime ma in una trasformazione profonda della società e dello stato italiani, una trasformazione di carattere appunto rivoluzionario.


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Non a caso, proprio mentre con la caduta di Mussolini il sogno di un’Italia libera sembra più vicino e realizzabile egli ridefinisce la sua idea di rivoluzione a partire dal suo rapporto con la tradizione italiana. Il suo lavoro culturale ritorna con forza sui temi a lui cari del Risorgimento come rivoluzione mancata. A Torino, nel settembre ’43 si mostra entusiasta del progetto di Alessandro Galante Garrone di un lavoro di su Mazzini, Buonarroti e la Giovine Italia: e Mazzini non a caso è al centro di un lavoro di Ginzburg sul Risorgimento in cui il grande genovese non vi appare soltanto come il profeta dell’Italia, avversario irriducibile del giobertismo come di ogni deteriore machiavellismo ma anche come il dirigente e il combattente politico in grado di coniugare realisticamente tattica e strategia, caratterizzato “da una singolare attitudine ad isolare e mettere a fuoco, di volta in volta, il problema più importante e più urgente, e per la soluzione di quello stabilire momentanee alleanze che lo avviassero a soluzione, pur conservando una piena libertà d’atteggiamento rispetto ai problemi tenuti in serbo per l’avvenire.”
Le osservazioni di Galante Garrone sulle possibili prospettive degli studi sul Risorgimento italiano e sulle sue origini rivoluzionarie nel corso dello stesso colloquio con Ginzburg appena ricordato richiamano non a caso alcuni dei riferimenti storici e teorici fondamentali della ricerca e dell’opera di quest’ultimo, dall’illuminismo destinato a diventare tema di ricerca storica di un altro grande intellettuale torinese di Giustizia e Libertà come Franco Venturi, al federalismo modernizzatore di Carlo Cattaneo al pensiero democratico e repubblicano di Giuseppe Mazzini. Ma ancora una volta, proprio quando il suo pensiero e il suo lavoro culturale si intensificano attorno a nuove grandi idee e progetti, si intensifica parallelamente la lotta politica fino ad assorbirlo totalmente. A Roma, nel periodo immediatamente precedente il suo arresto e quindi la sua morte, che lo vede dirigere con Muscetta, Fancello e Rossi Doria, “L’Italia Libera”, destinato a diventare l’organo del PdA, Ginzburg è ormai un dirigente politico a tempo pieno, totalmente immerso nella costruzione dell’organizzazione. L’antifascista intellettuale e borghese che si è fatto dirigente politico, rivela adesso, nel fuoco di una lotta tremenda e decisiva per i destini dell’Italia e dell’Europa, la sua vocazione più vera e profonda, quella cui più intimamente si lega il suo “sogno” di una “Italia libera”.

(1 giugno 2020)




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