Lettera al Pastore Luigi Bettazzi sulla chiesa silente: i cattolici del dialogo e del dissenso
Gentile Luigi Bettazzi,
Ripensando ad un incontro tenutosi ad Albiano d’Ivrea (sul pensiero e la vita di Etty Hillesum, Simone Weil ed Edith Stein), al quale Lei ha assistito, ho pensato di inviarLe questa lettera, che ho inviato anche a Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, considerandovi interlocutori che possano offrire un ascolto paziente e non fretta di definire attraverso regole astratte e le categorie rassicuranti del ‘dentro o fuori’.
Ho poi un bisogno particolare di scrivere a Lei, perché ho bisogno di chiedere a chi ha partecipato al Concilio Vaticano II perché siamo tornati così indietro.
Io credo di credere, per usare un’espressione di Vattimo, ma non è di questo che vorrei parlarLe.
Vorrei invece porLe alcune domande su questioni che mi stanno molto a cuore e riguardano scelte attuali di un percorso iniziato molti anni fa.
Perché Le scrivo?
Potrei prendere a prestito le parole con cui Simone Weil inizia la sua lettera a padre Couturier chiedendogli se le sue opinioni fossero compatibili o meno con l’appartenenza alla Chiesa.
Scrive Simone: "Quando leggo il catechismo del concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il nuovo testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza che la mia imperfezione pone tra essa e me. E’ una situazione spirituale penosa. Io vorrei renderla non meno penosa, ma più chiara. Nella chiarezza qualsiasi pena è accettabile".
Ecco, è per questo che scrivo, perché cerco una chiarezza che mi sarebbe di sollievo.
La mia esperienza è quella di molti altri cattolici.
Nata da una famiglia cattolica, ho ricevuto un’educazione cattolica. Ho iniziato poi un cammino personale di ricerca spirituale, prendendo le distanze da una Chiesa che mi è apparsa troppo porporata e potente, lontana da chi ammoniva che Dio ha scelto ciò che è debole e stolto per confondere i forti e i sapienti.
Ho trovato invece nelle comunità della base un terreno favorevole al cammino.
La chiesa intesa come qahal, comunità che cammina nel deserto, mi ha dato spazio per la ricerca di senso, affrontare il silenzio di Dio, dare forma ai frammenti di un percorso alimentato anche da quelli offerti da altre vie, orientate nella stessa direzione.
Ho anche incontrato testimoni credibili, come certe straordinarie figure di prete.
Ho quindi creduto che, dal mio punto di vista, fosse possibile restare all’interno della Chiesa cattolica, pur in posizione decisamente dissenziente su tante questioni, al pari di tanti altri cattolici che, anche se stentano a riconoscersi nelle così dette posizioni ufficiali, alimentano quella chiesa profetica, popolo di Dio, che da sempre è vissuta a latere, testimone spesso silenziosa del messaggio evangelico.
Il distacco dei fedeli dalle gerarchie è silente, ma ormai profondo.
Gli ultimi tempi tuttavia mi sembra che impongano di dichiarare apertamente il dissenso: di fronte alle recenti posizioni assunte dalla Chiesa romana, dalle unioni di fatto alla messa in latino, ho sentito prepotente il bisogno di esigere che quelle posizioni non fossero fatte valere in nome della chiesa cattolica: la Cei, la Commissione per la congregazione della fede e il Papa non parlano in mio nome, in nostro nome.
Nessuno ci ha consultato, nessuno ci ha interpellato.
Nella lettera motu proprio Summorum Pontificum si fa leva sulla necessità di <<trasmettere l’integrità della fede>>.
Ma la fede non è un pacchetto di dogmi da trasmettere, la fede si vive nella ricerca, nel confronto con gli altri, nell’ascolto della Parola. L’integrità della fede pare una contraddizione: come se fosse qualcosa di rigido: di integro appunto.
Non è questione della lingua ma di riconoscere che la Chiesa cattolica deve parlare di Dio, come – ed anche con – le altre Chiese, ma non in nome di Dio.
La messa tridentina di Pio V contiene l’invocazione alla conversione degli ebrei, pietra sul cammino del dialogo ebraico-cristiano. E l’autorizzazione a pregare per ‘eretici e scismatici’, pugnalata all’ecumenismo promosso dal Concilio Vaticano II.
Il Papa riceve potenti e sorridenti capi di stato separati, ma esclude dai sacramenti e dall’accoglienza i separati e divorziati senza nome, che più degli altri avrebbero invece bisogno di affidare a Dio le ferite proprie e dei propri cari.
Il Papa volta le spalle ai fedeli nel celebrare la messa nella Cappella Sistina e si muove da abile politico nelle vicende mondane.
In piazza San Pietro si radunano fedeli e atei devoti a confortare ‘la solitudine del Papa’ e mi sembra un paradosso: di fronte a un uomo potente, circondato e tutelato da un apparato di ferro e da eleganti guardie svizzere stento a ritrovare la solitudine che invece mi pare avvolga i diseredati del mondo, i tredicimila milioni di bimbi che muoiono di fame, per fare un esempio.
Potrei farne mille di esempi, ma non servirebbe per quel che mi propongo.
Mi chiedo e Le chiedo: i cattolici che vivono la fede come percorso di conversione dei cuori, a cominciare dal proprio, non dovrebbero ora manifestare il diritto-dovere al dialogo e al dissenso, non solo rispetto alle altre religioni ma anche alla gerarchia cattolica?
Esistono dappertutto cenacoli dove si svolgono riflessioni lontanissime dalle ‘posizioni ufficiali’: se la Chiesa siamo noi, perché permettere che queste non rispecchino la ricchezza della ricerca?
Io credo che il dialogo dovrebbe svolgersi a partire dalla base, in luoghi privi di potere, che formino una rete di riflessioni e coinvolgano uomini e donne a titolo personale. L’ appartenenza dovrebbe essere solo un trampolino di lancio, senza che nessuno possa arrogarsi il privilegio di essere nel Vero.
Di cosa ha paura la Chiesa? Di quali errori?
Accanto ad una Chiesa Cattolica depositaria della dottrina di fede per evitare errori, esiste una chiesa che non ha nulla da trasmettere se non il senso di una ricerca faticosa, dove l’errore può essere fecondo come l’errare e non può essere lo spauracchio per imbrigliare le coscienze e tarpare il confronto.
E allora vengo alla domanda cruciale, ancora una volta invocando Simone Weil in aiuto. Simone sapeva che avrebbe pur trovato un prete disposto ad amministrarle un battesimo oscuro e ignorato, ma aveva bisogno di chiarezza: di fronte ai suoi dubbi e al disaccordo con l’insegnamento della Chiesa, voleva che vi fosse una presa di posizione pubblica e chiara.
Così ora io mi rendo conto che i cattolici dissenzienti come me possono contare su comunità e sacerdoti accoglienti e così, nel silenzio, continuare un faticoso cammino.
Per molto tempo, come dicevo, questo mi è stato sufficiente.
Ma ora il mio percorso mi pone due domande radicali.
Ho iniziato a chiedermi se questa forma di Chiesa Ufficiale, che mira ad ottenere consenso dietro il miraggio di una solida dottrina che dia apparente definizione ad ogni questione sull’essere, abbia ancora qualche funzione da svolgere nel campo spirituale.
Ma ancora più radicalmente mi sono chiesta se i tempi siano maturi per l’affermazione di quel cristianesimo senza religione di cui scriveva Dietrich Bonhoeffer nelle sue ultime lettere dal carcere. Forse davvero- ‘le parole antiche devono svigorirsi e ammutolire’.
La fine della centralità occidentale e l’incontro tra le culture non impone di riconoscere che Dio ha molti nomi anche se è Uno? In ebraico Elohim, Dio, è un termine plurale, espressione dell’u
nità e pluralità del divino. Adonai Elokenu, Adonai Ehad: il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno. Dunque non un Dio Unico, ma un Dio Uno.
E’ vero, come scrive Balducci, che la caduta nella mondanità è un destino della fede profetica, così come è suo destino uscirne fuori, se necessario col sangue.
Ma lo stesso Balducci invitava a chiederci senza scandalo se, nell’età post moderna, si sia sciolto il nesso tra evento cristiano e religione.
E allora mi chiedo se non occorra avere più coraggio: pretendere la rinuncia da parte della Chiesa Ufficiale ai privilegi e ai diritti che ha conquistato durante la storia; chiedere che la Chiesa sia intesa come comunità in cammino insieme a tante altre Chiese e anime; rivendicare il primato della testimonianza e della scelta dei poveri e degli ultimi. Escludere ogni ingerenza in ossequio all’insegnamento di Cristo:date a Cesare quel che è di Cesare; rivendicare la fecondità del dubbio e della ricerca contro l’indottrinamento e l’omologazione eterodiretta delle coscienze.
Non penso a sincretismi religiosi né rinnego l’importanza delle radici, della propria tradizione: credo fermamente però che l’identità, la patria, la religione debbano servire a formare uomini e donne capaci di incontrarsi con identità diverse, capaci di concepire il mondo come patria comune e di accogliere l’idea che ogni ricerca religiosa ha il suo frammento di luce.
Le chiese allora, compresa quella cattolica, dovrebbero divenire semplici ostelli per cercatori di Dio.
Per quel che mi concerne potrei lasciare silenziosamente questa Chiesa potente e imperiale in cui non mi riconosco e in cui non riesco a riconoscere il volto del Cristo, che si è svuotato dell’onnipotenza per farsi umano fino alla morte.
Ma mi chiedo se non sia possibile o doveroso cercare di dar voce allo scisma silente dei cattolici. Avviare un dialogo non intorbidato dalla paura o da rigidità preconcette.
Vorrei sapere che ne pensa e Le sarei davvero grata di una risposta.
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