Lettera aperta a Carlo Rovelli sull’assassinio di Samuel Paty e le vignette che offendono Maometto
Paolo Flores d'Arcais
Caro Carlo, il tuo breve testo “Io non sono d’accordo”, dedicato all’assassinio del professore Samuel Paty, mi ha lasciato incredulo. Per motivi di salute non ti ho risposto subito, provo a farlo ora, in modo articolato, perché il tema è decisivo per stabilire cosa sarà l’Europa, e l’Occidente, nei prossimi anni e nella prossima generazione, e perché la tua autorevolezza di scienziato e intellettuale pubblico è, giustamente, enorme.
Scrivi: “Uccidere è imperdonabile e terribile, ovvio. Ma io non capisco: che bisogno c’è di offendere i musulmani?”. E due righe dopo: “Che gusto ci prova la gente a vedere e pubblicare immagini offensive di Maometto?”. Temo ti sfugga che sono due cose molto diverse.
Se io dico che i musulmani fanno schifo e sono inferiori sto offendendo i musulmani, tutti. Gli individui in carne e ossa che, in modo diverso, proclamano e praticano la fede in Allah e in Maometto Suo profeta. Se io dico che la religione islamica è aberrante, oppressiva per le donne, contiene in nuce l’idea del dominio mondiale, dunque è pericolosa, sto criticando la religione islamica, non sto insultando i suoi singoli fedeli.
Se dico che la religione cristiana è una superstizione, una follia, pericolosa perché al dunque pretende di dare a Dio (cioè alle gerarchie) anche quello che è di Cesare (chi decide infatti cosa è di Dio e cosa di Cesare? La Chiesa ha preteso di impedire il divorzio, e l’aborto, e ancora riesce a impedire il diritto di ciascuno di noi sul proprio fine vita, e dove ha la maggioranza torna a prevaricare, in Polonia abrogando l’aborto anche per i feti con terribili patologie, qualche giorno fa), io sto criticando la religione cristiana nella sua versione cattolica, non sto insultando i suoi fedeli.
Se critico la religione cattolica, o quella maomettana, non nella forma delle argomentazioni razionali ma in quella del dileggio, sempre di critica si tratta, a meno di non cancellare la satira, che per sua natura è critica emotiva eccessiva, fino allo scurrile, fino alla bestemmia. Non sto offendendo i fedeli di queste religioni, sto semmai offendendo quelle religioni, ma offendere un sistema di idee è solo una forma del diritto di criticare quel sistema di idee.
Del resto, tu stesso scrivi: “Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello”. Ma sai perfettamente che in uno Stato di diritto, ciò che non è proibito e sanzionato dalla legge è consentito, è permesso. Se dunque sei il primo a non volere che vignette del genere di quelle pubblicate da Charlie Hebdo siano proibite per legge, vuol dire che Charlie Hebdo o qualsiasi altra testata può pubblicare vignette del genere, e se qualcuno se ne sentirà offeso dovrà tollerare di sentirsi offeso, perché questo implica la convivenza civile democratica in uno Stato di diritto. Senza rischiare nulla per la pubblicazione, ovviamente, e meno che mai la morte.
Scrivi: “Io non amo la Chiesa cattolica, ma a me ha dato fastidio quando Charlie Hebdo pubblicò una vignetta in cui il papa inculava una monaca. È questa la libertà di stampa?”. A me quella vignetta è sembrata invece molto piacevole, e anche quella effettivamente bestemmiatrice (perché il dileggio del Papa non configura bestemmia, in Dante ce n’è a iosa su Bonifacio VIII e non solo, ma il dileggio di Dio sì) in cui a incularsi in “trenino” erano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma ovviamente i nostri gusti diversi devono rimanere questioni personali, non criteri per decidere cosa è pubblicabile e cosa non.
È questa la libertà di stampa? Sì, è anche questa. E sei tu il primo a sostenerlo, quando nella prima riga del capoverso successivo spieghi che non ci devono essere leggi per vietare di pubblicare questo o quello. Ma con questa affermazione bisogna che resti coerente. E se, come tu stesso scrivi, non si devono proibire, vuol dire che la libertà di stampa consiste anche nel poter pubblicare quelle vignette che a te hanno dato tanto fastidio e a me invece sono sembrate apprezzabile satira. E a molti credenti orribile, disgustosa, esecranda bestemmia.
A potersi offendere non sono solo i credenti nelle varie religioni. Un ateo può sentirsi offeso dagli infiniti sermoni nei quali, dal pulpito o nella preghiera del venerdì o in un discorso rabbinico, si spiega come egli, mancando di fede, è privo di qualcosa di cruciale per la pienezza dell’esistenza, che senza un legame con Dio è amputata di una dimensione essenziale. Tecnicamente, insomma, un ateo è un “minus habens”, ha qualcosa di meno, e ciò di cui è manchevole è essenziale per essere pienamente umano. Dunque, che bisogno c’è di offendere gli atei? Rinuncino preti e imam e rabbini e fedeli tutti a pronunciare che chi non ha la fede manca di qualcosa.
Ma capisci immediatamente che in questo modo nessuno potrebbe più sostenere la propria idea o la propria fede, perché il fatto stesso di affermarla suonerebbe offensivo agli orecchi di qualcun altro.
Immagino l’obiezione: va bene la critica, se resta tale peggio per chi la considera offensiva, è lui che si mette fuori dell’orizzonte democratico. Ma un conto è la critica, anche aspra, un conto il dileggio, l’insulto, l’offesa. Che non è ammissibile.
E il confine tra critica e offesa con quali criteri obiettivi viene stabilito, e chi lo stabilisce?
Nel 1988 lo scrittore Salman Rushdie pubblica il romanzo “Satanic verses”. Non lo ho letto, lessi a suo tempo gli estratti che i giornali inglesi (e anche qualche testata italiana) pubblicarono, con i brani o le vicende che l’imam Khomeini aveva giudicato blasfemi. Acqua di rose, rispetto alle vignette di Charlie Hebdo (verso Maometto, o il Dio cristiano). Eppure Khomeini nel 1989 emanò una fatwà di condanna a morte contro Rushdie, reiterata nel 2008 dal regime iraniano. Nel frattempo il traduttore giapponese di “Satanic Verses”, Hitoshi Igarashi, era stato assassinato da sicari khomeinisti, mentre andò meglio al traduttore italiano e all’editore norvegese, che furono aggrediti ma rimasero solo feriti.
Vi sono fedeli islamici per cui è meritevole di morte anche una critica più blanda di quella di “Satanic Verses”, o addirittura un semplice comportamento non in linea con la lettera del Corano. Per cui in molti Stati a governo teocratico islamico la donna adultera, benché devotissima ad Allah e a Maometto il Suo profeta, viene lapidata, o frustata (anche a morte), e impiccato l’omosessuale (e a morte, ovviamente, l’ateo o l’apostata). Ma esecuzioni “d’onore” per adulterio, avvengono anche nelle comunità islamiche disseminate nel cuore dell’Europa, considerate legittime o addirittura doverose, mentre gli assassini (mariti, padri, fratelli, ma spesso anche le donne della famiglia sono coinvolte) vengono protetti dall’omertà dell’ambiente contro le indagini della magistratura.
Insomma, se si cede all’idea che non è ammissibile offendere una religione o una ideologia, continuando ad illudersi che però resti legittimo criticarla, a stabilire il criterio di spartiacque sarà la sensibilità personale, la suscettibilità, l’intolleranza, il grado di fondamentalismo o di fanatismo di ciascuno. Ciò che per noi, e anche per parecchi musulmani, forse, è nel romanzo di Rushdie semp
licemente critica, per Khomeini è crimine da punire con la morte. Il criterio della “offesa” mette la legittimità o illegittimità nelle mani del più intollerante, del più fondamentalista, del più fanatico. Lo premia rispetto al tollerante, ne fa il vero legislatore. Una logica ferrea, cui si può sfuggire in un unico modo: non si possono offendere le persone, si possono invece offendere liberamente le idee, religiose o meno, cui le persone aderiscono. Sacre o profane che siano tali idee. E quale sia la modalità della offesa: dall’argomentazione razionale al dileggio della satira, anche la più feroce.
François-Marie Arouet, più noto come Voltaire, invitava cittadini e autorità a “Écraser l’Infâme”, prese anzi l’abitudine di concludere così le sue lettere, dove l’Infâme era la religione positiva e i suoi culti e gerarchie. Marx ha scritto che “la religione è l’oppio dei popoli”. Offese, ovviamente, per chi in una religione si identifica. Vogliamo bruciare i loro libri, perché qualcuno se ne sente offeso? La tua logica, Carlo, porta inevitabilmente a questo. Per fortuna che, come ho già sottolineato, tu poi la contraddici, ti contraddici, e scrivi che non vuoi leggi che proibiscano questo o quello. Ma allora devi difendere la legittimità di pubblicare questo o quello, compreso Maometto nudo svillaneggiato e il Papa che incula una monaca. Tertium non datur.
Non offenderci. Rispettarci. Naturalmente. Ma cosa significa? In democrazia non significa maneggiare coi guanti bianchi l’arma della critica nei confronti delle idee che non ci piacciono. Rispettarmi significa anzi rispettare il mio diritto di criticare, con i modi che liberamente scelgo, qualsiasi idea, fede, sistema di valori. Rispettarti significa da parte mia riconoscerti lo stesso diritto, alla tua critica anche virulenta e insultante verso la mia fede, i miei sistemi di valore, le mie idee. E così, onnilateralmente. Essere democratici significa esattamente introiettare questo diritto degli altri a offendere le mie idee, senza sentirmi offeso come persona, o, nel caso mi senta offeso, a tollerare l’offesa come prezzo ineludibile da pagare alla libertà di espressione che è anche la mia.
“Offendendoci non facciamo che alimentare la violenza, dividerci in gruppi in conflitto … fare i galli. C’è comportamento più fascista di questo?”, scrivi. Hai ragione. Io infatti offendo una persona se pretendo di limitare la sua libertà di esprimersi e di criticare le mie idee, anche le più sacre, anche nella forma più feroce che vorrà scegliere. Questo è fare il gallo.
Non farlo, non comportarsi “come gli scimpanzé quando gonfiano il petto per fare i duri” significa interiorizzare il diritto di ciascuno di criticare, dileggiare, offendere le mie idee, la mia fede. Significa riconoscere questa eguale libertà di ciascuno. Altrimenti sarà la prevaricazione censoria di ciascuno verso gli altri, e dunque la legge del più intollerante, del più fanatico, del più forte.
Cinque anni fa ho sviluppato queste idee scrivendo “La guerra del Sacro – terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Cortina editore), spinto dalla mattanza islamica dei redattori di Charlie Hebdo. Già allora fornivo una documentazione purtroppo assai ampia sulla sharia come legislazione di fatto, vigente in zone sempre più ampie dei ghetti delle metropoli europee a prevalente immigrazione islamica. Da allora le cose sono molto peggiorate. E chi si permette di criticare/offendere l’islamismo (che è una ideologia politica) o la religione islamica (che nella Sûra 4 del Corano decreta al versetto 34 “Gli uomini hanno autorità sulle donne per la superiorità che Dio ha concesso agli uni sulle altre … Le donne di cui temete l’indocilità, ammonitele, lasciatele dormir sole, battetele. Ma se vi obbediscono, lasciatele in pace”) viene accusato di islamofobia. Ma l’islamofobia è legittima quanto ogni altra teofobia o ierofobia, o quanto l’ateismofobia di tante religioni. Che deve riguardare le fedi, le dottrine, le idee, mai divenire violenza e offesa contro gli esseri umani che tali fedi o idee condividono.
La libertà di espressione non ha dunque limiti? Solo due, e molto precisi, credo. Ti riporto quanto scrivevo nel mio libro:
“Il razzismo perché nega alla radice l’eguale dignità degli appartenenti al genere Homo sapiens, volendo con ciò rendere impossibile addirittura pensare una libertà eguale. E punendola fino alla morte se prova a realizzarsi. Tollerare il discorso razzista vuol dire negare la più elementare precondizione della democrazia stessa. Non può appartenere alla vita democratica perché è già harakiri della democrazia.
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Caro Carlo, sono comunque sempre pronto a cambiare idea, se qualcuno mi fornirà argomentazione razionali più convincenti di quelle che ti ho espresso in questa lettera.
Con immutata stima e amicizia
Paolo
p.s. Nel frattempo Erdogan ha dichiarato contro la Francia una “guerra di cultura”, e altri cittadini francesi sono stati sgozzati a Nizza dall’islamismo fondamentalista terroristico. Davvero l’Europa dei Lumi e della democrazia deve piegarsi a questa nuova barbarie superstiziosa? O non diventa invece più che mai attuale l’invito di Voltaire, aggiornato negli obiettivi, “Écrasez l’Infâme”?
[i] verso del Chant des partisans, inno della Resistenza francese
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