“Lettera aperta alla sinistra di governo” di Giorgio Cremaschi e Marco Revelli

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Ripubblichiamo il testo dell’articolo di Giorgio Cremaschi e Marco Revelli pubblicato sul manifesto e su liberazione alla fine di gennaio del 2007, pochi giorni prima della manifestazione di Vicenza contro l’allargamento della base Nato. Secondo Giorgio Cremaschi, che abbiamo ieri, "già allora era evidente quello che stava succedendo. Nell’anno e mezzo successivo non si è fatto nulla per evitare il disastro che si preparava e questo è puntualmente avvenuto".

Lettera aperta alla sinistra di governo

Care amiche e cari amici della sinistra della coalizione di governo,
ci rivolgiamo a voi con questa definizione un poco logistica, perché non ne troviamo altre ugualmente sintetiche e non vogliamo far nostra quella serie di aggettivi – sinistra "radicale", "estrema", "massimalista" -, che oggi vanno per la maggiore. Quegli aggettivi, anzi, ci paiono fuorvianti dello stato reale delle cose, anche perché vengono utilizzati ogniqualvolta si voglia far credere che è questa sinistra a determinare le scelte di fondo del governo Prodi (insieme, s’intende, ai suoi guai…). E proprio qui sta, per noi, la questione di fondo. Secondo Berlusconi, la Confindustria, Corriere, Stampa e Repubblica, i riformisti e la Conferenza episcopale, il governo sarebbe ostaggio della sua sinistra estrema. Siccome a noi pare esattamente il contrario, scriviamo queste note nella speranza di ottenere chiarezza.
Vicenza, secondo noi, segna uno spartiacque. Di stile oltre che di contenuto. Di metodo prima ancora che di sostanza (che pure è spessa e pesante, incrociando valori e programmi, interessi e passioni). Fino alla decisione di Prodi di dire sì all’Amministrazione Bush e alla sua politica di guerra, poteva ancora aver luogo una certa confusa doppiezza, soprattutto sul piano dell’immagine. Ora però questa breve stagione finisce e concretezza ed effetto simbolico delle scelte, vengono sempre più a coincidere: il significato esplicito dell’esternazione di Bucarest è una porta sbattuta in faccia a tutti quelli che credono in qualcosa: ai cittadini che difendono il loro territorio (la "questione urbanistica", appunto, derubricata a "intendenza" di napoleonica memoria, che seguirebbe docile una volta definita la strategia da parte dello Stato maggiore) e ai pacifisti che continuano ad avere il torto d’indignarsi di fronte ai mattatoi a cielo aperto moltiplicati anche in questi giorni. A chi si batte per difendere la propria "qualità della vita" nel luogo in cui abita, e a chi lotta per dare un senso a quella vita. Un pugno in faccia a tutti quelli che nutrivano aspettative, in nome – si dice – dell’ "interesse superiore" (???). Del "concerto tra le potenze". Della "necessaria" sottrazione dei temi generali della politica estera al controllo e al consenso di quei cittadini di serie B che non siedono in alto, sulla cuspide della piramide decisionale ma che sono condannati a subirne le ricadute nei propri territori. Anche perché così pretendono i poteri forti interni ed esteri che condizionano la politica del nostro paese. E che sempre più aggressivamente intimano: o di qua, o di là, senza finzioni o confusioni, d’ora in poi, come chiedeva San Paolo, i sì devono essere sì, i no, no.
Purtroppo il governo Prodi giunge a questa stretta avendo già disperso un vasto patrimonio di fiducia e speranza. Per cause squisitamente politiche, per l’incapacità di dare una qualche risposta in positivo ai movimenti che in questi anni hanno percorso il paese. In questi anni non si è lottato solo contro Berlusconi e la sua politica per l’orrore morale, estetico e culturale che suscitano, ma anche per chiedere un cambiamento più profondo di quello definito da una semplice alternanza di governo. I movimenti che si sono sviluppati non erano naturalmente portati alla sintesi, anzi spesso si disponevano secondo piani differenti. Il no alla guerra, la richiesta di democrazia e di diritti civili, il rifiuto della politica liberista nell’economia e nel lavoro, la nuova affermazione di cittadinanza delle popolazioni sui propri territori, non coinvolgevano sempre le stesse persone, le stesse organizzazioni, le stesse culture, anzi. Una politica "alta" – come s’accaniscono a considerare il proprio ruolo i politici "di governo" – avrebbe dovuto costruire non diciamo una "sintesi" – di cui la Politica oggi è probabilmente strutturalmente incapace, e di cui d’altra parte i movimenti non saprebbero che farsene nella loro autonomia tematica – ma quantomeno un’interlocuzione. Un focus d’attenzione. La selezione di qualche punto significativo, di qualche tematica condivisa su cui avviare un percorso discorsivo, innescare la traccia di una qualche capacità di "rappresentanza". Il segnale che almeno un segmento – non chiediamo tutto, ci limitiamo al minimo possibile – del discorso elaborato "dal basso" possa essere introdotto nel campo chiuso della sfera istituzionale al livello decisionale più alto. Che, appunto, quel "campo" possa essere – anche solo per uno spiraglio – "aperto". Che su almeno un tema qualificante si mostri di parlare un linguaggio simile, o almeno compatibile: non il muro impenetrabile che ha dominato finora sui grandi temi che hanno visto le mobilitazioni più recenti, dalla pace all’ambiente, dalla TAV a Vicenza, appunto. Il programma di 300 pagine non ci è riuscito a incrinare quel muro (è rimasto cosa per gli addetti ai lavori, codice interno per piantare bandierine, ognuno dei contraenti sui propri temi identificanti). Ed il governo successivo ci è riuscito ancora meno.
Questo perché per costruire una politica che governi con il consenso, trovando mediazioni condivise con i diversi segmenti e soggetti individuali e collettivi che si muovono nel "sociale", è indispensabile un punto di vista. Bisogna cioè decidere – in qualche misura – di stare da una parte, di rappresentare una parte della società (non solo la sommatoria delle sue lobbies e dei diversi poteri intermedi). Delle sue sensibilità, dei suoi valori e delle sue aspettative, anche se si va al governo. Proprio perché si va al governo.
Questo sull’altro versante fa Berlusconi. Egli rappresenta fin nelle sue forme più scostanti ed ottuse, il popolo liberista. Le sue passioni (torbide, ma concrete). I suoi interessi (egoistici fino al limite della dissoluzione del legame sociale, ma plasticamente materiali). Persino le sue nevrosi. Sa benissimo qual è la "sua gente". Il suo "popolo" (se così si può dire). Lo porta alla politica, non si dimentica di esso quando governa. Il centrosinistra invece fa l’opposto. Quando sta all’opposizione aderisce a tutte le mobilitazioni. Quando si trova al governo comincia a obiettare che il paese è impazzito (e pure lo è, in alcune sue componenti, ma non certo nei settori che si sono mobilitati per la qualità della vita e per la pace. Per garanzie sociali e pensioni); che bisogna dargli buone medicine, anche se dolorose. Che, insomma, la rappresentanza politica deve astrarsi da chi vuole "essere rappresentato" e definire una sua tecnocratica astratta compatibilità, da somministrare a un popolo riottoso. Paradossalmente questa concezione del governo produce antipolitica così come il barbaro populismo di Berlusconi. Quest’ultimo, infatti, semplifica all’estremo la funzione della rappresentanza, all’opposto il centrosinistra la complica al massimo. Entrambi, così, riducono a zero lo spazio per l
a partecipazione consapevole. E incarnano una deriva oligarchica drammaticamente visibile nelle trasformazioni istituzionali degli ultimi due decenni.
Nonostante tutto, continuiamo a voler credere che, in sé, il centrosinistra non fosse inevitabilmente condannato alla politica attuale. Avrebbe potuto scegliere alcuni terreni parziali su cui fare sul serio. Avrebbe potuto fare sul serio sulla pace, oppure sui diritti civili, oppure sulla lotta alla precarietà, oppure coinvolgere le popolazioni della Valle Susa e di Vicenza nelle proprie decisioni. Avrebbe potuto scegliere una sola cosa su cui fare sul serio – su cui, appunto, lanciare un "segnale" – e vivere per un po’ di rendita sul resto. Ma neppure questo ha fatto. Su ogni terreno del conflitto di questi anni il governo appare incerto, confuso, pasticcione, incapace di produrre un vero progresso, anzi spaventato persino quando, magari per caso, decide qualche cosa che vada nella direzione di quello che veniva chiesto.
Certo non è colpa solo di Prodi se l’equilibrio politico del nostro paese si è spostato in questi anni così a destra, da far considerare – nel chiacchiericcio mediatico – come unico modello di sinistra accettabile quella rappresentata da Tony Blair. Solo in Italia si può usare il termine "deriva zapaterista" per definire una politica estremista di sinistra, da cui cautelarsi. In tutto il resto d’Europa ridono di questo paragone. Diventa però una colpa distruttiva non comprendere che fronteggiare Berlusconi dentro queste coordinate politiche significa rafforzare le sue ragioni e smontare le nostre. Questo è il danno più grave di questi mesi. Esso è ben rappresentato dal sorrisino beffardo che, sull’autobus, al lavoro, a fare la spesa, si dipinge sui volti di coloro che ci dicono "è bello chiedere quando si è all’opposizione, ma al governo è un’altra cosa". Sì, così si producono in quantità industriali rassegnazione, rabbia e disincanto. E, al di là dei destini personali dell’ex Presidente del Consiglio, si alimenta la ripresa della destra.
Siamo arrivati al dunque, le prossime settimane da Vicenza alla Valle Susa, dalle missioni militari, alle privatizzazioni, alle pensioni e ai Pacs, vedremo sempre lo stesso filmato. Ad un certo punto i poteri forti diranno basta, siate seri, siate europei, siate occidentali e il governo si piegherà. Magari rinfacciando, a chi lo accusa di non essere sufficientemente riformista, di non aver capito quanto siano avanzate le scelte adottate.
No, così non si va da nessuna parte e per questo chiediamo alla sinistra della coalizione di scegliere un tema su cui fare sul serio. Suggeriamo la pace e la guerra, la dimostrazione di una svolta esplicita rispetto alla politica di guerra del precedente quinquennio, di uno strappo perché politica "di pace" non può che voler dire soluzione di continuità nella deriva bellica che ha dominato l’inizio del secolo. Ci vuole una netta e comprensibile inversione di tendenza, spinta fino al ritiro delle truppe da quell’Afghanistan dove l’occidente sta ripercorrendo esattamente la stessa strada dell’Unione Sovietica, usando addirittura le stesse argomentazioni per giustificare la guerra. Scegliete un punto e su quello non mollate. Pretendete un segnale forte e inequivocabile di discontinuità che non sia l’eterno "ni" dell’inaffidabilità italiana, che tagli la strada a ogni possibile segno di ambiguità – la vera, più grave colpa, anche in politica estera -: non votate il rifinanziamento delle missioni militari e cambiate così, almeno qui, l’agenda e gli equilibri della politica. E se non siete in grado di fare questa o altre scelte di analogo rigore, ditelo. Non fingete di contare quando non è vero. Non rivendicate la devastante politica della riduzione del danno, che per tanto tempo assieme abbiamo considerato uno dei mali della nostra democrazia, sempre più priva di reali alternative.

Giorgio Cremaschi e Marco Revelli, gennaio 2007

(18 aprile 2008)



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