Luci e ombre dell’Enciclica “Fratelli tutti”

Luca Tedoldi

1. Le caverne e l’inevitabilità del conflitto

Di fronte al fuoco lento dei conflitti tra ogni identità specifica, tutti gli appelli all’armonia, alla pace ed alla fraternità dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Bergoglio, risuonano come delle ragioni inoppugnabili e necessarie. Benché ormai siano diversi gli alberi che accusano gli altri alberi di non saper astrarre da sé e di non saper guardare alla foresta. E dunque la controversia riguarda anche il distinguersi degli svariati universalismi, visto che, sostiene l’enciclica, una cultura che non abbracci la totalità del mondo non è una cultura. A questo punto, se il problema resta sempre la sineddoche, lo spacciarsi come perfetta pars pro toto, il prendersi come il miglior riflesso del tutto, immanentizzando a forza l’oltre e trascinandolo a terra, perché non esercitare una sospensione dell’entusiasmo, un sommesso e transitorio dubbio scettico, non nichilista né categorico, nei confronti di ogni miopia particolarista? Del resto è lo stesso pontefice che sceglie di estrapolare le parole ecumeniche di Francesco d’Assisi e di non citare quelle in cui auspica che gli islamici si convertano. Nonostante nessuno di noi creda di essere un primitivo, è probabile che rispetti pedissequamente le regole di qualche tribù, oppure che stia costruendo una propria realtà piena di conferme ed avversari esterni. Se restano poche le tracce residuali dell’ordinato Leviatano politico ed inarrestabile appare l’entropia dei risentimenti, delle rivendicazioni identitarie e di quelle società parziali che secondo l’antipluralista Rousseau facevano a fette la società, senza poterla mai ricomporre, è utile evocare il mito della caverna e le luci che rendono piacevole il restarci dentro. Siamo sicuri che tutto ciò che sappiamo essere vero, ad esempio le nostre appartenenze geografiche e religiose e non solo, non siano (anche) una comoda caverna? Ognuno può cercare e riconoscere le pareti della propria caverna (parrocchia di ogni genere, associazione, lobby, clan amicale, minoranza culturale, etc.) più o meno felice, più o meno microcosmo-rifugio: senza questo riconoscimento non può aprirsi, senza questa umiltà, non può, come il Ciaula di Pirandello, scoprire la Luna, non può esaminarsi da fuori.

2. Stanarsi

Il pesce si accorge dell’acqua solo quando esce e si scontra con il trauma dell’aria. Diversi sono stati i modi con cui la cultura occidentale ha denigrato la curiositas, reso terribili le colonne d’Ercole ed evitato di assecondare l’invenzione di un diritto all’apostasia. L’attore è più saggio di noi quando non crede a ciò che sta recitando, quando finge professionalmente un’emozione senza viverla davvero, perché è consapevole che la sua è solo una parte. Queste parti, queste selezioni della totalità sembrano facilmente naturalizzabili: pochi anni di adattamento e quell’abitudine diventa l’unico atto giusto, quelle verità che magari abbiamo ottenuto ci sembrano definitive e più ce ne affezioniamo, più crediamo che solo quelle esistano. Finito il tempo dell’apprendimento, dimenticata la nostra natura sempre mobile, open software, incompleta, come c’insegnava già Pico della Mirandola, e quell’azione diventa un automatismo indiscutibile e non ci accorgiamo più di aver espiantato il mondo, di esserci chiusi dietro una maschera, senza la capacità di un Priamo d’individuare nel nemico Achille un uomo, liberato dalla divisa di un altro colore. La bolla non è solo quella delle reti digitali, ma anche quella della nostra vita a testa non reclinata, libera dagli schermi, a volte l’esistenza di una fede o di un’appartenenza ideologica o geografica, altre volte la vita di una marginalità che, dovendo pagare il prezzo dell’inferiorizzazione, non problematizza il proprio monadismo ed anzi tenta di proteggersi spacciando per ragion critica lo stare sulla difensiva ed il ringhiare contro altri: femministe che attaccano le comunità omosessuali, queste che reagiscono sventolando il razzismo subito, le seconde e terze generazioni che rivendicano il primato esclusivo della comprensione dell’ottica postcoloniale, in un’orgia competitiva e narcisistica, ammaliata dalla rettifica e dall’identificazione distintiva, talora tribale, a fronte di un raffinamento dei poteri (sovrano, disciplinare, biopolitico, psicopolitico, panottico/digitale, etc.) che sanno benissimo come allearsi e sovrapporsi. Ed in questo scontro tra diversi universalismi morali non dovremmo includere anche la Chiesa bergogliana, che nell’enumerazione dei nemici della fraternità, si mostra, direi legittimamente, tutt’altro che inerme? Quanti nemici ha questo suo pacifismo umanitario, visto che questo testo di battaglia mostra un cattolicesimo antiglobalista, antiliberista, anticlassista, anticolonialista, antiindividualista, antitomista, antirazzista, antileghista, antinazionalista, antipopulista? Nel pollaio delle diverse identità, tra le tante caverne, non è il caso di reperire e valorizzare quelle che davvero cantano a tutti il diritto ad uscirne?

3. Come fraternizzare?

Addestrati a quello che anche Kant, nel paragrafo 40 della Critica del giudizio, chiama “pensare ampio”, sappiamo che costruire i sentieri che ci elevano alla cima dell’universale comporta il gettare a valle chi vuol restare reclinato sul proprio sottobosco. Sembra un atto di forza, ma “chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi” ed affermare, con la nettezza di Bergoglio, che: ogni possesso deve andare a beneficio di tutti; bisogna abolire le guerre, le pene di morte e gli ergastoli (sì, anche questi); non elargire ai poveri ciò che loro spetta è un furto; non basta far traboccare le briciole della nostra mensa occidentale; ogni comunità nazionale appartiene anche ad uno straniero indigente. Non si tratta né di rivoluzione né di marxismo, denunciato dalla Chiesa cattolica già nel 1891 (confusione resa possibile solo a causa della devastazione berlusconiana, per cui tutto, anche un banale rispetto delle regole civili, sarebbe comunismo). Si tratta invece della solita Dottrina sociale della Chiesa, aggiornata alla lotta contro un neoliberismo quarantennale che non ha solo smantellato lo stato sociale, ma anche l’autonomia della politica. E questa politica della fraternità è molto coerente con quella bibbia civile che ad alcuni pare in stridore con i tempi, ma che altri hanno deciso come origine e fondamento del nostro patto sociale: la Costituzione italiana. Il nemico non è il capitalismo, come fraintendono i soliti che preferiscono scegliersi avversari più deboli; il nemico è chiamato “Impero del denaro”. La società di mercato, non l’economia di mercato; quella per cui le basse pulsioni sono promosse perché incentivano la domanda e gli acquisti anche futili e quella in cui gli umani ridotti a isole consumiste sono insensibili a tutto, fuorché alla propria utilità egocentrica (Kant e Bergoglio uniti nella lotta). Tutto qui? Possiamo, come direbbe il marchese de Sade, chiedere ancora uno sforzo, sempre in nome di quella dignità umana che pare rivendicare sempre una maggiore estensione?

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Ma davvero possiamo credere che questo popolarismo della carità e della compassione sia l’unica via d’uscita dall’epoca della mercificazione di ogni bene della vita? Da quanti decenni il matrimonio tra compassione oblativa e capitalismo più o meno filantropico è pienamente felice? Quanto sono solide queste nozze dorate in virtù delle quali molti migranti nel Mediterraneo o molti zingari del campo fuori città sono molto meno sacri ed umanizzati dei gattini di famiglia? Vogliamo forse credere che l’aumento esponenziale del coefficiente di Gini si arresti grazie alle donazioni defiscalizzate dei grandi miliardari? Ci siamo dimenticati del fatto che tanti movimenti ereticali e tanti riformatori religiosi, già nel Medioevo protestarono contro l’utilitarismo pietoso, contro la borghesizzazione dell’amore del prossimo, contro un dono pro anima che non era un dunque un vero dono, ma, come disse il vescovo cattolico Massillon all’inizio del Settecento, “santa usura”, ossia vilipendio della carità? Sarà lo spettacolo mediatico quotidiano del dolore e dell’intenerimento a fermare l’incastellamento dei benestanti? Certo, non è facile immaginare l’antipatia del Vicario di Cristo nei confronti dei tanti aristo-compassionevoli ed esibizionisti delle elargizioni, che credono di poter curare i calli lasciando avanzare il cancro.
Infine, a proposito di messa alla prova della fraternità, è quasi divertente, detto col massimo del rispetto, immaginarLo in un lungo viaggio in ascensore, magari verso l’altura panoramica dell’universalismo morale, in compagnia di tanti interlocutori che potrebbero rivelarsi degli ossi duri: un cattolico tradizionalista che voglia più Gloria, meno immigrazione e meno fragilità; un omosessuale genitore, che attende una vera coerenza con questa sorta di dichiarato assolutismo dell’amore, quasi simile a quanto diceva Lucio Dalla in una sua canzone: “Si farà l’amore ognuno come gli va”; una donna che chieda un’autentica autonomia sui temi dell’inizio e fine vita, oppure un’altra che voglia accedere al sacerdozio; un cattolico sincero costretto a rinunciare alla vita sacerdotale per aver contratto matrimonio; un teologo che chieda una profonda riforma dottrinale, a partire da alcuni dogmi (il peccato originale, ad esempio). All’inizio, forse, l’Artigiano della pace leggerebbe quantomeno un certo imbarazzo negli occhi dei suoi vicini. Forse emergerebbero diversi e divergenti tentativi di trovare un dialogo rispettoso e pacifico. Ma sarebbe un viaggio molto interessante.

(8 ottobre 2020)




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