Lezioni sulla Costituzione / 2 – L’inevitabile compromesso
L’esito delle elezioni per la Costituente del 1946 sollecita una riflessione sulla straordinaria affermazione elettorale dei cattolici. Quella comunità politica non aveva giocato un ruolo particolarmente significativo nel quadro della Resistenza, e molti osservatori fin da subito manifestarono una certa sorpresa quando la Democrazia Cristiana esplose sulla scena politica come il primo partito italiano. In verità durante il ventennio fascista, attraverso una paziente tessitura culturale e politica operata da organizzazioni come l’Azione Cattolica – unitamente ad alcune esperienze di mutualismo operaio a orientamento confessionale – si erano consolidate negli anni importanti reti di discussione e formazione politica su tutto il territorio nazionale, capaci di un rapporto diretto con le masse. Come soleva ripetere Togliatti, che cercò di rispondere specularmente alla capillare presenza della militanza cattolica, in ogni parrocchia c’era una sede della DC. E in Italia le parrocchie erano (e sono) pressoché ovunque.
Proprio tra le file dell’Azione Cattolica maturarono i più importanti leader democristiani del dopoguerra. Ma un ruolo importante, nella definizione di una prospettiva politica per l’assetto del nuovo Stato post-fascista, ebbe anche l’Università Cattolica. Il democristiano Giuseppe Lazzati nel 1984 ricordava distintamente quella fase: «con Fanfani, il professor Amorth, Giorgio La Pira, la professoressa Vanni Rovighi e altri. Ci si riuniva, la sera, a casa del professor Padovani. Il tema era: pensare ad uno stato postfascista. Escludevamo, naturalmente, una reviviscenza dello stato liberale prefascista che per noi doveva essere considerato definitivamente morto»[1].
Tutto questo, da solo, non sarebbe bastato. Oltre all’appoggio del Vaticano, in un Paese a larga maggioranza cattolico, e degli Stati Uniti, che sempre di più si decisero a vincolare il proprio sostegno per la ricostruzione alla permanenza democristiana al governo (quale garanzia di pace sociale e sicurezza in un quadro internazionale comunque ancora agitato dagli strascichi del conflitto e dall’incipiente Guerra Fredda), la DC godeva di anche di un vantaggio di posizione. La collocazione centrale nel quadro politico era assai favorevole. A destra, infatti, monarchici e liberali versavano in una grave crisi di credibilità, ed erano incalzati e scavalcati dal nuovo movimento distruttivo fondato dal commediografo Guglielmo Giannini, denominato emblematicamente “Movimento dell’Uomo Qualunque”. Tuttavia, il pittoresco grido antipolitico dei qualunquisti non poteva in alcun modo proporsi come forza di governo. Pertanto, gran parte dei ceti agiati e dei moderati italiani confluirono nella DC, che appariva come l’unico possibile argine ai partiti di massa della sinistra. Anche il notabilato meridionale, poco a poco, si spostò verso il centro. Eppure, l’esistenza di aree del cattolicesimo comunque sensibili alle questioni sociali e provenienti dall’esperienza del mutualismo operaio, fece in modo che la DC riuscisse a rappresentare in parte anche le istanze provenienti da sinistra. Nella partita dei primi governi e del processo costituente, dunque, furono i democristiani a dare le carte.
Sul fronte opposto, potrebbe apparire sorprendente, a uno sguardo ingenuo, l’eccezionale moderazione politica, e disponibilità al compromesso, che caratterizzò l’atteggiamento del PCI in questa fase. Stalin non intendeva trascinare l’Unione Sovietica in un confronto con le potenze occidentali per il controllo dell’Italia, cosa che sarebbe parsa inevitabile se i comunisti italiani avessero tentato una forzatura politica. L’idea fondamentale di Togliatti era dunque quella di procedere gradatamente alla conquista democratica della maggioranza elettorale, per portare il Paese nell’orbita sovietica attraverso il supporto di un partito di massa capace di creare radicamento e consenso. Ma per fare questo, era necessario definire un quadro di regole democratiche che fosse condiviso dalle altre forze consolidatesi nell’ambito della Resistenza. Tali regole avrebbero in primo luogo tutelato il PCI nel caso in cui fossero state le forze del centro-destra a tentare di marginalizzarlo. Con questa strategia il PCI riuscì di fatto a gestire la transizione dal dopoguerra alle consultazioni del 1948 insieme alla Democrazia Cristiana, garantendosi alcuni strumenti normativi che ne protessero, negli anni successivi, l’agibilità politica. Giorgio Amendola, noto dirigente del PCI, descrisse molto bene lo spirito di Togliatti rispetto al progetto di Costituzione: «fin dall’inizio, Togliatti aveva dato il massimo valore alla nuova Carta costituzionale: ed era stato appunto per dedicarsi interamente a questo compito, oltre che per ridurre l’identificazione del partito col governo, che nel luglio 1946 non aveva più assunto un incarico ministeriale. Dare all’Italia una Costituzione sinceramente democratica aveva per lui un’importanza essenziale, rientrava in quella sua visione lungimirante di una marcia lenta ma sicura verso forme di democrazia avanzata e poi di socialismo» [2].
Al tempo stesso, l’atteggiamento moderato ne facilitò la trasformazione in partito di massa, in concorrenza diretta con l’altro partito della sinistra popolare, quello socialista, che possedeva un maggiore radicamento nella storia nazionale. Per ragionare su un dato concreto, occorre considerare che il PCI contava 5-6.000 tesserati nel 1943, mentre alla fine del 1945 si arrivò a 1.800.000, organizzati in una distribuzione capillare di cellule e sezioni in ogni angolo del Paese. Togliatti riusciva a muoversi su quel filo d’ambiguità, che gli consentiva di far crescere la partecipazione. Egli si dimostrò infatti collaborativo e moderato nella trattativa politica di governo, indossando poi l’abito dell’acceso rivoluzionario nella dimensione del comizio, e talvolta nei suoi articoli pubblicati su L’Unità. Egli lasciava che l’attesa dell’ora X seguitasse a vivere e a esaurirsi lentamente da sola. In tal modo Togliatti riuscì ad ancorare le masse a una politica sostanzialmente moderata. Eppure evitò che, proprio per mancanza di prospettive, esse precipitassero in una forma di scoraggiamento storico, che lascia sempre spazio alle peggiori forme di individualismo e opportunismo. Per questo motivo la borghesia era indotta a credere che i passaggi più accesi dei discorsi di Togliatti fossero solo un espediente per garantirsi il sostegno della base, mentre i militanti erano persuasi che il moderatismo del loro leader fosse solo parte di una sottile strategia rivoluzionaria, per ingannare la borghesia.
Si giunse così al 1947, un anno decisivo per la definizione del testo costituzionale. La prima bozza fu predisposta, su indicazione del presidente dell’Assemblea Giuseppe Saragat, dalla Commissione dei Settantacinque, guidata da Meuccio Ruini, e articolata in tre sottocommissioni: la prima, per la definizione i diritti dei cittadini (coordinata dal democristiano Umberto Tupini); la seconda, destinata a ridisegnare l’ordinamento dello Stato (assegnata alla responsabilità del comunista Umberto Terracini); la terza, per i temi etico-sociali (guidata dal socialista Gustavo Ghidini).
Una volta completata la stesura del testo, il 4 marzo 1947 ebbe inizio la discussione generale sul progetto di Costituzione, su cui si misurarono 22 autorevolissimi relatori, e che sarebbe stata poi seguita da un confronto allargato in merito ai singoli articoli. Non c’era un testo da aggiornare. L’istanza della scrittura di una nuova Costituzione era a tutti gli effetti una necessità storica. Lo Statuto alberti
no era stato di fatto scardinato dal fascismo, che ne aveva gettato in disuso molte parti attraverso l’istituzione di nuove organizzazioni di potere introdotte dal partito. Ma soprattutto si trattava di un documento strettamente legato all’istituto della monarchia, elargito dal re ai propri sudditi, che in quel testo non vengono mai considerati cittadini. Nello Statuto la religione cattolica era immediatamente individuata come la sola religione di Stato (pur dichiarando tolleranza per le altre fedi); vi compariva l’ereditarietà del trono secondo la legge salica. Delle due camere cui era affidato il potere legislativo (condiviso con il re) – la Camera e il Senato – quest’ultimo era interamente di nomina regia. Al re competeva non solo il potere esecutivo, ma anche il comando delle Forze armate, la politica estera, la nomina delle cariche dello Stato, la promulgazione delle leggi, l’emanazione di regolamenti, la convocazione e lo scioglimento delle Camere, il potere di grazia. Pochi e incerti invece i diritti e i doveri dei cittadini. La giustizia, come emanazione dal re, era affidata a giudici e istituti di nomina regia. Di fatto, il sovrano avrebbe esercitato il potere esecutivo attraverso la nomina di ministri, in particolare di un primo ministro, di sua fiducia. In ogni caso, l’eccessivo potere attribuito all’esecutivo nella Carta ottocentesca, era stato interpretato dai più come uno dei fattori che avevano favorito l’affermarsi del totalitarismo in Italia. Con l’avvento del fascismo, infatti, bastarono pochi provvedimenti per liquidare le fragili libertà individuali definite dallo Statuto, e procedere, anno dopo anno, all’abolizione della Camera elettiva – sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, all’affermazione come organo dello Stato dello stesso Partito unico fascista, e la conseguente istituzione dei Tribunali speciali per la difesa dello Stato, quale strumento di controllo e contrasto di ogni possibile opposizione.
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